Festival di Roma 2014: Wim Wenders presenta ‘Il Sale della Terra’

Il regista tedesco Wim Wenders è stato protagonista di uno degli incontri tenuti al Festival Internazionale del Film di Roma. Il maestro del cinema tedesco ha incontrato in sala Sinopoli il pubblico e la stampa per parlare del prossimo film che il regista ha realizzato Il Sale della terra in cui oltre a raccontare le storie che Sebastião Salgado ha immortalato da la possibilità all’autore di sviscerare i temi trattati come solo Wenders sa fare.
Dall’incontro e dalle varie clip mostrate durante l’incontro è emerso il profondo rapporto che il maestro ha con la fotografia e di come questo lo ha avvicinato al cinema.

 

In un libro da lei scritto, Una Volta, lei sostiene che una foto non testimonia solo ciò che si vede ma parla anche di chi ha fatto quella foto. Come può spiegarci meglio questo principio?
Tutto è reso molto più complesso grazie all’evoluzione della tecnologia, ma c’è un fenomeno che mi affascina da sempre e mi intriga ed è che in ogni fotografia è come se vi fosse un controcampo incorporato questo effetto è invisibile ma riusciamo a percepirlo. In seguito ho conosciuto il lavoro di questo straordinario fotografo che in questo controcampo ci regala un senso di avventura, di amore e rispetto che ha nel proprio mestiere e un’infinita conoscenza. Questo però non riuscivo a comprenderlo fino infondo ad immagarmi bene come fosse la persona responsabile di queste immagini e quindi ho deciso che era venuto il momento di incontrarlo. E quindi per una volta ho deciso di sollevare questo velo invisibile e fare il film su queste immagini, su questo controcampo.

Nel libro lei sostiene che il viaggiare ed il fotografare sono un’esperienza di vita e di conoscenza della realtà. Possiamo dire che Salgado è un’applicazione perfetta di questa accoppiata?
L’aspetto del tempo è fondamentale per quest’avventura che è stata intrapresa, io inizialmente avevo ipotizzato che nel giro di un paio di settimane avrei potuto fare questo film e sapere tutto quello che c’era da sapere di questo fotografo. Abbiamo iniziato con delle interviste ama mi sono reso conto che la sua opera si basa su un senso del tempo completamente diverso e la profondità di questo suo lavoro era tale da non consentirmi di fare un film rapidamente, avevo bisogno di tempo e il segreto è che lui stesso dedica sempre tanto tempo ad ogni tema sul quale lavora, per questo motivo viaggia moltissimo, sparisce addirittura per mesi per riuscire ad arrivare ad un grado di verità davvero straordinaria.

Lei all’inizio ha raccontato che era molto più interessato alla fotografia e alla pittura, le piaceva il cinema perché le sembrava che ci fosse la verità della fotografia ma era molto sospettoso del montaggio, del racconto. Crede che in Salgado ci sia tantissimo cinema?
La prima volta che ho visto le foto di questa miniera d’oro l’impressione che ho avuto è quella di un enorme set cinematografico mentre invece mi sono reso conto che era verità e non era finzione, questo mi ha portato a riflettere su quanto tempo aveva sicuramente passato l’autore in questi luoghi e se si riguardano attentamente si intravede una forte complicità tra il fotografo e i suoi soggetti. Vi racconto un episodio che non vediamo nel film ma che credo sia significativo, inizialmente quando è sceso con la sua macchina fotografica lungo queste scale ha percepito una lunga ostilità nei suoi confronti gli uomini non lo volevano, non voleva che fossero visti e poi ad un certo punto è arrivata la polizia, lo ha arrestato e gli ha messo le manette e questa è stata una scena al quale gli uomini hanno assistito, quando è riuscito a dimostrare che è un cittadino brasiliano e non c’era motivo per trattenerlo, in quel momento tutti si sono fermati e hanno cominciato a battere forte con senso di approvazione, perché avevano capito che non era amico della polizia e da quel momento ha potuto scattare qualsiasi tipo di foto, viveva con loro.
Le fotografie di Salgado si leggono come una storia ed egli la racconta come farebbe un regista, con inquadrature diverse campo lungo, stretto, riprese dall’alto, dal basso, primissimi piani ed è proprio come un film ed è come si potrebbe immaginare un documentario. Ed in ogni fotografia vediamo un frammento di tempo e tutti insieme creano questa serie che si avvicina in maniera impressionante ad un film.

