Another Year: recensione del film con Jim Broadbent

Another Year film recensione

Mike Leigh, già regista di Segreti e bugie e Il segreto di Vera Drake torna al cinema con Another Year. Per questo lavoro ha scelto attori che lo hanno accompagnato già in passato (Imelda Staunton, Jim Broadbent, Ruth Sheen, Lesley Manville) e loro, anche stavolta, non hanno deluso le aspettative.Si tratta di un film in pieno stile Leigh, che mette al centro la normalità: personaggi e temi quotidiani.

 

Sceglie di parlare dello scorrere del tempo, di nascita e di morte, e della loro accettazione. Racconta di vite normali, che scorrono serene, ma anche di esistenze di cui si è perso il bandolo, segnate dall’infelicità e dal disagio. Fa un film in cui non ci sono vere e proprie trame e intrecci da seguire e alla fine non si tirano le fila delle “storie”, perché l’importante non è ”come va a finire”, ma ciò che si dice e si fa durante Another Year e ciò su cui si può riflettere. È una commedia, un film ironico, che strappa sorrisi e qualche risata, ma è anche un film realista, che guarda i problemi in faccia e non li nasconde sotto al tappeto come la proverbiale spazzatura. Leigh si concentra su una coppia di sessantenni inglesi. Tom e Gerry sono sereni e appagati: lui geologo ingegnere, lei psicologa (Jim Broadbent e Ruth Sheen).

Another Year, il film

Vivono a Londra, hanno una bella casa e un orto cui si dedicano con passione. Sono sposati da molti anni, ma tra loro c’è ancora una buona intesa, nonostante qualche piccolo screzio, degno dei loro nomi. I loro modi gentili e accoglienti, come la casa che abitano,  fanno sì che questa sia la meta preferita di amici e parenti. Attorno, si muovono vari personaggi, alle prese con piccoli e grandi problemi. Il figlio trentenne, Joe (Oliver Maltman), indeciso se mettere o no su famiglia, troverà nella simpatica Katie una buona compagna. Poi c’è Mary (Lesley Manville), segretaria nella clinica dove lavora Gerri e sua amica da vent’anni, alla costante ricerca di qualcosa o qualcuno cui aggrapparsi come a un’ancora di salvezza (un uomo, una macchina nuova, Gerri); c’è l’altra amica della protagonista, medico nella stessa clinica, che darà alla luce un bambino; c’è Ken (Peter Wight), amico di vecchia data che, come Mary, scaccia solitudine e depressione con alcool, fumo e cibo, e c’è Ronny (David Bradley), il fratello di Tom, colpito da un grave lutto.

La sceneggiatura di Another Year, firmata dallo stesso regista, tiene abilmente insieme il tutto. Funzionano perfettamente anche i momenti in cui non sono presenti Gerri e Tom (riuscitissimo, ad esempio, quello in cui sono protagonisti Ronny e Mary). I dialoghi, poi, sono efficacemente al servizio della volontà di Leigh di andare in profondità e al cuore delle questioni e il ricco ventaglio di gestualità ed espressività messo in campo dal validissimo cast fa il resto, regalando scene che sono veri gioiellini. L’abilità di Leigh sta nel restituirci, anche con pochi fotogrammi e poche battute (si pensi alla sequenza iniziale, protagonista un’impareggiabile Imelda Staunton), l’universo esistenziale dei personaggi e farci riflettere su concetti forse scomodi, ma che, secondo il regista, è necessario fare propri e mettere al centro della nostra esistenza: accettazione della realtà – non per rimanere schiacciati sotto il suo peso, bensì come punto di partenza per cambiare ciò che non ci soddisfa – assunzione di responsabilità e abbandono di aspettative irrealistiche – come quella, coltivata da Mary, di trovare qualcuno o qualcosa  che possa salvarla, che possa magicamente cambiare le sorti della sua vita – in favore di una più sensata ricerca di aiuto, che implica necessariamente un impegno anche da parte di chi lo riceve. Temi questi, che vediamo espressi chiaramente con personaggi come Mary, schiacciata dal suo senso di inadeguatezza, insoddisfatta della propria vita (una Lesley Manville perfettamente in parte), così come la paziente di Gerri (appunto Imelda Staunton), o Ken, che getta via la sua esistenza, preda della solitudine.

Tutti costoro vengono sostenuti e incoraggiati da Tom e Gerri a cercare di cambiare stile di vita, se necessario ricorrendo all’aiuto di uno psicologo (non a caso Gerri lo è, e sa far bene il suo mestiere), ma la loro volontà pare troppo debole per perseguire l’obiettivo. C’è però anche felicità in Another Year, certamente non del tipo: euforia costante, feste e risate a crepapelle, ma una felicità nell’apprezzare i piaceri quotidiani, la compagnia delle persone amate, la nascita di un figlio. Insomma, la felicità nella normalità. Bisogna riconoscere, dunque, che una riflessione come quella proposta dal regista di Manchester può interessare in varia misura ciascuno di noi, essendo peraltro condotta con estrema delicatezza e maestria. Questa, però, è una di quelle pellicole cui il pubblico italiano non è abituato. L’introspezione non è proprio il forte dello spettatore medio di casa nostra, che mal sopporta persino la scelta del regista di far partire la colonna sonora solo quando i titoli di testa scorrono già da qualche secondo. E siamo solo all’inizio del film. E che dire dell’accettazione del tempo che passa, dell’invecchiamento e della morte, nella nostra società? Basta aver presenti i  volti del nostro cinema, della tv e quelli sulle prime pagine di alcune note riviste (con qualche rarissima eccezione). Qui da noi l’invecchiamento è ormai un tabù, mentre nel film di Leigh la maggior parte dei personaggi sono sessantenni… e i loro volti lo dimostrano!  E anche i giovani non sembrano certo tutti appena scesi da una passerella di Armani.

E poi c’è un’altra società – quella inglese evidentemente – culturalmente pronta a riconoscere, accogliere e lavorare sul disagio esistenziale, cosa che qui siamo ben lungi dal fare: se si vuole cambiar vita qui ci si rivolge al chirurgo estetico e non allo psicologo e l’individuo non viene spesso neppure indirizzato nella maniera corretta dalle istituzioni preposte. Insomma, forse molti in Italia  non sono pronti per questo film coraggioso e onesto. Per chi invece è stanco di botox e festini e aspettava di veder rappresentata al cinema anche un po’ della sua normalità, è decisamente una boccata d’ossigeno.

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