Il destino di una
giovane donna e del suo amato sembra segnato dall’ostilità del
mondo che li separa, ma la Seconda Guerra Mondiale li metterà alla
prova, allontanandoli ancora di più e alla fine riunendoli in un
nuovo inizio che fa sperare in un futuro di pace, per il loro amore
e per il mondo.
L’Attimo di
Vento (qui il
link alla pagina Facebok ufficiale) è un cortometraggio scritto
e diretto da Nicola Sorcinelli, un prodotto
atipico sotto più punti di vista: non solo un corto (quasi 7
minuti), formato cinematografico da noi molto usato in ambito
amatoriale e non adatto alla filiera commerciale, ma anche un
musical in costume (ambientato negli anni ’40) in cui sentimenti,
paure ed emozioni passano prima di tutto attraverso la musica.
Sorcinelli mette insieme un prodotto raffinato e
preciso, curato in ogni dettaglio, con una qualità di ripresa e di
immagine (effetti digitali compresi) che fa invidia a molti
prodotti italiani realizzati per cinema e televisione.
L’Attimo di
Vento sceglie di raccontare un amore per impressioni,
attimi e ricordi, senza seguire un vero e proprio filo narrativo in
senso stretto e affidando agli sguardi e ai volti antichi dei bravi
interpreti, Noemi Smorra e Oscar
Nini, i messaggi che l’amore e la guerra hanno da
lasciarci. Unica pecca del film, che in caso di un musical rischia
di essere importante, è la musica: ben eseguita e interpretata, ma
ridondante e che forse si sarebbe espressa meglio sulla “lunga
distanza”.
Per le capacità del giovane talento
di SorcinelliL’Attimo di
Vento è un esercizio molto ben riuscito, un lavoro
ambizioso e articolato che speriamo possa tramutarsi presto in un
progetto più corposo.
L’asso nella manicaRegia:
Billy Wilder Anno: 1951 Cast:
Kirk Douglas, Jan Sterling, Robert Arthur, Porter Hall, Frank
Cady.
Diretto dal ‘re della Commedia’
Billy Wilder, il film è una denuncia al cinismo
dei mass-media in nome della fama e del successo. Essendo datato
1951, è una lungimirante previsione di quanto accadrà anni dopo,
soprattutto con l’avvento della Tv.
Charles ‘Chuck’ Tatum è un
giornalista di talento, ritrovatosi disoccupato e squattrinato dopo
essere stato cacciato da più giornali per il suo comportamento poco
professionale. Riesce a trovare occupazione in un quotidiano
locale, a bassa tiratura, ma dopo un anno la redazione lo manda in
Messico per scrivere un articolo su una stramba caccia ai serpenti,
ma si ferma vicino a una cava dove è seppellito un minatore, Leo
Minosa. Ha fiutato infatti l’occasione e sente che ne può uscire un
ottimo pezzo che può ridargli la fama che spera. Il cinismo dei
media e della società contemporanea trasformerà il dramma del
minatore in un grande occasione per arricchirsi. Non a caso il
titolo originale del film è proprio Il grande
carnevale.
Gli anni ’50 si aprono per
Billy Wilder nel migliore dei modi, con capolavori
uno dietro l’altro. Ad aprire le fortunate danze proprio L’asso
nella manica, con cui il regista tratta con agghiacciante
lungimiranza il problema dei media. Wilder li dipinge cinici,
pronti a tutto per avere uno scoop che attiri spettatori, anche se
la notizia poggia su un dramma umano. Ma non solo i media sono
sanguisughe senza scrupoli; anche la società contemporanea non
perde tempo per arricchirsi, anche quando il dramma in questione
riguarda un loro vicino parente o caro amico. E Billy Wilder mette
in luce tutto ciò, con la solita brillante maestria.
Il regista oltre ad aver diretto
commedie che hanno lasciato il segno – tra cui si ricordano
soprattutto Sabrina, Quando la moglie è in
vacanza e Gli uomini preferiscono le bionde (i due
film che resero leggenda Marylin Monroe) – ci ha
regalato anche perle del genere giallo, come Testimone
d’accusa e La fiamma del peccato. O un altro
film-denuncia sulla società hollywoodiana: Viale del
tramonto.
Nei panni del giornalista arrivista
Chuck, invece, troviamo Kirk Douglas, attore
instancabile (80 film) che ha attraversato decenni diversi del
cinema hollywoodiano, dai tardi anni ’40 con il film drammatico
Lo strano amore di Marta Ivers, fino ai giorni nostri con
la commedia del 2003 Vizio di famiglia, un film passato
alla storia per la contemporanea presenza dei due Douglas.
L’assedio è il
film del 1998 diretto da Bernardo Bertolucci e con protagonisti nel
cast David
Thewlis, Thandie Newton e
Claudio Santamaria.
Trama del
film L’assedio: Kinsky è un pianista
inglese che vive e lavora in un appartamento al centro di Roma.
La sua colf è Shandurai, ragazza
africana fuggita dalla dittatura, studentessa di medicina, il cui
marito è prigioniero politico in Africa. Kinsky non tarda ad
innamorarsi della ragazza, che però non ricambia.
Pian piano la casa del pianista si
svuota di tutti gli oggetti di valore, compreso il pianoforte.
Quando Shandurai scopre che l’uomo ha venduto tutto per ottenere la
liberazione di suo marito, comprende la forza dei sentimenti di
Kinsky, ne resta colpita e si accorge che anche in lei qualcosa è
cambiato. Cosa farà di lì a poco, all’arrivo del marito a Roma?
Analisi: Dopo Io ballo da
solaBernardo Bertolucci, indiscusso maestro
del nostro cinema, si cimenta con questo lavoro inizialmente
destinato alla televisione, poi distribuito nelle sale, accettando
la sfida di un medium diverso senza sacrificare il suo stile. Si
tratta del Bertolucci che prediligere storie quotidiane, ambientate
in spazi ristretti in cui il mondo sembra ridursi all’essenziale.
Un Bertolucci lontano dalla potenza evocativa e dai fasti de
L’ultimo imperatore.
Tuttavia, in questa dimensione
maggiormente intimista si possono sentire con più forza le corde
dell’animo umano risuonare. È questo uno di quei casi in cui
bisogna porsi all’ascolto oltre che della musica – cui il regista
si affida moltissimo, con una scelta drastica e poco televisiva –
dei più piccoli sussulti, scrutare gli sguardi e le espressioni, i
gesti dei protagonisti, parchi di parole.
Al posto dei dialoghi, coinvolgenti
partiture di Mozart, Grieg, Bach, Beethoven, Chopin suonate da
Kinsky (David Thewlis, perfetto pysique du
role d’artista, gentleman inglese, con fascino ammiccante ma
discreto), ma c’è anche la musica africana e John Coltrane.
Bertolucci conduce con sapienza attraverso eloquenti inquadrature
dai particolari spesso rivelatori, come lo è il montaggio, che
mostrano una Shandurai (una brava Thandie Newton)
sempre più in sintonia con Kinsky e la sua musica. L’essenza del
film è l’incontro tra due mondi lontanissimi, che si trovano a
vivere a stretto contatto.
