MALINCOJONIMENTO – Blues di Fine Festival e altri disagi

Da Ruttopedia> “Il ‘malincojonimento’ è un sentimento tipicamente festivaliero, che il giornalista di cinema –  meno l’avventore casuale, per quanto anch’esso non se ne possa dire totalmente immune – può esperire nel corso della fase conclusiva di una kermesse lunga e impegnativa come ad esempio la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Trattasi di sentore misto, sospeso tra il desiderio che tutto si concluda presto con conseguente rilassamento delle stanche membra – o degli stanchi membri, per chi ha trovato anche modo di copulare copiosamente – e la nostalgia canaglia che ti attanaglia nella prospettiva di lasciare un luogo in cui ha speso giorni intensi ma stimolanti, magari in compagnia di amici cari, colleghi stimati e gente simpatica”.

 

Ragazzi, ci siamo. Questo sarà l’ultimo post dal Lido ed è un po’ così che ci sentiamo, inutile negarlo. Che se è vero, come vi abbiamo spiegato, che un Festival inizia molto prima della data ufficiale, con programmi e preparativi, è anche vero che inizia a finire un po’ prima del previsto, sgretolandosi pezzettino alla volta, lentamente ma inesorabilmente. Oggi molti colleghi hanno già fatto la valigia – che della premiazione, comprensibilmente, se ne sbattono le ciglia, a meno che non la debbano seguire per lavoro come me – e si sono trovati di fronte a quel mistero dell’Universo che vuole che la roba entrata in borsa all’andata – la stessa, identica – non ne voglia sapere di far lo stesso al rientro, e pare ingrassata anche lei per i troppi Spritz e aperitivi a buffo. Il viale è più silenzioso, per quanto s’attenda ancora, per questa sera, l’arrivo di Vasco Rossi per un documentario che è stato già lodato dalla critica per l’asciuttezza e la sintesi dei dialoghi (“eeeeh”, “già”, “eeeeh” ripetuto per due ore). vasco rossiPresto nemmeno il Lion Bar esisterà più che, si sa, lo smontano già la sera del sabato, e se il giorno dopo vuoi andare a farci colazione prima dell’imbarco ci trovi un muro di mattoni, come il negozietto Safarà di Dylan Dog. Ma in generale, si ha l’impressione che tutto il Lido sia un po’ come il paesino di Brigadoon, che compariva per un solo giorno ogni cento anni. Qui lo fanno una volta l’anno – consoliamoci – ma il concetto è quello.

E insomma un po’ tristi lo siamo, ma anche parecchio sfranti (da qui il ‘cojonimento’) perché alla fine, crediateci, qui se ci vieni per lavoro, si fatica tanto. Non fate quelle facce. Non è un “lamento griffato”. Personalmente sono cosciente del fatto che il mio sia il lavoro più bello del mondo dopo la rockstar alcolizzata, il fumettista porno e lo slacciatore qualificato di quinte di reggiseno, ma sono anche corse continue, pasti saltati o consumati male, sonno perso e soprattutto tanti giorni lontano da casa e dai propri affetti. Che anche noi critici ce l’abbiamo, un cuore, sepolto da strati di celluloide e tartine. Quasi mai finiamo per vedere davvero il film che volevamo, perché alla fine lo scelgono per noi i nostri capi, il destino cinico e baro o semplicemente la nostra vescica. Certo è meglio dell’altoforno, ma dopo dodici giorni la stanchezza la senti. Quindi dopotutto, questo ritorno a casa un po’ lo rifuggi e un po’ lo desideri, che tanto sai che ritrovi più o meno tutto e tutti qui (speriamo senza quei fottuti petali sul red carpet che ormai hanno scassato la minchia di brutto) l’anno prossimo. Perché Venezia è bella, sì, ma sinceramente non ci vivremmo, ve lo abbiamo sempre detto.

