Marco Giallini

Marco Giallini – Anche se calca i palcoscenici e compare sul grande e piccolo schermo da più di un ventennio, solo ultimamente ha ricevuto i riconoscimenti che merita, per via di una critica forse distratta e dei progetti un po’ defilati cui ha spesso partecipato.

 

Molti lo conoscono come ottimo “caratterista”, avendolo visto al fianco di colleghi come Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Sergio Castellitto e Carlo Verdone – gli ultimi due lo hanno anche diretto – ma il termine gli sta davvero stretto, perché in queste collaborazioni non si limita a supportare, anzi riesce con tale efficacia a ritagliarsi uno spazio autonomo, che i suoi personaggi restano impressi nella mente dello spettatore quanto quelli interpretati dai colleghi. Qualche esempio? L’agente immobiliare e gigolò Domenico Segato in Posti in Piedi in Paradiso, il fratello cocainomane di Verdone in Io, loro e Lara, o, per tornare agli inizi sul grande schermo, il delinquente Maurizio, degno compare di Valerio Mastandrea ne L’odore della notte, o ancora, il padre infantile, pazzo per le donne ne La bellezza del somaro. Il primo vero successo, però, è arrivato in tv, grazie alla partecipazione alla serie Romanzo Criminale, in cui ha vestito i panni del Terribile, riscuotendo un grande sèguito. Il 2012 è stato per lui l’anno della consacrazione – Ciack d’oro come personaggio cinematografico dell’anno – dovuta non solo alla già citata e spassosa interpretazione di Segato, ma anche al complesso ruolo del poliziotto Mazinga in ACAB – All cops are bastards, per i quali è stato premiato col Nastro d’Argento ed ha ottenuto la nomination al David di Donatello. Perciò, se ancora non lo conoscete, o non sapete il suo nome, oggi non avete più scusanti.

Marco GialliniStiamo parlando di Marco Giallini: attore ormai di lungo corso e d’indubbio talento, lo si apprezza, oltre che per i connotati estremamente cinematografici – il viso di chi ha intensamente vissuto, lo sguardo all’occorrenza cinico, con occhi a fessura, l’andatura dinoccolata, stile vecchio western – per la versatilità che gli permette di dare corpo a oscuri criminali o delinquentelli di bassa lega, così come a poliziotti o commissari, uomini beffati dal destino o da scelte sbagliate; ma anche di stupire, come ha fatto negli ultimi anni, con una straordinaria capacità di rappresentare comicamente, svelandola, quell’Italia un po’ cinica, un po’ cialtrona, che insegue il miraggio della vita facile, che cerca scorciatoie, per ritrovarsi poi sistematicamente disillusa ad arrabattarsi in una difficile realtà quotidiana, a rischio di perdere perfino la propria dignità.

È il 4 aprile del ’63 quando Marco Giallini nasce in un quartiere popolare di Roma lungo la via Nomentana, dove vive tutt’ora e dove gli amici, fin da ragazzo, lo chiamano Giallo. Nasce in una famiglia operaia, il padre lavora alla fornace e ha la passione per il cinema e il teatro, che influenzerà fortemente il figlio Marco. L’attore in alcune recenti interviste ha parlato molto di quest’influenza, raccontando aneddoti come quello che lo vuole bambino assieme al padre ad assistere al set di un film di Blasetti, o quello in cui il genitore rischiò l’incidente in moto – altra passione che Giallini ha ereditato – pur di andare a stringere la mano ad Amedeo Nazzari, che aveva visto passare. A 17 anni va a teatro con la famiglia a vedere Enrico IV e decide che farà l’attore. Ma da lì a realizzare il suo sogno passerà tempo e occorrerà impegno e costanza per mettere a frutto le doti naturali di Giallini. Fin da ragazzo, coltiva anche la sua altra grande passione: la musica, il rock in particolare, che per lui conta come, e forse più del cinema. Nell’ ’81 forma un gruppo assieme ad alcuni amici: i Monitors. Ma il suo destino è quello di stare sul palco in un altro modo. Tutt’ora, però, suona il basso, ha una sterminata collezione di vinili e cd – se siete curiosi potete affacciarvi sul suo sito e troverete alcuni tra i suoi brani e dischi preferiti – ha partecipato a diversi video musicali (di Frankie HI NRG, Daniele Silvestri, Marina Rei, Max Pezzali e da ultimo Duke Montana). Si è anche prodotto in un dj set assieme a Valerio Mastandrea.

