Il film Satantango, del regista ungherese Bela Tarr, fu girato nel 1994. Vi si narra il collasso d’una fattoria collettiva, ai tempi del comunismo. I pochi abitanti si lasciano andare alla vita, persa ogni speranza per un futuro migliore. A loro, resta soltanto la bottiglia d’alcol. La noia nichilistica di tutti è però improvvisamente scossa, quando si sparge la notizia che il pseudo-santone Irimias, ufficialmente dato per disperso, tornerà in paese (assieme al suo guardaspalle Petrina). Gli abitanti cominceranno a temere che dovranno andarsene. Lo spettatore può sapere che il comando di polizia zonale ha affidato ad Irimias una missione segreta. Egli chiederà ai vecchi compaesani tutti i loro risparmi, promettendo che li baratteranno con un vero lavoro (senza più l’abitudine alla puzza del bestiame, o dei campi arati). Ma sarà solo un inganno, virtualmente per lasciare che il comando di polizia distrugga la fattoria.

 

Satantango ha il bianconero fotografico, permettendoci di percepire la vitalità smorta dei compaesani. La sua durata al cinema è di ben 435 minuti. Una lunghezza che segue la dilatazione dello spleen esistenziale. Sembra che la gente voglia solo ubriacarsi. Ciò alla fine comporta un profondo e lungo addormentarsi. La volontà d’abbandonarsi alla frenesia della vita inevitabilmente si contraddirà. Bela Tarr usa piani-sequenza che durano 10 o persino 15 minuti. Allora, l’azione dei personaggi finisce per addormentarsi. Noi vedremo quasi esclusivamente il loro ambiente circostante. Il film vale esteticamente per la fangosità nelle relazioni sociali (costruite sulle menzogne od i sospetti), e la piovosità del destino (il quale incombe se non ferendo quantomeno appesantendo la vita, con le sue complicazioni). La desolazione delle terra ungherese è solo in piccola parte dovuta al crollo dell’utopia collettivistica.

In Satantango, lo Stato mantiene il suo potere coercitivo, grazie alla stazione di polizia zonale. I discorsi del comandante (ricevuti Irimias e Petrina) paiono chiari: “Qui tutto dipende dal mio umore… Le gente non ama la libertà, ne ha paura…” . Lo Stato, con la polizia, imporrà ancora il suo ordine sociale. Esso agirebbe paradossalmente liberando tutto il popolo, mentre ne controlla l’individualismo. E’ l’utopia del collettivismo. Esteticamente, interessa che il comandante faccia derivare il potere dal mero umore. Il film Satantango è costantemente bagnato in via percettiva. Gli umori delle persone paiono sempre umidi. Ognuno è sospettoso nei confronti degli altri: per i tradimenti sentimentali (tramite la procace signora Schmidt), o per le furberie sugli affari (specialmente, dal signor Schmidt). Lo pesudo-santone Irimias porta a compimento il destino, quando esso letteralmente precipiterà sui personaggi.

Bela Tarr sceglie di non mostrarci la distruzione della fattoria. Solo, accade che gli abitanti taglino un armadietto, usando il badile. La lama precipita sul legno, come la pioggia autunnale. Nel film, muore solo l’innocente Estike. Lei è ancora una bambina, ciononostante ha già raggiunto la maturità sociale, capendo la desolazione della vita ubriacata, dentro la fattoria. Estike arriva a seviziare il suo amato gattino. E’ la percezione fangosa della vitalità. Il gattino sembra trito e ritrito nella mani di Estike, come nel campo da arare. La morte però accade in modo più rarefatto. Estike avvelena prima il gatto, e poi se stessa. La morte sopraggiunge dolcemente, senza alcuna precipitazione. Torna comunque la percezione dell’umore, in quanto il veleno va bevuto. Estike muore dolcemente, perché il destino va percepito nell’astrattezza di se stesso. L’universalità pare qualcosa che si distenda sopra i singoli enti. Il veleno si diffonderà su tutto il corpo. L’universalità del destino, nelle intenzioni del regista, andrà “bevuta” da Estike, siccome per lei “gli angeli vedono e capiscono… non c’è nulla da temere. La bambina avrebbe il dono della fede. Qualcosa che le permetta più astrattamente un bagno, sotto la pioggia battente, senza subirne il taglio (per le punte delle gocce). Nella scena iniziale, l’inquadratura rimane fissa. Un gruppo di vacche compare da lontano, uscendo dalla propria stalla. Lentamente, la macchina da presa inizia a seguirne il pascolo. La carrellata in orizzontale ambiguamente può mantenere la fissità dell’inquadratura, quando il nostro sguardo si fa parare, dai muri di più stalle.