Non solo un incontro di
culture – l’africana e l’europea, un’occasione per parlare di
immigrazione, dittature, regimi – ma un incontro tra due
personalità opposte. Impossibile sulla carta, ma quella distanza
può essere facilmente annullata. Metafora ne è, oltre alla musica,
lo spazio del film: i due appartamenti – il piano alto dove
vive Kinsky e il seminterrato in cui è ospite Shandurai – collegati
da una scala a chiocciola, spesso percorsa da entrambi fino a
trovarsi al piano superiore (la stessa dicotomia tra alto e basso
si ritroverà in
Io e te, pellicola dall’ambientazione quasi
claustrofobica, anch’essa scandaglia due individualità opposte a
confronto). I concetti di amore e sacrificio, poi, vanno di pari
passo: l’amore di Kinsky per Shandurai è rispettoso, il suo
britannico contegno fa da contraltare al sacrificio estremo,la
vendita dei beni, la rinuncia allo strumento della propria arte in
nome di un sentimento sconvolgente.
Fuori da quelle mura in Vicolo del
Bottino, e solo in subordine, Piazza di Spagna, la metropolitana,
l’università dove la ragazza studia medicina, il suo compagno di
studi Agostino (Claudio Santamaria). Una Roma che
impara a diventare multietnica. Ma anche l’Africa lasciata lontano,
alle cui responsabilità Shandurai sarà richiamata.
Il soggetto del film
L’assedio è tratto da un racconto di James
Lasdun.
L’ultima docuserie
limitata di Netflix, L’assedio di Waco, segue gli eventi che si
sono verificati all’interno di un compound al Mount
Carmel di Waco, in Texas, per 51 giorni
prima che un incendio di vaste proporzioni costringesse a fermare
lo spargimento di sangue e il mistero attraverso una tragedia
apocalittica. A quasi 30 anni dallo stallo di 51 giorni tra le
autorità del governo federale e i Branch Davidians, una setta
religiosa guidata da un uomo di nome David Koresh, l’ultima serie
di Netflix cerca di mettere in luce le
testimonianze dei partecipanti di entrambe le parti.
Mostrando filmati esclusivi di
quello che si rivelò un sanguinoso assedio, L’assedio di
Waco presenta prospettive diverse degli stessi eventi,
mentre le forze dell’ordine, il personale dei media e i
sopravvissuti offrono una versione del famigerato assedio di Waco
che ritengono vera. L’assedio di Waco, iniziato il
28 febbraio 1993 e terminato il 19 aprile 1993, causò la morte di
quattro agenti federali e di 82 Branch
Davidians, tra cui 28 bambini. La docuserie di Netflix si concentra sulla
tragedia umana che si è consumata in diretta televisiva e che ha
sconvolto l’intera nazione.
L’ascesa al potere di David Koresh
iniziò con un assedio
I Branch Davidians
furono fondati da Benjamin Roden nel 1955 come
nuovo movimento religioso. Nascono dai Davidiani, che erano guidati
da un immigrato bulgaro di nome Victor Houteff.
Alla morte di Victor, sua moglie
Florence assunse la guida dei
Davidiani, che avevano sede presso il
Mount Carmel di Waco. Quando una profezia
apocalittica prevista da Florence non si avverò,
Benjamin Roden si separò per formare i
Branch Davidians. I Branch Davidians riponevano le
loro convinzioni nella traduzione letterale della Bibbia e
attendevano l’apocalisse come profetizzato nel libro. Dopo la
morte di Benjamin, il regno passò nelle mani di
Lois, la moglie di Benjamin.
David Koresh si unì ai Branch
Davidians nel 1981 e trovò rapidamente il favore dei
membri del gruppo. La sua relazione con Lois lo mise in diretta
competizione con il figlio di Benjamin e
Lois, George Roden, per la
leadership del gruppo.
Come accade nei culti religiosi,
Roden sfidò Koresh a resuscitare
un cadavere per dimostrare le sue capacità miracolose. Nel novembre
1987 ebbe luogo il primo assedio a Waco tra David
Koresh e George Roden, quando
Roden intercettò i tentativi di
Koresh di entrare nel complesso e raccogliere
prove per rinchiudere Roden nel tentativo di
cedere il controllo del Mount Carmel. Si verificò
un massiccio scambio di proiettili prima che le forze dell’ordine
arrivassero e arrestassero gli uomini coinvolti. È interessante
notare che Koresh uscì dall’intera vicenda da uomo
libero, mentre Roden fu imprigionato per oltraggio
alla corte. Di conseguenza, Koresh ha preso il
controllo dei Branch Davidians.
Koresh usava la fede per
influenzare i suoi seguaci
Koresh sosteneva di
essere il profeta finale, il “Messia“, venuto per aiutare
il gruppo a sopravvivere all’apocalisse destinata ad arrivare da un
giorno all’altro alle loro porte. Utilizzò gli scritti del
Libro dell’Apocalisse per costruire ulteriormente
la sua immagine di profeta dei Branch Davidians.
Come menzionato in L’assedio di Waco di
Netflix, Koresh ha anche imposto ai suoi seguaci
maschi di astenersi dall’avere rapporti sessuali con le loro
partner, mentre sceglieva le mogli tra le donne del gruppo per
generare figli che avrebbero guidato il gruppo in futuro.
Nella docuserie, una delle
sopravvissute, Kathy Schroeder, cita addirittura
l’atto di coinvolgimento sessuale con Koresh come
mezzo per stare con il suo Dio. Tuttavia, l’aspetto più
preoccupante della condotta del gruppo rimane il fatto che bambini
di 12 anni venivano costretti ad avere rapporti sessuali con
Koresh.
I Branch Davidians avevano
un’enorme scorta di armi da fuoco
I Branch Davidian
commerciavano armi da fuoco legalmente, il che spiega il facile
accesso del gruppo alle armi. L’ATF (Bureau of
Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives) sorvegliava il gruppo
già mesi prima dell’assedio. L’ATF era anche
riuscita a piazzare un agente sotto copertura, Robert
Rodriguez, all’interno della setta. Un giorno dopo che un
giornale locale aveva pubblicato un rapporto sull’accumulo di armi
e sul dilagante abuso di bambini tra i Branch
Davidians, l’ATF decise di eseguire un
mandato di perquisizione a Mount Carmel il 28 febbraio 1993.
Sfortunatamente, i tentativi
dell’ATF di condurre un’incursione a
sorpresa non hanno dato i risultati sperati, poiché il
gruppo è stato avvisato dell’incursione. Un fotografo aveva
erroneamente informato un postino locale, membro del gruppo, del
previsto raid. Non avendo più molto da fare, l’ATF
decise di procedere con il raid senza dare ai Branch
Davidians molto tempo per pensare alle loro prossime
mosse.
Il raid dell’ATF al Mount Carmel di
Waco è stato sventato fin dal primo giorno
Alla notizia del raid, i
Branch Davidians decisero di prepararsi al peggio
e predisposero la loro difesa per affrontare qualsiasi eventualità.
Anche l’ATF si preparò a condurre il raid con la
minore resistenza possibile. A quanto pare, Koresh
all’inizio voleva discutere con le autorità, come dice uno degli
intervistati nella docuserie
Netflix L’assedio di Waco. Ma quando si sentirono
degli spari dall’altra parte, a Waco si scatenò
l’inferno: l’ATF e i Branch Davidians si scatenarono l’uno contro
l’altro. I dettagli su chi abbia sparato per primo rimangono
tuttora poco chiari, poiché ogni gruppo attribuisce la colpa
all’altro.
Alla fine del primo giorno di quello
che si rivelò un assedio, quattro agenti dell’ATF
e sei Branch Davidians erano morti e molti altri erano rimasti
feriti. La devastante perdita di vite umane a Waco costrinse l’FBI
ad agire. I negoziati dell’FBI con
Koresh ebbero risultati alterni, con alcune donne
e bambini rilasciati a intermittenza in varie fasi durante i
51 giorni di stallo. La richiesta di
Koresh di trasmettere un suo video in televisione
fu accettata in cambio della sua resa. Subito dopo però si rimangiò
subito la parola. Come emerge dalle testimonianze dei membri della
squadra di negoziazione in L’assedio di Waco,
l’HRT agì spesso in contrasto con quanto suggerito dai negoziatori,
portando Koresh a perdere fiducia nei tentativi di
negoziazione.
