Tra gli ultimi protagonisti degli Incontri ravvicinati (Close Encounters) di questa undicesima edizione della Festa di Roma 2016 – oltre al Premio Oscar Roberto Benigni – figura anche un nome di spicco della letteratura mondiale, l’americano Don DeLillo: da sempre considerato in “pole position” per la vittoria di un Nobel per la Letteratura (quest’anno andato al “menestrello di Duluth” Bob Dylan), questa volta si è ritrovato a parlare con Antonio Monda del suo rapporto con il cinema, in particolare con il regista Michelangelo Antonioni, e del legame particolare che intercorre tra parola scritta e immagine cinematografica.

 

Dopo aver aperto l’incontro con la lettura di due estratti tratti da un suo testo originale, Porte e Muri, ispirato dalle suggestioni cromatiche del film Deserto Rosso di Antonioni, l’incontro parte proprio da questo punto per analizzare il mondo di DeLillo.

Il film è stato un grande punto di partenza per lo scrittore, che ne è affascinato da sempre soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra immagini e parole: un regista non dev’essere vincolato alle parole di una sceneggiatura definitiva, piuttosto deve affidarsi al mezzo che meglio conosce, ovvero la macchina da presa. Quando le opere di Antonioni arrivarono a New York City negli anni ’60, Don DeLillo ne fu subito attratto e, ovviamente, la sua consapevolezza da spettatore attento crebbe con il passare del tempo; secondo lui un film come Deserto Rosso (il primo a colori nella filmografia del regista, dopo successi come L’Avventura o L’Eclissi) definisce bene la concezione e l’uso del colore sul grande schermo: può sembrare strano oggi dove per noi è ordinario, ma visto che un tempo non lo era gli sembrò surreale fin da subito vedere come – soprattutto in quel caso – il colore diventa il film stesso, lo definisce nella propria identità predefinita.

La sceneggiatura realizzata da Tonino Guerra non stride con l’impianto cromatico, anche perché DeLillo è sempre stato in grado di scindere le parole dalle immagini, creando un curioso cortocircuito con la sua professione di scrittore. Tra le sue fonti d’ispirazione cinematografiche cita pellicole come Bonnie e Clyde, Il Padrino, La Rabbia Giovane e Il Mucchio Selvaggio: scomoda autori illustri e titoli cult per riflettere su un tema particolare, ovvero la raffigurazione della violenza. Secondo DeLillo, è difficile resistere all’idea che la potenza distruttiva possa apparire fascinosa e seducente al cinema; solo in quest’ambito specifico la bellezza e la violenza (spesso insite nelle immagini) si fondono insieme combinandosi in modo unico, come accade ad esempio nei film di Sam Peckinpah. I suoi capolavori sono completamente diversi da qualunque altro western realizzato negli USA, per via delle inquadrature tese, con una fotografia intrisa di un’affascinante forma di violenza, una caratteristica che sembra accomunare tutti i protagonisti dei film citati da DeLillo: la loro “gioia” nell’andare incontro alla morte è un tratto distintivo, che spinge Monda a chiedergli se in effetti questa è una caratteristica propriamente americana. Ma la replica dello scrittore non lascia dubbi: e Pontecorvo? Basta ricordare Pontecorvo. O Kurosawa. O Michael Haneke, nessuno di loro è americano ma tutti incarnano alla perfezione questa spinosa tematica.

Tra un aneddoto legato al primo film della sua infanzia – forse un cartoon tratto da I Viaggi di Gulliver, ma non ricorda molto bene se l’episodio appartiene alla sua fantasia o alla realtà: aveva soltanto due anni quando uscì! – e altre clip estratte dai film di Antonioni Deserto Rosso e L’Avventura, Monda incalza Don DeLillo con una nuova domanda, che riguarda l’esistenza – o meno – di tematiche o aspetti che funzionano prettamente nel linguaggio cinematografico e non nella letteratura?

Lo scrittore americano sceglie di partire proprio da L’Avventura per rispondere: questo film in particolare investe le tematiche dello spazio – tempo, delle persone e della bellezza; uno scrittore non si approccia a questi argomenti nello stesso modo di un regista, perché la parola sulla carta ha una forza intrinseca speciale e completamente diversa. È importante capire la portata rivoluzionaria di quei concetti nei primi anni ’60, perché oggi si tende invece a banalizzarli, leggendoli come il tipico cliché dell’alienazione che si annida nei personaggi borghesi rappresentati. E il finale del film, secondo Don DeLillo, è un puro esempio di cinema, di come andrebbe fatto e di come dovrebbero essere le immagini, con questo medium, a comunicare “qualcosa” agli spettatori e non le parole.

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