Venezia 71: The Lack recensione del film dei Masbedo

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The Lack rappresenta le quattro variazioni sul tema de la “mancanza”. Un film interpretando da sei personaggi femminili, immersi in una natura silenziosa e primitiva, che affrontano il loro viaggio di conoscenza in una natura sublime e misteriosa ripercorrendo il loro percorso interiore, cercando di ricomporre i pezzi della loro esistenza frantumata e di colmarne il vuoto.

The-Lack-poster-620x867Presentato nella sezione Giornate degli autori alla 71° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il film dei Masbedo, composto dal duo di video artisti Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni. Pone un interessate sguardo interiore sulla fragilità femminile in uno dei momenti più cruciali dell’essere umano, l’assenza. Per affrontare una tematica così articolata il film adotta la classica struttura per capitoli che meglio ci aiuta nella compressione della visione del tutto unica e originale della pellicola.  Sin dall’incipit del film una tenda da circo, che sarà luogo di un “tetro spettacolo” di angosce e ansie, vengono presentate attraverso un “prologo” le sei donne si mostrano con il loro oggetto-simbolo che incarna il loro stallo emotivo. Le storie vengono pian piano approfondite attraverso i capitoli, cominciando con Eve (Lea Mornar) che lascia la stanza per affrontare il tema dell’abbandono, per poi seguire Xiù (Xin Wang) e il suo rapporto con il ricordo, Anja (Giorgia Sinicori) e Nour (Ginevra Bulgari) che affronteranno da due prospettive opposte il distacco ed infine Greta (Emanuela Villagrossi) e Sarah (Cinzia Brugnola) che con l’escamotage della seduta psichiatrica ricuciono il loro passato spezzato.
La regia studia attentamente, come solo la video arte riesce a fare, ogni dettaglio, fuoco e movimento di macchina per entrare in sintonia più con il flusso di coscienza che con un impostazione dialettale, i film diventa così un caleidoscopio di colori e immagini suggestive da vari scenari del mondo che cercano di sposare l’intimo travaglio che queste donne, nel silenzio delle parole, cercano di vivere ed emergere restituendo anche la forza con cui il gentil sesso mostra la sua più intima fragilità.
Seppur le interpretazioni delle attrici siano state convincenti è il lavoro di Benny Atria che completa il film. Attraverso il suono, caratterizzato da rumori e respiri interrotti da un emozione crescente, nonché dal montaggio di immagini, sincopate nelle scene più tormentate e contraddistinto da lunghe dissolvenze nel raccordo tra un racconto e l’altro, che riescono a riportare l’esatta unità visiva che rende il film completo.
Ciò in cui pecca la sceneggiatura è la troppa poetica ed ermeticità con cui viene affrontato il tema. Se le storie riescono a ricreare l’esatta dimensione sensoriale ed emotiva della mancanza di queste donne, spesso il “discorso” si perde in un passaggio autoreferenziale di troppo a discapito del coinvolgimento dello spettatore, che subisce passivamente la scena più che partecipare all’enorme potenza visiva del film.

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