Tornando agli inizi in fatto di recitazione, invece, la sua formazione parte dal teatro. È il 1985 quando frequenta la Scuola di teatro “La Scaletta” a Roma, che inaugura la sua formazione accademica. Nel frattempo però, realista e instancabile lavoratore, resta coi piedi ben piantati a terra e lavora come imbianchino e scaricatore di bibite. Ancora oggi rivendica quest’esperienza decennale da operaio, così come il suo legame con il quartiere, gli amici e la vita “di strada”. Negli stessi anni conosce quella che sarebbe diventata la compagna di una vita, Loredana, con cui avrà due figli, Diego e Rocco.

Esordisce sul palcoscenico nell’‘88, diretto da Ennio Coltorti, poi sarà la volta dell’Adelchi di Arnoldo Foà (‘93), con cui lavorerà ancora l’anno successivo. Nel ‘95 inizia la sua collaborazione con Angelo Orlando, che lo vuole sia per il suo spettacolo Messico e nuvole, che per il suo primo film da regista, L’anno prossimo vado a letto alle dieci. Così Giallini approda al grande schermo. È di nuovo in teatro con Orlando nel ’96. Mentre nel ’98 ha un’occasione insperata: Marco Risi lo nota a teatro e lo inserisce in un cast con Monica Bellucci, Alessandro Haber, Giorgio Tirabassi, Ricky Memphis per comporre un affresco corale grottesco sulle miserie italiane, L’ultimo Capodanno. Il film non è un grande successo di pubblico, ma per Giallini è comunque un’importante chance che dà buoni risultati personali. A proposito, l’attore ha ricordato: “Marco Risi mi ha salvato la vita. (…) Non credevo che avrei più fatto cinema, mi sarei dato solo al teatro” (e invece “incassa” l’apprezzamento di Vittorio Gassman). Così insiste, e lo stesso anno, offre un’ottima interpretazione ne L’odore della notte di Claudio Caligari, tra le tante accanto al collega e amico Mastadrea. Il film, ispirato alle reali vicende di una banda di rapinatori che prese di mira la ricca borghesia romana sul finire degli anni ’70, sbarca pure a Venezia fuori concorso, e per questo è, tra i lavori giovanili, quello rimasto più nella memoria del pubblico. Sempre con Valerio Mastandrea, Giallini è il coprotagonista di Barbara, di nuovo sotto la guida di Angelo Orlando. Comicissima e surreale pellicola d’impostazione teatrale, imperniata sul gioco di contrapposizione tra i caratteri di due amici, Aldo e Pino, interpretati dai due attori romani, messi a dura prova dall’attesa infinita di una fantomatica Barbara, ammanettati a un letto, mentre intorno a loro si avvicendano strampalati personaggi. Anche questo non sarà un successo, ma piuttosto una di quelle chicche che, se viste, non si dimenticano.

Marco Giallini: da esperto caratterista a personaggio dell’anno

Il nuovo millennio si apre con la partecipazione al pluripremiato esordio cinematografico di Alex Infascelli, Almost Blue, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Lucarelli. Qui l’attore è un commissario, al fianco di Lorenza Indovina, Claudio Santamaria e Rolando Ravello. L’anno successivo, un altro esordiente, Nicola Rondolino, lo chiama come protagonista assieme a Valerio Binasco del suo noir Tre punto sei, in cui Giallini veste ancora i panni del delinquente. Nel 2002 partecipa al primo lungometraggio di Francesco Falaschi, che lo vuole impegnato in una commedia a quattro con Cecilia Dazzi, Elda Alvigini e Pierfrancesco Favino, che avrà l’occasione  di rincontrare su diversi set. Fin qui, dunque, pellicole anche riuscite, ma piuttosto di nicchia, che non contribuiscono al riconoscimento esteso del talento di questo attore valido e instancabile. Ha cominciato, infatti, a impegnarsi già da alcuni anni anche in tv, dove prende parte al film diretto da Antonello Grimaldi, Gli insoliti ignoti. Come s’intuisce dal titolo, che omaggia il capolavoro di Monicelli, il film tratta di un furto: quello di un quadro, organizzato da Cosimo e Ruggero (la coppia Mastandrea-Giallini) con l’aiuto della moglie di Cosimo, Marisa (Carlotta Natoli), che lavora proprio al museo in cui il quadro è custodito. Giallini e Mastandrea ben caratterizzano le figure di questi due ladri dal volto umano, delinquenti improvvisati, forse per necessità, o forse piuttosto, per provare il brivido di riuscire in un’impresa che a prima vista sembra impossibile. È proprio questa umanità che colpisce, avvicina e fa identificare lo spettatore, quella che li convincerà, alla fine, a fare “la cosa giusta”.

