La coda del Leone – Riflessioni sui premi & L’Ultima Cena di Ang

Questi festival hanno iniziato ad andare a puttane quando sono state istituite ‘ste secchiate di premi. Che io vorrei capire perché dobbiamo premiare duecento cose durante un Festival. Già mi vengono sospetti quando sento ‘premio miglior opera prima’, perché ho sempre pensato che non ne esistessero più, di opere prime. Cioè uno nasce in Italia e se nel dna ha qualche velleità artistica già glie tagliano il cordone ombelicale e poi l’opera prima, che viene recapitata immediatamente nelle mani di qualcuno che la trasformerà in qualcosa per cui tutti diranno: bravissimo! Era la sua opera prima, non dimentichiamocelo!

 

Vorrei capire perché uno fa una cosa, che è una cagata, ma dai è sempre un’opera prima. Così come, fai un capolavoro ahhh si vede, le cose più matte te le puoi permettere solo alla tua opera prima!

Comunque pensavo di essere rimasta solo io e il piccolo Muccino a non aver ancora donato qualcosa di artistico al mondo, e invece no, tutto brulica di opere prime.

(Vì)

Per vincere un Leone d’oro a Venezia, un film deve avere due caratteristiche: deve piacere alla maggior parte dei giurati e io non devo averlo visto. È matematico. Ogni anno, indipendentemente da tutti gli altri fattori, la pellicola che ha vinto l’ambìto premio sbrilluccicante rientra tra quelle di cui non sono riuscito a fruire. Posso averli visti tutto tranne uno, che in quel momento proprio mi scappava la cacca, e vince proprio quello. Sono convinto che se un anno per qualche miracolosa circostanza dovessi riuscire a vedere ogni film in concorso, darebbero appositamente il premio a una pellicola che non è passata, solo per rinnovare questa tradizione propiziatoria. Quindi non so ragguagliarvi su quanto sia meritata la vittoria di questo Desde Allà, né su quanto abbia influito la latinoamericanità del presidente di giuria sulla vittoria dei due leoni principali, l’uno venezuelano, l’altro argentino. Ricordatevi che io ballo lo Sticazzi e l’ultima sera sto talmente cotto che l’unica cosa che voglio è chiudere tutto e annammene a magnà. Pare ‘na cosa facile, e invece no: io non solo, per lavoro, devo seguire la premiazione, con tutti quei discorsi di grazie, graziella e graziearcazzo interminabili che ti viene voglia di chiedere a Baratta la distribuzione di pistole ad aria compressa per poterti sparare sui coglioni, ma anche la conferenza dei giurati, le polemiche sulle scelte dei giurati, la conferenza dei premiati, le polemiche sui parrucchieri dei premiati, i commenti post conferenza, la pipì e le flatulenze dovute all’emozione (soprattutto quelle di Valeria Golino, visibilmente toccata dall’aver ricevuto una Coppa Volpi per miglior attrice quando lei è sempre stata convinta di essere un metalmeccanico). Insomma, per dovere di cronaca, registriamo tutto, fino all’ultima goccia d’energia che ce resta in corpo. Vero è che la giornata è stata altresì tranquilla, che tutti stanno a dormì, perché ve l’ho detto, il Festival alla fine già da venerdì sta alla frutta. Il che mi ha dato modo di accogliere la mia adorabile mogliettina, aka Michèle. Colpo di scena per chi non ci conosce: io e Vì non siamo sposati. E lei è attualmente anche single, quindi fatevi avanti prima che sia tardi. Michèle (si scrive alla francese, non come la canzone dei Beatles), molto fashionably late, arriva a Venezia solo quando la folla s’è diradata. E mica sposàmo la gente a caso, qua. Comunque, dato che la sera devi lavorare come un somaro, a una certa, dopo passeggiata per il Lido con visita degli acquitrini più chic e immancabile Spritz di benvenuto, la affido alle amorevoli cure di Vì che, dopo aver seguito con me la parte più insopportabile della serata – meraviglioso il fermo immagine di Fabrice Luchini con le dita strette a mo’ di ‘che minchia dici?’ – recupera la mia consorte (che è anche un po’ la sua) e la porta a cena in un ameno ristorante vegetariano dove, incredibilmente date le usanze locali, la sera prima ci ha trattati benissimo.

luchini

E di qui in poi lascio di nuovo la parola a Vì, che lo racconta benissimo.