L’FBI suonava musica ad alto volume
fuori dal complesso di Koresh
L’FBI era decisa a far arrendere
Koresh il prima possibile. Per farlo, ricorse a
mezzi violenti diretti e indiretti. Oltre a far sfilare una serie
di carri armati e un esercito di agenti delle forze dell’ordine di
circa novecento unità, l’FBI decise di costringere i Branch
Davidians a uscire diffondendo musica ad alto volume attraverso
altoparlanti fissati all’esterno del complesso.
Dai sermoni
buddisti al suono delle grida di un
coniglio mentre viene macellato, ogni tipo di suono fu
indirizzato ai Branch Davidians.
Un incendio apocalittico pose fine
all’assedio di Waco
Il 14 aprile 1993, gran parte delle
trattative tra l’FBI e Koresh si
erano avviate verso un vicolo cieco, poiché ormai
Koresh aveva promesso di arrendersi più volte
prima di rimangiarsi la parola. Il 14 aprile rivelò di volere del
tempo per scrivere un manoscritto per condividere gli insegnamenti
sacri con il mondo. A questo punto, l’FBI decise
di rivolgersi al Procuratore Generale Janet Reno per ottenere il
permesso di entrare nel complesso. L’FBI aveva chiesto il permesso
di usare i gas lacrimogeni per costringere i sopravvissuti ad
arrendersi senza aprire il fuoco. L’assalto dell’FBI iniziò come
previsto il 19 aprile, ma ben presto un incendio
iniziò ad avvolgere il complesso dei Branch Davidian a Mount
Carmel.
L’origine dell’incendio
rimane controversa: molti sopravvissuti sostengono che sia
stata l’FBI ad appiccare il fuoco. Ma i nastri
rilasciati in seguito hanno rivelato che i Branch
Davidians avevano discusso di appiccare il fuoco. Nel
corso dell’assedio furono collocati all’interno del complesso
diversi dispositivi di ascolto che permisero
all’FBI di catturare tali registrazioni. Quando le
fiamme si placarono, il complesso era stato raso al suolo, pagine
di bibbie e corpi di uomini, donne e bambini morti
e mezzo carbonizzati. L’autopsia rivelò che
Koresh e il suo vice, Schneider,
erano morti per le ferite dei proiettili. L’intera disfatta fu
trasmessa in diretta dai notiziari televisivi, mentre il Paese
assisteva al fatidico culmine dell’assedio di Waco, durato 51
giorni.
Sebbene alcuni degli eventi chiave
rimangano tuttora oggetto di un acceso dibattito, l’assedio
di Waco si tradusse in uno dei capitoli più fatali della
storia americana moderna, in quanto vennero
commessi errori evidenti e ammessi da entrambe le parti. Quasi 30
anni dopo, L’assedio di Waco cerca di rinfrescare
la memoria di un evento che ha scosso tutti coloro che vi hanno
assistito, sia sul posto che attraverso la televisione di casa.
Cerca di umanizzare le parti in causa, che si sentono giustificate
nelle loro azioni. Sebbene la docuserie di Netflix scelga di saltare alcuni dettagli,
presenta una giusta opportunità per i membri di entrambe le parti
di presentare il loro orribile racconto dell’apocalisse che si
verificò a Waco nel 1993. Con l’uscita di
Waco: The Aftermath di Showtime prevista per aprile, questa non è
l’ultima volta che sentiremo parlare della tragedia di Waco.
Dietro la realizzazione di un film
in animazione come Kubo e la Spada Magica c’è
sempre un lavoro enorme, lunghissimo, che coinvolge un numero di
persone impensabile. Certo, sembra un’ovvietà sottolineare questo,
ma quello che poi finisce all’interno di quelle due ore scarse che
ci affascinano sullo schermo rappresenta solamente il frutto delle
scelte finali effettuate su migliaia di schizzi concettuali,
maquette di prova modellate in plastilina, storyboard, prove
pittoriche, esperimenti digitali. Il lavoro di creazione
rappresenta una forma d’arte spesso destinata a essere dimenticata
e spesso considerata una fase di lavoro necessaria ma poi di
secondaria importanza, visto che quello che verrà poi ricordato dal
pubblico è solamente quello che compare sullo schermo.
I tempi di realizzazione di un film
in stop-motion si aggirano tra i tre e i quattro anni e
Kubo e la Spada Magica non fa eccezione.
generalmente il primo anno viene interamente dedicato allo studio e
allo sviluppo dei personaggi e delle ambientazioni. Esistono quindi
per ogni personaggio e in misura maggiore per i protagonisti un
infinità di versioni di prova, a volte semplicemente disegnate e
altre addirittura modellate e realizzate tridimensionalmente, tutte
versioni che si evolveranno e che porteranno poi all’idea
definitiva. Molte di queste, la maggior parte, vengono invece
completamente abbandonate, perché ritenute non valide, o magari
perché forse intese come non adatte a un pubblico vasto e
variegato.
Ma si tratta di vere e proprie
opere d’arte, di un patrimonio espressivo enorme che purtroppo
rimane spesso invisibile ai più.
Sarebbe impossibile ricordare tutti
gli artisti che hanno preso parte alla fase concettuale di
Kubo e la Spada Magica, ma eccone una piccola
selezione.
Lo scultore Kent
Melton ha messo al servizio del film la sua straordinaria
capacità di modellatore per plasmare delle maquette in plastilina
di tutti i personaggi, basandosi sugli schizzi e sugli studi di
movimento disegnati da Shannon Tindle. E’ questo
il primo approccio espressivo che ha permesso di rendere tangibili
tridimensionalmente quelle idee di personaggi che di lì a poco si
sarebbero materializzate in burattini snodabili, pronti a recitare
e a far sognare il pubblico.
Lou Romano ha
realizzato una serie di splendide illustrazioni digitali che
raffigurano tutte le situazioni del film. Non si tratta di uno
storyboard, ma di un vero e proprio racconto illustrato sulle
avventure di Kubo. Un’ interpretazione estremamente
personale, messa al servizio di Travis Knight e del suo
staff per trarre preziose suggestioni.
Anche August Hall
ha fornito la sua interpretazione personale, sempre con una tecnica
pittorica digitale. In un progetto come Kubo e la Spada
Magica è fondamentale attingere a una grande varietà di
visioni artistiche individuali, in modo da avere del valido
carburante per alimentare la fantasia del regista e dei ruoli
creativi principali, come costumi, scenografia e fotografia.
Ean Mcnamara ha
messo al servizio del film la sua arte con splendide tavole
digitali, di gusto pittorico, che ricordano gli illustratori
americani degli anni cinquanta, concentrandosi su ambientazioni
paesaggi , in modo da fornire stimoli visivi allo scenografo
e ai suoi collaboratori.
E da osservare a bocca aperta sono
anche I bozzetti concettuali dipinti con la tavoletta grafica di
Trevor Dalmer.
Per fortuna Laika sa quale prezioso
patrimonio espressivo rappresenta tutto questo lavoro realizzato
con passione da un manipolo di artisti entusiasti e dalle capacità
strabilianti, così, come avvenuto per i film precedenti, ha
pubblicato un libro che raccoglie tutto il lavoro preparatorio e
concettuale. Il titolo è The Art of Kubo and Two
Strings, è curato da Emily Haynes ed è
acquistabile on
line.