Al cinema, Giallini ritrova Alex Infascelli, che lo dirige nella sua opera seconda Il siero della vanità (2004). Ma questo è anche l’anno di Non ti muovere, che porta Giallini nei territori di un cinema d’autore più universalmente riconosciuto. Sergio Castellitto  gli offre infatti la parte del suo migliore amico, Manlio, nel film tratto dal romanzo di Margaret Mazzantini, che vede protagonisti lo stesso Sergio Castellitto e Penélope Cruz. Nel 2005 è in Amatemi di Renato De Maria, con Isabella Ferrari. Il 2006 porta l’occasione di lavorare con Paolo Sorrentino, che allora è al suo terzo lavoro, ma già si è fatto apprezzare come esponente della rinascita cinematografica italiana. Giallini entra così a far parte del cast de L’amico di famiglia nel ruolo di Attanasio.

Il nostro attore non disdegna però altre incursioni in tv. In coppia con Mastandrea dà vita alla divertente miniserie, Buttafuori di Giacomo Ciarrapico, in onda sulla Rai. I due lavorano alla discoteca UFO e ogni sera sono di fronte a situazioni nuove, che trasformano in gag esilaranti innescando riflessioni, mostrando debolezze, e filosofeggiando (soprattutto il personaggio di Giallini, Sergej) con un lessico tutto loro e un misto di realismo e nonsense. L’esperimento dura poco ma è interessante e diventa col tempo un vero cult. L’anno dopo, Giallini è sotto gli occhi del grande pubblico con una fiction più mainstream. In Medicina generale, infatti, all’attore romano è affidato il ruolo di un medico senza tanti scrupoli, che sbaglia – esercita senza averne il titolo – che non è tutto d’un pezzo, ma capisce i suoi errori e li paga, riscattandosi anche con una profonda umanità, un forte senso dell’amicizia e della lealtà. L’attore lo caratterizza al meglio.

Ed è sempre dalla televisione che viene, come ha ricordato lo stesso attore, la svolta della sua carriera. Con la serie tv Romanzo criminale, in cui è di nuovo un duro criminale, un truce Terribile (dal 2008 al 2010), che impersona in modo spontaneo e verace, coadiuvato da un invidiabile physique du role, Giallini diviene noto al grande pubblico. Complice anche la rete, dove la scena della sua dipartita è tra le più cliccate. Nella serie diretta da Stefano Sollima, il Terribbile è senz’altro tra i personaggi più riusciti, più credibili, che riesce a rendere vivo e vibrante quell’affresco di genere per altri versi un po’ troppo facile e televisivo. Ciò si deve largamente allo spessore, alla capacità espressiva a tutto tondo che un attore di lunga esperienza e indiscussa bravura come Giallini ha saputo dare al ruolo. La popolarità arriva meritata e forse, ormai, inaspettata.

Partecipa anche a due stagioni de La nuova squadra, ma soprattutto, torna al cinema, dove si fa apprezzare dal pubblico e finalmente anche dalla critica per alcuni ruoli comici, in cui mostra una straordinaria abilità nel dare coloriture vivide, accenti estrosamente geniali a personaggi che rappresentano, ciascuno con le proprie peculiarità e sfaccettature, italiani mediocri, ipocriti, bugiardi, fedifraghi, approfittatori, vigliacchi, ma anche, all’occorrenza, di una sarcastica e disarmante franchezza. Col suo estro d’attore, Giallini riesce a far ridere e sorridere lo spettatore, rendendo i suoi personaggi perfino simpatici.