Ci sono state delle difficoltà nel mostrare le reazione di Salgado alla visione delle sue stesse foto?
Questo è un film che è stato girato due volte la prima volta lo abbiamo girato per diverse settimane e poi mi sono reso conto che quello non poteva essere il mio film, avevamo deciso di adottare un’impostazione tradizionale e convenzionale: noi due seduti ad un tavolo, due cineprese con una terza che ci riprendeva le foto contenute nei suoi libri pile e pile di fotografie per rappresentare tutto il suo lavoro dalle origini fino ai giorni nostri. Ma poi lui quando si avvicinava per vedere una foto, il carico emotivo diventava fortissimo perché lui riviveva quel momento nel quale aveva scatto quell’immagine, poi però quando rialzava lo sguardo ed incrociava il mio rientrava in un meccanismo diverso, più rivolto a me che alle immagini e quindi una volta finito questo primo film ero arrivato ad avere una vaga idea di quello che era stato il suo percorso e la sua opera, volevo vederlo più preso e più coinvolto che era esattamente quello che accadeva quando scrutava le sue foto.
Poi quando abbiamo iniziato a girare quello che è diventato questo film abbiamo adottato un’altra tecnica, una camera oscura, abbiamo pensato che questo buio fosse più consono ad un fotografo perché più familiare e tutto quello che vedeva erano le sue foto mostrate una dopo l’altra, non su carta ma abbiamo quello che in televisione si chiama gobbo elettronico, quelli trasparenti. Perciò lui in realtà guardava uno schermo semi trasparente, non un testo ma le sue foto, solo non c’era nessun altro. E questo mezzo ci ha permesso di avere il suo sguardo in macchina ed era questa intimità che volevo, trovare con però la possibilità di comunicazione.

C’è un pensiero ricorrente nel cinema, che guardare implichi sempre una posizione morale e credo di poter dire nella cultura moderna e contemporanea. Questo concetto si applica in maniera impeccabile in questo film ed in generale al lavoro di Salgado, che spariva in questi luoghi per mesi senza che nessuno lo sapesse.
Devo dire che io stesso ho questo desiderio, di poter sparire in un luogo dove non so niente, dove non c’è un incontro, dove non ho punti di riferimento. La sequenza dedicata al Sudamerica è particolarmente lunga, perché è proprio li che ha iniziato a lavorare come fotografo. Inizialmente Salgado era un economista, poi ha deciso di abbandonare questa strada e di dedicarsi alla fotografia, lui non aveva di ritornare in patria ed aderire alle correnti politiche. Quindi cercò di avvicinarsi in posti vicini al suo paese ma sconosciuti, quindi si è letteralmente perso in Sudamerica ed allora non poteva comunicare come lo si fa oggi, questo rappresenta per me uno stato ideale sia per chi vuole fare cinema, sia per chi vuole fare fotografia. Abbandonare tutti e diventare ciò che noi vediamo e vogliamo conoscere.

Nel film viene anche tratta la delicatissima relazione di Salgado con il figlio, Juliano.
Ogni famiglia è un po’ particolare ed il rapporto tra padre-figlio è molto speciale. Juliano che insieme a me ha curato la regia di questo film è cresciuto con un padre che spariva per lunghissimi periodi, che era assente e che quando era a casa, si buttava sul lavoro, montando le sue immagini e lavorando con la moglie che era la sua editor. Quindi questo giovane in realtà non conosceva suo padre, poi ha deciso di diventare un documentarista e ha pensato che la cosa più avventurosa che potesse fare era un viaggio con il padre e scoprirne l’identità. La cosa per me è stata molto stimolante perché il suo punto di vista sul padre era per forza di cose completamente diverso dal mio, ed ho pensato che insieme avremmo potuto realizzare un film che poteva essere complesso e vero più di quanto non sarebbe stato possibile fare individualmente.

Da queste immagini emerge la sconvolgente bellezza di questo pianeta e poi subito dopo c’è il tanto dolore e la tanta ingiustizia.
Nel corso della sua carriera Salgado è stato criticato da molti, perché lo hanno accusato di estetizzante il suo modo di fare fotografia, un concetto che ho sviscerato con lui è stato il senso della bellezza e della verità. Poi ho deciso di non includere questa parte nel film perché non volevo arrivare ad una mera discussione sulla fotografia, volevo solo mostrarla. Mostrando il modo in cui lui si pone nei confronti della siccità, dalla fame, delle persecuzioni e cosa significavano per lui. Io credo che piuttosto che parlare di “foto belle” sia più giusto parlare di foto giuste, perché la bellezza non centra, indubbiamente lo sono, però per me questo era il suo modo per mostrare il rispetto di fronte a queste situazioni e farlo con dignità. Quindi si potrebbe dire che nessuno ha il diritto di raffigurare la sofferenza, la fame e la morte ma questo è assolutamente assurdo perché è essenziale che la gente veda queste cose e se c’è bisogno di farlo è con dignità. Quindi credo che questa sia la funzione indiretta della bellezza e che il dibattito su “bellezza e verità” si passato, l’unica cosa che conta sono il rispetto e la dignità.

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