L’arte della gioia
è l’audace adattamento televisivo del romanzo postumo di
Goliarda Sapienza. Con la regia di
Valeria Golino (Euforia,Miele)
e una sceneggiatura realizzata in collaborazione con Luca
Infascelli, Francesca Marciano, Valia Santella e
Stefano Sardo, il drama si fa portavoce di
un’epoca in cui le convenzioni venivano messe a nudo. Tecla
Insolia, nel ruolo di Modesta, incarna una giovane donna
spregiudicata, sensuale e coraggiosa, la cui figura trasgressiva
scuote i pilastri di un’Italia ancora legata a vecchie regole.
L’arte della gioia rappresenta
dunque anche una riscoperta del romanzo omonimo, scritto dalla
siciliana Goliarda Sapienza e completato nel 1976,
per essere pubblicato integralmente solo nel 1998, dopo la morte
dell’autrice.
Presentata in anteprima mondiale
alla 77ª edizione del Festival di
Cannes nel 2024, in occasione del centenario della scrittrice,
la produzione coinvolge attrici del calibro di Valeria Bruni Tedeschi, Jasmine Trinca e un nutrito cast di
interpreti. Tra loro Guido Caprino, Alma Noce, Giovanni
Bagnasco e Giuseppe Spata.
La trama di L’arte della
gioia
Modesta nasce il 1° gennaio 1990 in
Sicilia, in una terra segnata dalla povertà. Fin da piccola, il suo
spirito si distingue per una curiosità inarrestabile e un desiderio
profondo di amore e libertà, qualità che la spingono a sfidare i
limiti imposti da una società patriarcale e rigida. Un tragico
evento familiare segna l’inizio di un percorso difficile e
trasformativo.
Privata dell’affetto, la giovane
trova rifugio in un convento, dove il sostegno della comunità
religiosa le offre un barlume di speranza e stabilità. In questo
ambiente, il suo ingegno e la determinazione non passano
inosservati: la Madre Superiora Leonora (Jasmine Trinca), si
accorge del potenziale nascosto in Modesta e decide di prenderla
sotto la sua ala, guidandola lungo un percorso di crescita e
apprendimento che le permetterà di confrontarsi con le sfide della
vita in modo consapevole.
Il destino la porta successivamente
a varcare la soglia della sontuosa villa della Principessa Gaia
Brandiforti (Valeria Bruni Tedeschi). In questo
contesto di potere e rigide convenzioni sociali, Modesta riesce a
ritagliarsi uno spazio sempre più importante, dimostrando la sua
capacità di navigare con astuzia tra le dinamiche di un ambiente
elitario. La sua evoluzione non è solo esteriore: attraversa un
profondo percorso di maturazione personale e sessuale, che la porta
a esplorare e superare i limiti tra ciò che è considerato lecito e
ciò che non lo è. Tentando di riaffermare il suo diritto
inalienabile a vivere pienamente.
L’arte della gioia:
l’impalpabile
C’è un che di impalpabile ne
L’arte della gioia. Qualcosa di etereo, che sfugge
allo sguardo e alla comprensione. Lo si avverte immediatamente. A
partire da quella inquadratura in cui, all’interno del “primo atto”
della serie, Modesta cerca di afferrare Dio sfiorando il fascio di
luce che, attraverso la finestra, filtra nella sua stanza; e nel
farlo esce dal campo.
L’immagine, sembra suggerire fin da
subito Golino, non è forse in grado di contenere il racconto nella
sua interezza. Perché al di là di quanto è possibile intravedere
tra le pieghe di una narrazione che sceglie di alternare linearità
e rimosso, c’è un mondo quasi invisibile fatto di fuori campo e
segreti. Un “al di fuori” che, almeno inizialmente, preserva anche
la dimensione carnale della storia. Non per timore di mostrarla,
bensì per caricare l’erotismo di cui si fanno portavoce gesti e
gemiti che aleggiano nel convento come spettri. Avvicendandosi alla
violenza che, anch’essa di soppiatto, brucia con la medesima
intensità delle fiamme che distruggono la casa d’infanzia di
Modesta – prigione di abusi e umiliazioni che, alla stregua di
mitologiche creature, sembrano tuttavia risorgere dalle ceneri
della memoria.
Forze della natura
Abile nel dosare alcune soluzioni
sorrentiniane a intrighi e suggestioni di di matrice esterofila
(pensiamo alle atmosfere de Il
racconto dell’ancella e all’organizzazione delle Bene
Gesserit nell’universo di Dune: Prophecy), la regista semina nel
racconto il germe di una oscurità latente che assume però i
contorni di un desiderio di sopravvivenza e di una diversità
intrinseca. Nonché di una convinta affermazione di non appartenenza
a un mondo che frustra la passione di Modesta imponendole la gabbia
del dogma, dell’abito e del ruolo.
A prevalere è tuttavia la dimensione
privata di una storia che, lacerata da rotture della quarta parete
e ricordi, sfuma i contorni della vita della protagonista con
quelli delle indomabili forze della natura. Fino a confonderli
nella distesa d’acqua azzurra che, agognata fin dall’infanzia,
colma lo sguardo libero di una donna che è come il mare.
Inafferrabile e incontenibile.
In attesa della serata di
premiazione degli EFA, gli Oscar eropei del cinema, che si terrà a
Riga Sabato 13, Istituto Luce-Cinecittà organizza una speciale
proiezione e programmazione de L’Arte della
felicità, l’opera prima di Alessandro
Rak candidata agli EFA come Miglior Film
d’Animazione. Una nomination arrivata per la prima volta
nella storia del nostro cinema a un lungometraggio di animazione in
un importante premio internazionale, e giunta più che meritata per
un film rivelazione della scorsa stagione, che ha ottenuto
risultati lusinghieri al botteghino e una grande accoglienza di
critica.
Distribuito da Luce-Cinecittà
L’arte della felicità sarà proiettatodomani, Venerdì 12, alle ore 18.00 al Teatro
Flavio (via Crescimbeni, 19 – zona Colosseo), con replica
Sabato alle 18.00 e Domenica alle 20.30.
Sarà l’occasione per chi non l’ha
visto di recuperare, o di rivedere, un’opera realizzata con un
budget straordinariamente basso per il genere, grazie alla
creatività di un pool di giovani autori dello studio Mad
entertainment, che da Napoli è riuscito a portare il ritratto non
convenzionale della città agli applausi in tutta Italia e a una
cavalcata avvincente tra premi e festival europei fino alla
nomination di Riga.
Un film che Roberto Saviano ha
definito senza mezzi termini ‘un capolavoro’, con un consiglio:
‘smettete di fare qualsiasi cosa stiate facendo e andate a
vederlo’.
Il 21 novembre si
festeggiano i 10 anni del film “L’arte
della felicità” di Alessandro Rak: il film
d’animazione realizzato a Napoli da giovani disegnatori,
fumettisti, musicisti e da un produttore-sceneggiatore illuminato,
è nel 2014 il vincitore dell’Oscar europeo e ha fatto la recente
storia dell’animazione in Italia per il cinema destinato a un
pubblico adulto.
10 anni che segnano
anche la storia della produzione Mad
Entertainment che esordisce con questo titolo e che
da allora è un punto di riferimento imprescindibile per
l’animazione in Italia, aperta anche alla produzione
cinematografica di fiction e di documentari.