Bela Tarr cerca un’immagine frapposta. Come le vacche scorrazzeranno per l’aia, così la nostra visione si dipanerà oltre le varie pareti. Forse Satantango va percepito nella frapposizione del destino sulla vita dell’uomo, col primo che rallenterà la seconda. La pioggia in qualche modo taglia ed appesantisce. Essa ci ostacola, e per Tarr anche a suo piacimento. Nella scena in cui gli abitanti lasciano il loro paese, il tergicristallo del loro camion gira in maniera solo disordinata (senza alcun ritmo). Il regista inquadra la luce quasi esplosivamente tramite un suo varco in profondità. Agli inizi del film, ad esempio, la comparsa dell’uomo avviene dalle nostre spalle. Sarà la prima testimonianza del continuo fronteretro chiaroscurale in cui si rallenta ogni azione individuale. Spesso i personaggi si nascondono e (paradossalmente) non si nascondono. Basta inquadrarli dalla loro schiena. Bela Tarr non nega la vitalità dei personaggi. Ma questa pare appesantita (dalla noia nichilistica). Nell’oscurità di tutti i personaggi, resta il varco d’una luce continuamente in attesa d’attrarli a sé.

C’è una scena in cui la cinepresa abbandona il nostro punto di vista per avvicinarsi alla finestra, quasi entrandovi. Ma alla fine le tendine non s’apriranno più. E’ il contraltare percettivo, in chiave ambientale, della figura umana che si muri esibendo solo la propria schiena. Nel film Satantango, l’illuminazione resta costantemente sulla soglia di sé. Gli uomini possono darsi le spalle fra di loro, appoggiandosi ai muri delle stalle, come se giocassero a nascondino (mentre spiano). Però, solo la regia proverebbe a contare il momento buono per passare all’azione. La narrazione evita sempre ogni forma di suspense. I personaggi si nasconderanno e basta. Le loro discussioni paiono inconcludenti. La stessa missione del falso profeta Irimias, agli occhi dei suoi antagonisti, sarà più il frutto d’una suggestione (innanzi al sacrificio di Estike), che non d’una coercizione. Invece, i movimenti della macchina da presa potrebbero contarsi. All’inizio del film, c’è una carrellata in orizzontale. Noi vediamo in successione le figure del vaso, del muro, della vacca e del rubinetto. La regia avanza una sorta di countdown nichilistico. Un po’ alla volta, la scenografia si spoglia della presenza antropocentrica (data dai vasi e dai muri) per diventare più naturalistica. Allora, la regia troverà l’universalità della piatta inquadratura fissa. In realtà, alla fine resta il rubinetto, che permette alla vacca di bere. La naturalità dell’acqua simbolicamente sarà già in via d’annullamento. Paradossalmente, pare che il rubinetto strozzi la vitalità della vacca, incombendo su questa. L’acqua sarà appesantita non solo dal più naturale diluvio, ma pure nell’antropocentrismo della sua canalizzazione. Frequentemente, il film mostra che i personaggi si lavano entro una piccola bacinella. Non ci pare una scelta praticissima. Sembra difficile lavarsi bene in così poco spazio. La bacinella sarebbe il contraltare artificiale della più naturale pozzanghera. Mancando una vera e propria immersione nell’acqua (dalla vasca), il corpo nudo si comporterebbe come il fango, che subito appesantisce il bagnato.

Nel film Satantango, la regia ci aiuta a percepire i movimenti virtualmente piovosi della vitalità umana. Bela Tarr cercherà un’inquadratura che scandisca il compiersi del destino avverso ai compaesani. C’è una scena in cui noi vediamo prima il braccio d’un uomo, e poi un bicchiere sul tavolo. La cinepresa si sposta lentamente, in orizzontale. Il braccio si distende, e la mano prenderà il bicchiere. E’ il momento in cui l’uomo vuole bere. In seguito, il braccio si distende in direzione opposta, rimettendo il bicchiere sul tavolo. La scena si ripeterà ancora. L’inquadratura si percepirà in via pendolare. Ma è un countdown che, per l’appunto, non porta a nulla, lasciando che il personaggio del bevitore semplicemente s’addormenti. Il braccio, incurvato per prendere il bicchiere, avrà la stessa configurazione del rubinetto per le vacche. Ciò conferma la percezione estetica che la vitalità si faccia strozzare. Il film Satantango è interamente costruito sull’inerzia narrativa. La stessa missione di Irimias accade solo astrattamente. Il rubinetto strozza la vitalità della vacca, ed il braccio che prende il bicchiere (col vino al posto dell’acqua) quella dell’ubriacone.

Il film Satantango va percepito nella continua frapposizione degli elementi scenografici. La visione del rubinetto taglierà quella della vacca, la visione del braccio taglierà quella del bicchiere, magari nell’alternanza di se stesse (quando la macchina da presa si sposti da sinistra a destra, o viceversa). Non c’è alcuna flessibilità percettiva. Ove l’inquadratura si faccia binaria, il primo elemento parrà semplicemente spalmato sul secondo, nella solita pesantezza della loro fangosità. Anche per questo, uno dei personaggi si lamenta del suo spleen esistenziale dichiarando: “La flessibilità è ciò che ho perso”. Nella scena più famosa del film, Bela Tarr usa un piano-sequenza di 15 minuti. L’illusione che l’alcol rivitalizzi fermenta sul ballo dei compaesani, al bar. In realtà, malinconicamente noi percepiamo che loro si lascino andare al solo addormentarsi. Là, manca completamente ogni flessibilità coreografica. I compaesani si limitano ad allargare le braccia, così da spalmare la fermentazione dell’alcol.

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