È il 2009 infatti, quando un altro romano doc, un pilastro del cinema nostrano come Carlo Verdone, decide di sfruttare il suo talento comico in Io, loro e Lara, ed è per molti una rivelazione. “E’stato un film che ha cambiato la mia vita professionale”, ha dichiarato Giallini in un’intervista. “Carlo mi vedeva nei film in cui facevo il duro, il criminale, ma secondo lui avevo anche delle potenzialità comiche”. Verdone, qui attore e regista, affida a Giallini il ruolo di un personaggio sopra le righe: suo fratello, il cocainomane Luigi Mascolo, che lavora in banca, traffica in borsa, ipocrita e assai attaccato al patrimonio dell’anziano padre. Non meno ipocrita si rivela la sorella Beatrice/Anna Bonaiuto, mentre Verdone stesso interpreta il fratello sacerdote, quello più assennato, dai sani princìpi che, tornato dall’Africa, sperava di trovare in famiglia accoglienza, aiuto, sostegno, mentre sarà lui a doverli dare per riportare un po’ di stabilità in una situazione fuori controllo. Per il ruolo di Luigi, Giallini riceve la sua prima candidatura ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento e accresce la sua popolarità presso il grande pubblico.

L’anno successivo è nuovamente diretto da Sergio Castellitto ne La bellezza del somaro, commedia corale che pone al centro un’acuta riflessione sui genitori di oggi. I protagonisti sono tutti, o quasi, alle prese con figli adolescenti coi quali non sanno come porsi, inadeguati al proprio ruolo, assorbiti dai propri problemi. Amici, più che genitori, forse perché rifiutano lo scorrere del tempo, l’idea di invecchiare. Il personaggio interpretato da Giallini non può che essere anch’egli un padre manifestamente inadeguato: infantile fino all’estremo, impazzisce dietro a ogni donna, a volte imbarazzante perfino per gli amici, nel migliore dei casi ininfluente per il figlio. È però anche l’amico simpaticone, sguaiato, ridanciano, che non si perde mai d’animo, pur sapendo di non essere il massimo, né come padre, né come uomo. Altra interpretazione portata a casa con successo (memorabile la sua entrata in scena col quadro di Courbet, o la rassegnazione con cui pronuncia la domanda, quasi retorica, rivolta al figlio: “So’ stato un padre de merda?”). Un altro passo verso il ruolo cinematografico che gli darà maggior successo.

Proprio nel momento forse più duro e difficile della sua vita, quello in cui perde la moglie Loredana, c’è il lavoro, ci sono i due figli di tredici e sei anni, oltre a una dura scorza, ad aiutarlo a ripartire, ad andare avanti. Carlo Verdone lo ha chiamato di nuovo. Stavolta il regista lo vuole assieme a Pierfrancesco Favino, Micaela Ramazzotti, e a sé stesso, come protagonista di quella che a oggi è l’ultima fatica dell’attore e regista romano: Posti in piedi in Paradiso. È così che nasce una delle interpretazioni più brillanti della carriera di Giallini. Verdone, Favino e Giallini sono tre padri in difficoltà: alle prese con una vita precaria, economicamente e socialmente, separati, ma ciascuno con una famiglia da mantenere, che decidono di unire le loro poche forze per cercare di cavarsela. Il film rispecchia molto bene, anche mettendola in burla, la realtà italiana degli ultimi anni, dove l’arte di arrangiarsi sembra essere tornata d’estrema attualità. Favino è un critico cinematografico, cacciato dal giornale in cui lavorava per via di una relazione con la moglie del suo capo.