Mad
Entertainment (Movie Animation and Documentary) è la factory
creativa e produttiva, fondata a Napoli e animata
da Luciano Stella, Maria Carolina
Terzi, Carlo Stella e Lorenza Stella e
che ha sede nel cuore della città, negli storici appartamenti dove
Vittorio De Sica girò “L’oro di Napoli” e “Matrimonio
all’italiana”. È qui che è nata la scommessa di convogliare in un
unico luogo artisti e professionisti dell’audiovisivo nei settori
del documentario, della fiction e dell’animazione.
Oggi si festeggia
questo compleanno per ricordare l’avventura di “L’arte della
felicità” nata con pochi mezzi, e molta fantasia. “L’arte della
felicità” è la favola metropolitana ambientata in una Napoli divisa
fra “monnezza” e nobiltà, all’ombra di un Vesuvio bellissimo ed
inquietante, dove il taxi driver Sergio attraversa una città
plumbea trasportando passeggeri, ricordi e una grande rabbia per il
fratello scomparso.
Il film, prima di
uscire in sala il 21 novembre 2013, aprì la Settimana della Critica
a Venezia, e dopo tanti riconoscimenti in patria arrivò la
consacrazione con il prestigioso riconoscimento
agli EFA (che vince su grandi
competitors come Luc Besson). Un film acclamatissimo dalla critica
e che, ancora oggi, a 10 anni di distanza, è
considerato cult. Napoli lo festeggerà
il 25 novembre con un
grande evento-festa al Teatro Bolivar,
destinato a tutti gli appassionati e seguaci del film e di Mad.
«“L’arte della
felicità” è uno dei primi film di animazione per adulti
tutto made in Italy (o meglio in Naples) –
dichiara Luciano Stella che è anche
autore tra gli altri della sceneggiatura. – Ora Alessandro
Rak è un autore di animazione riconosciuto a livello europeo. Ma
quando si partì con questa avventura, nessuno avrebbe mai
immaginato di essere all’inizio di un percorso che avrebbe fatto di
Mad il polo produttivo più importante di Napoli e del Sud, che ha
creato un indotto economico fuori dall’ordinario».
Mad, da allora, ha
formato una nuova leva di professionisti dell’animazione, i primi a
usare un software Blender molto avveniristico al tempo, dimostrando
di essere pionieri, e facendo di necessità virtù, in assenza di
risorse. Oggi Mad è una società per azioni che conta una factory di
40/50 animatori.
«In questi 10
anni abbiamo fatto altri due film di animazione con
Rak, “Gatta
cenerentola” e “Yaya
e Lennie – The Walking Liberty”, una serie
animata di 26 puntate, “Food
Wizards”, oltre a tre film per il cinema – tra
cui “Nostalgia” di Mario Martone e
il prossimo
atteso “Caracas” di Marco
D’Amore – e diversi documentari, che spesso si
avvalgono di insert di animazione, contaminando i
linguaggi – dichiara Carolina
Terzi, da poco eletta presidente di Cartoon
Italia, importante riconoscimento da parte dell’industria
e delle istituzioni. – Abbiamo aperto una finestra su un
mercato mondiale, con un linguaggio evidente e forte che ci spinge
a continuare».
Oggi Mad è
impegnata sul fronte dell’animazione con la realizzazione
di “I’m still alive – Sono ancora
vivo” di Roberto Saviano –
primo lungometraggio diretto dallo scrittore, tratto dall’omonima
graphic novel – e a giorni presenterà in Concorso al
Festival di Torino il corto di animazione che
racconta delicatamente il passaggio dalla
condizione di figlio a
quella di genitore, “Due battiti” di Marino
Guarnieri, che fa parte
della factory Mad fin dall’inizio di questa
lunga storia.
Lucky Red è lieta di presentare il
trailer de L’Arminuta,trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo
bestseller vincitore del Premio Campiello 2017 di Donatella Di
Pietrantonio edito da Einaudi.
Diretto da Giuseppe
Bonito, regista di Figli (vincitore del Nastro d’Argento come
miglior commedia), il film porta sullo schermo la storia di una
ragazzina di tredici anni costretta a lasciare la vita cui
appartiene per ricongiungersi alla famiglia in cui è nata, passando
da un mondo moderno e ricco ad una realtà rurale e ancora arcaica.
Uno straniamento in cui l’Arminuta, ossia la ritornata, dovrà
attraversare il senso di abbandono per arrivare a scoprire quello
di appartenenza.
Una storia intensa e estrema che ha
conquistato i lettori facendoli immedesimare in una ragazza che con
rabbia e coraggio elabora dentro di sé il significato del rapporto
genitori-figli, della maternità, dell’amore e dell’abbandono.
Il film, cosìcome il romanzo, racconta un anno di vita di questa ragazzina
alle soglie dell’adolescenza, un periodo che
segneràla sua vita per sempre, in cui
sperimenteràil dolore e la durezza ma anche
l’amore, la dolcezza e la bellezza a tratti
feroce che la vita riserva.
Mi piacerebbe che la narrazione
restituisse soprattutto due cose: da un lato lo sguardo de
l’Arminuta, cheètestimone suo
malgrado, e dall’altro il magma incandescente dei
sentimenti laceranti che questa storia contiene.
L’Arminuta
affronta una delle paure piùprofonde di ogni
individuo, quella di perdere le persone dalle quali dipende la
propria felicitàedèanche il
racconto del contrasto tra il destino e la volontàdell’essere umano.
Giuseppe Bonito
L’armitura, la trama del film
Tratto dal
romanzo bestseller di Donatella Di Pietrantonio vincitore del
Premio Campiello 2017.Estate 1975. Una ragazzina di tredici
anni viene restituita alla famiglia cui non sapeva di appartenere.
All’improvviso perde tutto della sua vita precedente: una casa
confortevole e l’affetto esclusivo riservato a chi è figlio unico
venendo catapultata in un mondo estraneo.
L’arma
dell’inganno – Operation Mincemeat è il nuovo film di
John Madden (Shakespeare in love,
Il mandolino del capitano Corelli, Marigold Hotel,
Miss Sloane), basato su un evento realmente
accaduto sul finire della Seconda Guerra Mondiale organizzato dal
dipartimento di controspionaggio per la sicurezza del Regno Unito
(MI5), che era dedicato nello specifico alla protezione navale.
I fatti erano già
comparsi in un altro film del 1956 dal titolo L’uomo che
non è mai esistito di Ronald Neame,
uscito un paio di anni dopo che lo stesso protagonista ne aveva
scritto un libro.
L’arma dell’inganno – Operation
Mincemeat, la trama
A capo dell’operazione
c’era infatti l’ex giudice Ewen Montagu – interpretato dalla
svettante eleganza di
Colin Firth – a cui si affiancò Charles Cholmondeley
(Matthew
Macfadyen). Insieme costruirono e inscenarono
«l’inganno più spettacolare nella storia dello spionaggio», come
venne definito, traendo spunto da un documento redatto
dall’ammiraglio John Godfrey (Jason
Isaacs) e dal tenente Ian Fleming (Johnny
Flynn), proprio lui: il creatore di James
Bond, l’agente segreto per antonomasia.
L’arma
dell’inganno – Operation Mincemeat è tra le pellicole
la cui uscita al cinema è stata posticipata a causa della pandemia.
Ciò significa che faccia rabbrividire una volta di più riflettere
su immagini e dialoghi che, con ottime probabilità, staranno
svolgendosi anche oggi, non molto lontano da noi. L’amara
coincidenza, conferma quanto la mediazione dell’arte abbia sempre
una forza e una delicatezza tutte proprie nel riuscire a far
fermare e ascoltare. O quanto almeno tenti di farlo.