(Ang)

E infatti, non sto a dirvi quanto non ne possiamo più del premio Giangiacomo al miglior starnuto nel film, del Premio Sala Grande per le migliori freddure, insomma, non vorrei che queste cosette offuscassero ciò che conta di più della serata conclusiva: Il premio ad Ang per il miglior interprete protagonista nel film L’ultima cena.

L’ultima Cena (scheda tecnica)

Titolo originale: ‘Saturday night and we in the spot, don’t believe just watch!’ (sì lo sappiamo, i titoli italiani so sempre nammerda)

Paese: Lido of Venice

Interpreti: Ang, Vi, Michèle, il ristoratoredemmerda

Per la prima volta sullo schermo: il giovane mortificato

Durata: 120 min

Sinossi:

In una ridente lingua di terra isolata da ogni forma di civiltà, dove per due settimane vivono allo stato brado uomini e donne che si occupano di cinema, succedono cose inspiegabili. I gestori dei locali, invece di gioire alla vista di forme di vita che non siano zanzare della dimensione di un coguaro che movimentano la vita del luogo, manifestano tutto il loro fastidio e livore verso forestieri, che vorrebbero solo espletare bisogni primari: magnà, pagà, sigarettina e cià annamosene a dormì che domani c’è er coreano de 150 minuti. Per fortuna arriva Ang, un uomo astuto, che riesce a scovare tra quel popolo ostile uno sparuto gruppetto di scissionisti che sposano la causa ospitalità. Ma niente è come sembra…

Recensione:

Pastiche comico che si tinge di toni grotteschi e sul finire drammatici questo ultimo lavoro presentato fuori concorso al Festival di Venezia. La pellicola punta tutto su una messa in scena spiazzante, per dare spessore a una storia non nuova, che declina come da manuale le regole dei generi attraversati (commedia, thriller parapsicologico, horror onirico). La prima parte, tutta girata in monolocation, è una cena tra amiche, che aspettano qualcuno. Lo spettatore, all’incedere della pellicola, noterà un innalzamento di livello di tensione, dato dalla caratterizzazione del personaggio del ristoratoredemmerda, che da uomo mite e gentile si trasformerà di colpo in un terribile psicopatico. Nella seconda parte, più breve, il twist narrativo è rappresentato dall’arrivo di Ang: la pellicola gioca con le attese dello spettatore disattendendole tutte. Da quel momento il romanticismo beat della prima parte vira verso una messa in scena claustrofobica e un montaggio nervoso. Sul finale, le ostilità tra i due uomini rivali sono un omaggio al miglior cinema surreale.

Nuoce la chiusura moralistica del cameriere mortificato che sa di posticcio. Meravigliose le musiche di Bruno Mars.

Se fate i bravi lo proiettiamo anche al Festival di Roma.

(Vì)

In buona sostanza, al mio arrivo dopo una impegnativa serata lavorativa, alla richiesta di una forchetta per consumare il mio pasto già cucinato e tenuto in caldo, il ristoratoredemmerda sbrocca e ci caccia via in malo modo. Senza motivo apparente. Vi è piaciuto il film? Ecco, a me mica tanto. Per cui, caro ristoratore, visto che sei vegetariano, comprate du cetrioli. Così uno te lo magni.

Corollario: per la prima volta in dieci anni che vengo qui (con qualche interruzione) mi sono deciso a sfruttare l’occasione per vedere la Biennale. Tra le opere più rilevanti una scultura interamente composta da seghe. E la cosa più incredibile è che lo scultore è cieco. E una serie di water esposti in bella vista con annesse delle cuffie per sentire lo scroscio in 5.1. Dall’arte non si cessa mai di imparare.

Pace e bene a tutti. Viva il cinema.

(Ang)

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