L’Amore Buio: recensione del film di Antonio Capuano

L'Amore Buio

Tratta temi a lui cari Antonio Capuano nella sua ultima fatica cinematografica: L’amore buio, presentato alle Giornate degli Autori del Festival del Cinema di Venezia, tuttora in corso. Al centro, il rapporto genitori-figli e la condizione esistenziale degli adolescenti. La sfera privata, inserita in un contesto sociale che il regista conosce bene: quello napoletano, adatto forse più di altri a far emergere contraddizioni e complessità.

 

Insomma, gli ingredienti sono quelli che lo hanno reso noto a pubblico e critica, fin dall’esordio nel 1991 con Vito e gli altri, passando per Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996), fino al recente La guerra di Mario (2005).

Si parte da una violenza. Un gruppo di quindicenni della Napoli popolare, dopo una giornata come tante, “pensa bene” di fare un giro nei quartieri “alti” e violentare una ragazza che rientra a casa. L’indomani, uno dei quattro, Ciro Fossa (Gabriele Agrio), denuncia sé stesso e gli altri alla polizia. Per i ragazzi inizia così l’esperienza del carcere, a Nisida; mentre, per la vittima della violenza, la diciottenne Irene (Irene De Angelis), comincia un percorso per elaborare quanto è successo. Così, Ciro riflette su di sé, su ciò che ha fatto, e comincia a scrivere lettere a Irene. La ragazza cerca in sé la forza per reagire e, pian piano, trova anche il coraggio di rispondere alle lettere di Ciro, in un confronto che si rivelerà proficuo per entrambi e aprirà loro la possibilità di un nuovo inizio.

L’Amore Buio

Il film racconta la contrapposizione tra due realtà che convivono nello stesso spazio, ma che sembrano non avere niente in comune: quella di Ciro e dei suoi amici, che a stento frequentano la scuola e girano Napoli in motorino tutto il giorno, con genitori che lavorano da mattina a sera per pochi soldi, vessati dalla camorra che controlla il territorio.

E, dall’altra parte, la città di Irene: quella alto-borghese, totalmente autoreferenziale, chiusa in sé stessa, fatta di case signorili, servitù, famiglie che offrono tutto il necessario al mantenimento materiale dei propri figli e alla loro formazione culturale. Due mondi opposti, che non dialogano, ma accomunati dalla stessa incapacità di gestire la relazione con gli altri, da un contesto affettivo carente.

È proprio in questo contesto che cresce quella percezione distorta per cui violenza e amore possono coesistere e, magari, coincidere, come pensano Ciro e i suoi amici. Come una percezione distorta è quella che porta Irene a scambiare per amore il rapporto col suo ragazzo, pieno di silenzi, distanze, incomprensioni, e in cui il corpo, anziché rispettato e amato, sembra usato per soddisfare bisogni. Capuano rintraccia le radici di questa aridità nei rapporti familiari: nella famiglia popolare, come in quella borghese, per motivi diversi, i genitori non sanno comunicare coi figli.

L’Amore Buio, personaggi e storie

La madre di Irene (Luisa Ranieri), che pure si preoccupa di quanto sta accadendo alla figlia, non sa stabilire un vero rapporto con lei. Men che meno, sa sostenerla in un momento così difficile. Preferisce non chiedere, non dire, non nominare mai la violenza subita da Irene. Così fa il padre (Corso Salani, nella sua ultima interpretazione), spesso assente e comunque del tutto incapace di comunicare. Lo stesso vale per la famiglia di Ciro: stretta nella morsa dei problemi quotidiani, non è in grado di aiutare il figlio.

 Anzi, che Ciro sia in carcere, dice il padre, è un bene perché, dopo tutto, “il vero carcere è fuori”. Dunque, adolescenti soli, che devono fare i conti con la vita senza una guida e spesso sbagliano, come Ciro, dovendo poi affrontare le conseguenze dei propri errori. Oppure,  non sapendo come gestirle, mettono a tacere sensazioni ed emozioni e si lasciano scivolare tutto addosso, come accade a Irene, che accetta senza convinzione la presenza e i comportamenti del fidanzato e acconsente passivamente alle sue decisioni. In questo scenario, àncora di salvezza è l’arte, che aiuta i protagonisti a crescere, a trovare una via per comprendere sé stessi e comunicare col mondo esterno: i laboratori creativi e la scrittura per Ciro; il teatro per Irene.

Il primo farà un vero percorso di crescita; la seconda riuscirà almeno a superare il trauma subìto. Quindi, l’arte è vista come un valido aiuto, là dove famiglia e società sono carenti, come dimostrano le varie figure di psicologi presenti, nessuno dei quali sembra realmente in grado di offrire il sostegno cui è deputato. Fa eccezione lo psicoterapeuta/organizzatore del laboratorio teatrale, che aiuta Irene a trovare “il suo bandolo”.

Dunque, una società che offre poco o niente, e spesso troppo tardi, come canta Ciro in un rap composto in carcere. Una società che non sa sostenere i giovani e quindi non sa pensare il proprio futuro. Al regista il merito di aver evidenziato come questo problema, che coinvolge soprattutto le presenti generazioni, sia assolutamente trasversale, e non riguardi solo realtà marginali, da relegare comodamente in luoghi lontani da sé.

Un apprezzabile tentativo di analisi, che va al di là dei manicheismi e delle facili semplificazioni. Nel cast, oltre ai noti Gifuni, Golino, Ranieri, che non deludono le aspettative, i due esordienti protagonisti: Gabriele Agrio e Irene De Angelis. Più convincente il primo, mentre appare piuttosto monocorde l’interpretazione della seconda. Sceneggiatura dello stesso Capuano che, per rappresentare l’incomunicabilità, affidata molto ai silenzi e agli sguardi, più che al discorso verbale. Il ciclo comincerà a spezzarsi grazie alla parola scritta.

 

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Voto di Cinefilos.it
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Scilla Santoro
Giornalista pubblicista e insegnate, collabora con Cinefilos.it dal 2010. E' appassionata di cinema, soprattutto italiano ed europeo. Ha scritto anche di cronaca, ambiente, sport, musica. Tra le sue altre passioni, la musica (rock e pop), la pittura e l'arte in genere.
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