Tratto da una storia
vera
Ad ogni modo, la
peculiarità dell’angolazione dalla quale il regista ha voluto
narrare questo racconto, è un parallelo tra due tipi di guerra:
quella sul campo di battaglia e quella che si combatte nell’ombra,
ad opera di chi la Storia la scrive davvero, in tutti i sensi.
Ewen Montagu e Charles
Cholmondeley portano avanti un’idea teoricamente geniale, ma dalle
eventualità catastrofiche e dal cui esito dipende la vita di
centinaia di migliaia di persone. Con il nullaosta di Winston
Churchill (Simon Russell Beale) e la perplessità di molti, tra cui
i loro stessi originari ideatori, sviluppano il cosiddetto
“haversack ruse” (letteralmente: “stratagemma della bisaccia”), una
tattica di depistaggio che prevede il ritrovamento da parte dello
schieramento nemico di una serie di documenti all’interno di una
sacca, appunto, con informazioni false che lo conducano lì dove
l’esercito britannico vuole che vada. Naturalmente il ritrovamento
deve sembrare totalmente casuale, proprio per far credere che la
documentazione sia vera e preziosa. Perciò non dovrà capirsi in
alcun modo che sia stato tutto messo lì apposta.
Neanche nella migliore
fantasia nella testa del migliore degli scrittori sarebbe potuto
sorgere un tale labirinto d’incastri. O forse sì.
L’arma
dell’inganno – Operation Mincemeat diventa dunque una
storia nella Storia, dove la creatività diviene il mezzo per la
difesa di un numero altissimo di persone. E chi viene scelto come
corriere per il trasporto delle finte informazioni che dovranno
leggere i nazisti? Un cadavere.
A completare
l’incredibile messinscena si uniscono anche la fedele e acuta
governante di Montagu, Hester Leggett (Penelope
Wilton) e l’assistente Jean Leslie (Kelly
Macdonald). Così, con un ottimo ritmo narrativo, e la
nascita di un breve e struggente triangolo amoroso, si combinano
più piani di senso in cui l’uno condiziona l’altro. E, nel tessere
le trame degli eventi, viene mostrato come le scelte più piccole,
personali e personalizzate dalla propria passione, siano in grado
d’influenzare, creare e cambiare. Anche e soprattutto con l’audacia
del proprio istinto.
Nella sede del Ministero per i Beni e
le Attività Culturali Istituto Luce Cinecittà e Google presentano
un accordo per rendere accessibile su YouTube l’immenso
patrimonio
Dopo il divertente
Dio è donna e si chiama Petrunya, la regista
macedone Teona Strugar Mitevska torna in sala, dal
6 aprile, con L’Appuntamento (The
Happiest Man in the World), presentato in anteprima
nella sezione Orizzonti della 79ª Mostra
internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
L’Appuntamento
(The Happiest Man in the World), la
storia
Asja è una donna single
di 40 anni che per incontrare l’anima gemella si iscrive a un buffo
evento di speed dating, un appuntamento. Qui conosce Zoran, un uomo
misterioso e di bell’aspetto con cui all’inizio sembra nascere una
sintonia speciale. Ma Zoran non è lì per cercare l’amore bensì il
perdono: c’è un segreto nel suo passato che riguarda proprio Asja.
La sua presenza in quel posto non è casuale e presto entrambi
scopriranno il vero senso di quello che li unisce e quello che li
divide, l’eredità della guerra nei Balcani che hanno vissuto da
giovani, da parti opposte, e la possibilità di costruire un futuro
sulle macerie, fisiche ed emotive, che il conflitto si è lasciato
dietro.
Come sempre il cinema di
Strugar Mitevska si confronta con i rapporti tra passato e
futuro, sia quando essi si riferiscono alle tradizioni da
rivedere o da sostenere, sia quando passato e futuro sono due
aspetti di una vita tagliata a metà dal conflitto e dalla guerra.
Ed è questo quello che fa la regista, in particolare, con
L’appuntamento: traccia delle linea di vita di
persone che nella Sarajevo dei nostri giorni cercano di costruire
una vita là dove la guerra ha lasciato solo macerie.
Il desiderio di una vita, il desiderio del perdono
L’appuntamento al buio,
lo speed date, l’occasione goliardica e imbarazzata di un
incontro combinato con altre esistenze che cercano quello che cerca
la protagonista si fa teatro dell’assurdo nel momento in cui
capiamo, con un crescendo di tensione pari a un thriller, che c’è
qualcosa che Zoran cerca e desidera da Asja, un’esigenza di perdono
che non capiamo bene da dove nasca ma che diventa piano piano una
questione pubblica, argomento di discussione, centro nevralgico
dello snodo narrativo fondamentale. Il gruppo è chiamato a
giudicare e condannare, ma anche a difendere, un gruppo che in
comune ha la ferita della guerra: quella vissuta, quella ereditata,
quella desiderata.
Questa umanità ferita
viene raccontata con toni che, oltre a strizzare l’occhio al
thriller, come suggerito sopra, si abbandonano anche ad una
controllata anarchia nel momento in cui è il gruppo a prendere il
sopravvento, nei goffi momenti di gioco organizzati per lo speed
date, nelle imbarazzate domande che si rivolgono i partecipanti, in
un susseguirsi di situazioni che potrebbero essere esilaranti se
non fosse che, nell’ingombrante sottotesto della messa in scena, si
percepisce sempre un imminente confronto, uno svelamento tremendo
di una verità terribile che porterà a un confronto difficile e
doloroso.
L’umorismo e il trauma
La natura più intima de
L’Appuntamento si svela quindi proprio in questa
doppia valenza. Da una parte la rappresentazione umoristica e
realistica di un appuntamento al buio, i timori, gli imbarazzi, le
curiosità mai troppo ostentate. Dall’altra l’elaborazione di un
trauma, la presenza di esso nella vita di chi lo ha vissuto da ogni
punto dei vista: chi lo ha subito senza poter fare nulla e che
adesso cerca di costruire una vita nuova su quelle macerie; chi ha
partecipato e adesso cerca la redenzione perché riconosce la
stupidità di ciò a cui ha preso parte.
In una maniera molto più
raffinata e sotto voce, L’appuntamento racconta
anche di chi quel trauma lo ha solo ereditato, di chi è nato in un
mondo distrutto che cerca di ricostruirsi e che vuole dimenticare
quelle ferite di seconda generazione che porta suo malgrado.
Applaudito in selezione ufficiale
all’ultima Mostra
del Cinema di Venezia, L’appuntamento (The Happiest
Man in the World) segna l’atteso ritorno della regista
Teona Strugar Mitevska dopo il successo di
Dio è donna e si chiamaPetrunya. Il
film uscirà al cinema in Italia il 6 aprile con Teodora.
Asja è una donna single di 40 anni e
per incontrare l’anima gemella si iscrive a un buffo evento di
speed dating. Qui conosce Zoran, un uomo misterioso e di
bell’aspetto con cui all’inizio sembra nascere una sintonia
speciale. Ma Zoran non è lì per cercare l’amore: c’è un segreto nel
suo passato che riguarda proprio Asja e che ha unito i loro
destini…
Come sempre nel suo cinema, Mitevska
parte da un grande ritratto femminile per riflettere sulla società,
sui suoi pregiudizi e la sua violenza, ma anche sulla possibilità
sempre viva dell’amore e della redenzione.