Voi non disperate, che Ang & Vì non vi abbandonano. Non ancora. La prossima settimana, a mente lucida (ma non troppo, non sia mai) vi lasceremo un ultimo post di bilancio post-premiazione, che se è come quella degli ultimi anni fa ride parecchio. Si vocifera che vinca il capolavoro di Amos Gitai, Rabin – The Last Day. Quindi vincerà un film demmerda che piace solo al presidente di Giuria. Magari Guadagnino o quel famigerato documentario sullo scarabeo stercorario. E poi, se proprio non potete fare a meno di noi – è retorico, certo che non potete – tra manco un mese (come ha molto umanamente ricordato la collega Marilena Vinci, che tra l’altro paga col mal di pancia lo scotto di avermi preso per il culo tutta la prima settimana per il mio volermi astenere dall’alcool. Però guarisci presto Mari) c’è il Festival di Roma, e si ricomincia tutto daccapo. Noi ci saremo, e voi?

(Ang)

Cari ragassuoli, ha ragione Ang. Qua al Festival iniziano a partire un po’ di persone, i trolley trascinati sul Lido che tra un po’ ci allontaniamo ancora di più come effetto butterfly e ci dovete recuperare dentro al triangolo delle bermuda. Persino i petalidemmerda del red carpet so’ caduti, niente, è tutto come dire, molto decadente. Ormai siamo tutti bipolari, passiamo dalla voglia di restare, ve prego, fatece vedè qualcosa ancora, pure il filmino della comunione di Cuaròn, a oddio quando finisce sta tortura? Oggi ho visto gente che piangeva e rideva nello stesso momento, ristoratori del Lido che mettevano all’asta le ultime gocce di Spritz, ormai tutto fluisce verso il viale del tramonto.

Oggi vi racconto di quel momento in cui il Festival inizia a diventare un reparto di gastroenterologia qualunque. Di solito succede poco prima della chiusura. Il primo critico più fragilino inizia a sentirsi male, ma, stoico, continua a entrare in sala stampa. Da quel momento in poi è pandemia: inizia a inoculare il virus in tutte le sale in cui entra, a tutte le proiezioni e cene coi colleghi. Da quel momento in poi succedono due cose: le discussioni vertono tutte su Oki, antispasmici, e Enterogermine varie.enterogermina Persino a cena, tutti sono stile Raniero in Viaggi di Nozze, niente, si improvvisano primari e ti cominciano a somministrare qualsiasi medicina, o consigliarti qualsiasi tipo di rimedio. Un mio collega una volta ha fatto un mix di medicinali per non scontentare nessuno e si è pietrificato come il Leone al -1. Ancora oggi, passando, la gente si inginocchia e lo ricorda, come massimo esempio di diplomazia festivaliera che qua serve. E qui mi ricollego alla seconda cose che succede: le sale so’ piene di gente incappucciata, insomma non è che ti senti proprio a tuo agio quando entri. Ma questo è il meno, il più è quando a causa di cappelli, berretti, ombrelli e ingombri vari in spazi angusti iniziano gli scontri a fuoco. Perché quando il festival finisce, la pazienza è ormai al limite, e la rissa te scatta in un attimo. Ieri abbiamo assistito a una scena pazzesca: un tipo voleva una pizza, e il proprietario del locale in effetti gliel’ha data, solo che gliel’ha tirata in faccia. Peccato che voleva magnà, insomma c’aveva fame. Ma non è che puoi stare a sindacare, pure quella era ‘na pizza, poi se tu lo chiami schiaffo so cavoli tuoi. Lo sai, qua ti devi adattare, te lo abbiamo detto più volte, sciocchino.

Comunque ieri sono entrata in farmacia e me pareva la fila per la sala Perla, tant’è che ho chiesto ‘ma che film danno?’. Si è girato ed era Scamarcio, anche lui in preda a una non meglio identificata forma di mal di pancia. Io un sospetto ce l’ho, ma vi lascio vedere il film.

Comunque vi stupirò dicendovi, con meraviglia, che sono ancora una donna felice. Per cui vi saluto e vado a vedere Per amor vostro un film in cui la Golino prova a vincere la Coppa Volpi. Ce la farà?

Non lo so, nel dubbio prendo l’antistaminico.

(Vì)

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