Verdone è un ex produttore discografico, ha un negozio di dischi e memorabilia che rischia di chiudere e che gli fa anche da casa.  Ma il personaggio di Domenico Segato è quello che più spicca, il più estremo, eppure realistico, il più sfrontato e irresistibilmente comico nella sua tragicità: un agente immobiliare col vizio del gioco, che per arrotondare fa il gigolò di facoltose signore in età, è separato dalla moglie (o meglio, dalle mogli) e ha diversi figli, della più piccola neppure ricorda il nome. Per lui ipocrisia e falsità sono all’ordine del giorno (spassosissima in proposito, tra le tante scene, la telefonata iniziale sulla barca). Per guadagnare farebbe di tutto, anche rischiare la salute col viagra, perché “vacce te co’ mi nonna, altro che il viagra, er plutonio te ce vorebbe!”, o perfino rubare. Conduce una vita assurda e strapalata, che per lui è la normalità. Giallini lo impersona egregiamente, con una disinvoltura e una naturalezza estreme. Il film riscuote uno straordinario successo di critica e pubblico, con particolari lodi proprio all’interpretazione del nostro attore. Per questo lavoro e per un altro dello stesso anno ma di tutt’altro tenore, ovvero ACAB – All cops are bastards, riceve la sua seconda nomination al David ed ottiene un meritato riconoscimento col Nastro d’Argento. Nel riceverlo, ha l’occasione di ricordare come gli siano sempre piaciuti sia da spettatore che da attore, i ruoli da duro ma anche quelli comici, e di ringraziare Verdone e Sollima per aver portato finalmente a conoscenza dei più il suo eclettico talento.

Di tutt’altro tenore rispetto a Posti in piedi è infatti ACAB di Stefano Sollima – al suo esordio nel cinema, ma reduce dal successo televisivo della serie Romanzo criminale. È  un film duro, di denuncia e riflessione su un tema caldo dei nostri tempi: il ruolo delle forze dell’ordine nella gestione dell’ordine pubblico e la deriva violenta che la nostra società sta  subendo da più parti. Qui, infatti, chi dovrebbe arginarla la alimenta, diventando a sua volta parte di essa. Ma il film, tratto dal libro di Carlo Bonini, al contrario di ciò che si può pensare, non è affatto semplicistico o manicheo. Non si schiera con gli uni o con gli altri, ma mostra, pone interrogativi, domande, fa emergere le contraddizioni insite nei singoli come nella società. Protagonisti sono un gruppo di “celerini”: Cobra/Pierfrancesco Favino, Mazinga/Marco Giallini, Negro/Filippo Nigro, uniti dall’affrontare situazioni difficili ogni giorno (servizio di sicurezza allo stadio, sgombero di campi rom, sfratti, manifestazioni, sono stati al G8 di Genova e hanno preso parte alla vergognosa notte alla Diaz), ma anche dalla rabbia e dall’odio che covano, quello che ha contagiato le loro vite personali naufragate, perché è l’unico modo in cui, in fondo, sanno relazionarsi all’altro, o perché non resistono all’istinto di rispondere con la stessa moneta a chi di odio li rende bersagli quotidiani.

Uomini che sentono la loro violenza legittimata, perché al servizio “dell’ordine” e di cause “giuste”, quando questa è invece, evidentemente, tanto cieca quanto quella dei loro nemici. Uomini che si fanno giustizia da soli, oltre la legge, che decidono punizioni, ergendosi essi stessi ad autorità. Ma anche uomini lasciati soli a fronteggiare emergenze che rimangono tali, uomini che riempiono come possono, come sanno, spesso facendo danni, un vuoto istituzionale profondo.  Fra loro Mazinga è la figura più disgraziata, più sconfitta: il più anziano del gruppo, un padre freddo, distante, che ha alimentato nel figlio solo odio. Dopo anni di quella vita non sa più immaginarne un’altra. Allo stesso tempo arriva a capirne drammaticamente a sue spese l’insensatezza, ma non è capace a cambiare rotta, perché, come i colleghi, è prigioniero di schemi agiti ormai automaticamente. Un Giallini dolente e intenso presta sé stesso al personaggio. Per questa interpretazione, lo dicevamo, guadagna il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista. È suo anche il Ciack d’oro come Personaggio Cinematografico del 2012.  Lui si dice contento e divertito dal successo arrivato ora (“non è che io abbia cambiato il mio modo di recitare”, ha affermato), e si considera fortunato, come ha dichiarato in un’intervista, perché molti suoi colleghi, pur bravi, non hanno mai potuto godere delle luci della ribalta. Intanto, la fase lavorativa proficua sembra destinata a proseguire. Dal 29 novembre lo vedremo infatti nelle sale in Una famiglia perfetta di Paolo Genovese, dove ritroverà Sergio Castellitto, mentre nel 2013 sarà nell’esordio alla regia di Rolando Ravello, Tutti contro tutti e nell’opera seconda da regista di Edoardo Leo, Buongiorno papà.

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