“Cosa ci definisce: la nostra
etnia, la nostra religione, il nostro genere? Cosa ci divide o ci
unisce?“, dichiara la regista. “Questa è una storia sulla
precarietà della vita, sugli incontri casuali che uniscono
l’aggressore e la vittima, riportando in vita il passato doloroso;
è una storia di connessioni impossibili, di amore e di
assurdità“.
L’appuntamento (The
Happiest Man in the World)
(Titolo internazionale: The
Happiest Man in the World)
con Jelena Kordić Kuret, Adnan Omerović, Labina Mitevska
scritto da Elma Tataragić e Teona Strugar Mitevska
fotografia di Virginie Saint Martin
prodotto da Labina Mitevska
regia di Teona Strugar Mitevska
Distribuito da Notorious Pictures, L’Ape Maia Il Film, in uscita
nelle sale italiane il prossimo 18 Settembre con la regia di Alexs
Stadermann.
Amicizia, libertà e coraggio sono il cuore della nuova
entusiasmante avventura di Maia, Willy e dei loro amici. Uno
spettacolare viaggio alla scoperta del mondo che li circonda e di
tutti gli esseri viventi che ne fanno parte, vi aspetta sul grande
schermo!
Famosa in tutta Europa da più di 100 anni, prima con la serie di
libri per bambini scritta da Waldermar Bonsels, e poi con la
celebre serie tv prodotta negli anni Settanta, l’Ape Maia è amata
da pubblici di tutte le età, dai più piccini agli adulti.
Come nella serie, il contrasto tra la vita seria e disciplinata
dell’alveare dove Maia vive e il suo desiderio di scoperta e
avventura, faranno da padroni e continueranno ad appassionare anche
le nuove generazioni in questo fantastico film realizzato in
computer grafica!
La voce di Maia è quella originale della serie, cioè della
doppiatrice Antonella Baldini.
Negli ultimi tempi i film
di animazione per bambini ci hanno riservato delle sorprese
inaspettate. Da Megamind a
Frozen, solo per citare i più amati degli
ultimi anni, i cartoni animati sono diventati film interessanti non
solo per i bambini ma anche e soprattutto per i genitori che li
accompagnavano. Storie interessanti, personaggi divertenti e ben
caratterizzati, in alcuni casi anche le colonne sonore
perfettamente curate hanno chiamato al cinema un numero
impressionante di spettatori, e non solo minorenni. Purtroppo non è
questo il caso de L’Ape Maia Il Film.
L’insetto icona degli anni Settanta è protagonista di un
lungometraggio che uscirà al cinema il 18 settembre con la regia di
Alex Standermann. Come nella famosa serie
televisiva il contrasto tra la vita rigida e disciplinata
dell’alveare e la voglia di avventura della piccola Maia è al
centro della vicenda. Ma certo questo non basta per portare avanti
un lungometraggio, e così vengono in soccorso della narrazione
oscuri intrighi di palazzo ai danni dell’Ape Regina e battaglie sui
prati tra nemici di sempre come api e calabroni.
È proprio questa povertà
dell’impianto narrativo che rende il film poco interessante, gli
spettatori più piccoli si sono ormai abituati ad un tipo di cinema
completamente diverso da quello di qualche anno fa, fatto anche di
gag esilaranti che loro ben comprendono, di personaggi davvero
cattivi ma creati in modo da non spaventare. In L’Ape
Maia invece la storia, come chi la percorre, non è
abbastanza forte da reggere il passo con le nuove proposte
dell’animazione internazionale. I personaggi, quelli di sempre come
la cavalletta Flip e Willy l’inseparabile amico di Maia, non hanno
spazio sufficiente, in una vicenda così costretta, per tirare fuori
le peculiarità che li caratterizzavano nella serie televisiva. Dal
punto di vista visivo, inoltre, la scelta di realizzarlo in
computer grafica certo non aiuta l’effetto “nostalgia” che certo si
prevedeva di risvegliare con questo film, Maia e i suoi comprimari
risultano freddi e troppo diversi dagli originali. A poco vale
l’uso della voce di Antonella Baldini, doppiatrice
della piccola ape anche nella versione televisiva, per rapire
davvero i bambini del presente e del passato che sono cresciuti con
le avventure di Maia e dei suoi amici.
È partita la campagna di
crowdfunding per l’Annunciazione,
cortometraggio a sfondo sociale su una delle più difficili e
onerose problematiche di questo millennio: la Terra dei
fuochi.
Scritto e diretto da
Stefano Delle Cave, giovane e promettente regista
campano, il corto prova a fare luce sulla cosiddetta
Terra dei fuochi attraverso gli occhi
lucidi e spietati di una donna in dolce attesa. E’ lei che
partorirà quel figlio maledetto, frutto di una violenza subita
dalla madre terra … Una traslazione del mito cristiano
dell’Annunciazione che, facendosi carne ed ossa, giunge tra noi per
cambiare i destini dell’umanità.
Al centro della storia uno
stupro a cui tutti hanno assistito inerti,
consapevoli dell’assurda violenza che quella terra stava subendo,
ma forse troppo spaventati per poter reagire. Invece lei,
Annamaria, il coraggio per denunciare lo trova e decide di opporsi
a tutto ciò attraverso il più forte gesto di ribellione possibile
per una madre: la nascita di “chilla
criatura”, frutto di un peccato abominevole. Forse solo così
tutti quanti potranno finalmente rendersi conto dell’abuso
perpetrato e cambiare verso al corso della storia.
Il cortometraggio, tratto
dall’omonimo monologo teatrale di Pasquale Faraco, è prodotto
interamente da CNO-Webtv, con il supporto di
Carmosina srls. “Della Terra dei fuochi se ne parla ormai da
tempo, ma forse non ancora abbastanza – commenta il regista
Stefano Delle Cave – l’Annunciazionevuole tentare di sollecitare certe coscienze addormentate,
fornendo loro una chiave di lettura diversa, per fornire loro un
percorso di maieutica, verso il raggiungimento di una verità celata
e poi dimenticata”.
Per dare maggiore spessore a questa
complessa vicenda, il cortometraggio verrà girato a Somma
Vesuviana, nel napoletano. “La nostra raccolta fondi
non ha nessuno scopo di lucro – tiene a precisare il regista –
ciò che ci accingiamo a compiere è un’operazione a scopo
sociale, un messaggio di speranza per le nuove generazioni”.
Un monito per il futuro, la speranza per il riscatto: il corto,
infatti, sarà distribuito nelle scuole e in tutti quei luoghi di
aggregazione sociale, indispensabili per la formazione delle nuove
coscienze. “Anche per tale ragione – continua ancora
l’autore – mi sto adoperando per richiedere il patrocinio e il
sostegno da parte del Presidente della Repubblica, Governo,
Ministero dell’Ambiente, Regione Campania, Comune di Napoli e di
Somma Vesuviana e di tutte le autorità e associazioni che,
come noi, hanno a cuore il futuro della nostra terra”.
Per prendere parte a questo progetto
basta collegarsi alla piattaforma di crowdfunding Eppela.
Anche un piccolo contributo può fare la differenza.
L’Anatra
all’Arancia è un film del 1975 diretto da
Luciano Salce con protagonisti nel
cast Ugo Tognazzi, Monica Vitti, John
Richardson e Barbara Bouchet.
La
trama di L’Anatra all’Arancia – Gli anni ’70,
in Italia, a livello cinematografico non sono stati solo gli anni
di piombo e della violenza celebrati nel poliziottesco; quelli
della goliardia beffarda dei famosi fagioli western o,
infine, quelli degli horror più gore e cruenti.
Durante questa decade sono state realizzate
numerose commedie all’italiana, dove con questo termine si
vuole indicare il carattere tipicamente “italico” della costruzione
comica sottesa alla trama e alle presenze di alcuni attori feticcio
che, già a partire dagli anni ’60, avevano colonizzato il mondo
della commedia regalando al pubblico risate e interpretazioni
memorabili
Luciano Salce: grande uomo di spettacolo, showman
raffinato dalle mille vite, avventuriero; sicuramente un uomo che
aveva vissuto tante situazioni ai limiti del reale e che aveva
tante storie, in serbo, da raccontare, sempre utilizzando il suo
stile visivo giocoso ed eccessivo, tendente al surreale (come poter
dimenticare i primi due capitoli della saga infinita di Fantozzi,
vere perle della comicità nostrana?) nel 1975 decide di girare un
film, una commedia ovviamente, ispirata all’omonima opera teatrale
di William Douglas-Home e Marc-Gilbert Sauvajon: L’Anatra
all’Arancia.
Questa pellicola gli permette – grazie anche
all’appoggio del promettente testo- di mettere in scena con la sua
solita ironia sarcastica e pungente, col suo brillante witz
surreale, la storia di una coppia alto borghese, quella formata da
Livio e Lisa Stefani (interpretati da due mostri sacri della
commedia come Ugo Tognazzi e Monica Vitti, che per questo film
vinse un David di Donatello come miglior attrice protagonista nel
1976) che all’improvviso “scoppia”: lei ha incontrato un altro
uomo, l’affascinante avventuriero francese Jean- Claude (John
Richardson) del quale si è innamorata e progettano di scappare
insieme in Spagna per sposarsi e ricominciare una vita; Livio,
senza scomporsi o fare inutili scandali o discussioni, decide di
invitare a casa loro, per tutto il weekend, l’amante della moglie e
la sua segretaria, la bella, svampita e disinibita Patty (Barbara
Bouchet), più a suo agio completamente nuda nella piscina di casa
Stefani che dietro una scrivania…
L’Anatra all’Arancia ha una
forte eredità teatrale, ben visibile a partire dall’impianto stesso
della commedia: girata quasi tutta in un unico interno (casa
Stefani, gazebo incluso) a parte l’ultima scena che gode della
bellezza del mare incontaminato di Follonica (GR), specialmente di
Punta Ala, nel corso dei suoi 105 minuti cerca di districare, con i
toni allegri e brillanti tipici della pochade ottocentesca o
delle brillanti screwball comedy americane degli anni
’50-’60, la dinamica di una coppia in crisi, una coppia che si è
tanto amata ma che adesso sta vivendo la sua crisi, pur sapendo che
in realtà si tratta solo di qualche nube passeggera sul loro
rapporto. Gli amanti sono solo dei pretesti, dei diversivi per
ravvivare un rapporto forse ormai stanco che ha perso quella linfa
vitale che, in fondo, continua a tenerli insieme.
Veri
mattatori assoluti sulla scena sono Tognazzi e la Vitti: le mille
schermaglie tra marito e moglie, le gelosie, le ripicche e gli
scherzi infantili che si riservano accrescono il fascino senza
tempo di questi due divi nostrani, perfetti nei panni della coppia
borghese ricca ed annoiata. Un elemento in più è la presenza della
Bouchet nei panni della svampita segretaria che, pur facendo
sempre…la Bouchet- e finendo quindi per mostrare le sue grazie!- ci
mette una carica di ironia surreale e di disarmante innocenza che
rendono il prodotto finale una… bizzarra commedia sofisticata
aggiornata però ai costumi in continuo divenire dell’Italia degli
anni ’70.
L’amore non va in
vacanza è un film del 2006 diretto dalla regista
Nancy Meryers che vede nel cast del
film protagonisti Cameron Diaz, Kate Winslet, Jude
Law, Jack Black e il grande Eli Wallach.
L’amore non va in vacanza –
Trama: Amanda crea trailer per il cinema a Los Angeles, Iris
scrive cronaca rosa in Inghilterra. Entrambe vogliono lasciarsi
alle spalle una delusione d’amore. S’incontrano su internet e
decidono di scambiarsi la casa per le vacanze di Natale.
Così, nella campagna inglese
Amanda, che pure non voleva più sentir parlare di uomini, incontra
il fratello di Iris, Graham, e comincia a frequentarlo. Mentre in
America, Iris trova comprensione e amicizia in Arthur, anziano
sceneggiatore vicino di casa di Amanda, e nel simpatico Miles, che
compone colonne sonore ed è sentimentalmente sfortunato quanto lei.
Le due donne riusciranno così a guardare con distacco al loro
passato e imprimere una nuova direzione alle loro vite.
La recensione di L’amore non va
in vacanza
Le commedie romantiche di
ambientazione natalizia, possono essere scontati contenitori di
cliché, stucchevoli compendi di buonismo e frasi da
cioccolatino. Insomma, pacchi regalo dall’apparenza accattivante,
ma dal contenuto sciatto e insipido. A volte, però, contengono
sorprese, come in questo caso.
Per capirlo basta dare
un’occhiata al cast, che conta su nomi come Cameron
Diaz e Kate Winslet,
Jude Law e Jack Black, oltre a ricordare che la regista e
sceneggiatrice Nancy Meyers ha dato vita a diverse
commedie di successo prima come sceneggiatrice (Baby
Boom, Il padre della sposa), poi dietro la
macchina da presa (What women want, Tutto può
succedere, E’ complicato), ma sempre con un
occhio particolare ai personaggi femminili: vere protagoniste anche
in ruoli e situazioni insoliti, grintose e brillanti. Ne L’amore
non va in vacanza non mancano certo momenti romantici da
manuale e qualche passaggio sdolcinato. L’ambientazione natalizia
poi è ad hoc, specie per le vicende che si svolgono nella
campagna del Surrey innevata, e più in generale per raccontare due
storie a lieto fine che sanno di favola.
Tuttavia, la regista sa ben
sfruttare alcuni meccanismi tipici della commedia: il contrasto
evidente tra le personalità di Amanda (Cameron
Diaz) – grintosa imprenditrice incapace di piangere,
perfetta come una “bambola”, con un’enorme e costosissima casa a
Los Angeles – e Iris (Kate Winslet) –
inguaribile romantica sfortunata, troppo buona con gli altri e
severa con sé stessa, vittima di amore non corrisposto –
l’evento casuale che scompagina le loro esistenze, ossia lo
scambio di casa. Lo fa in maniera non scontata, puntando sulla
bravura del cast.
Le due attrici si allontanano dalle
proprie consuete interpretazioni – Diaz non è solo
il bell’oggetto del desiderio, ma svela semplicità e dolcezza;
Winslet esce dai ruoli drammatici per tuffarsi
nella commedia con un personaggio più vicino alla quotidianità – e
sembrano del tutto a loro agio. Inoltre, sono personaggi forti, del
cui carisma il pubblico femminile non può che essere orgoglioso,
mentre quello maschile ne resta facilmente affascinato.
Lo sguardo originale della regista
e sceneggiatrice agisce anche sugli altri personaggi: Graham
(Jude
Law) non è solo il solito immancabile seduttore, ma
anche un affettuoso padre di famiglia, con le sue debolezze, come
ad esempio, la lacrima facile. Un Jack Black (Miles) brillante ma romantico e un
insolito Eli Wallach nei panni dell’anziano
Arthur, che si fa consigliare e a sua volta consiglia la giovane
Iris, completano il quadro; citazioni shakespeariane al posto delle
banalità sull’amore. La commedia è brillante, ma non dal ritmo
forsennato; leggera, mantiene però l’attenzione al particolare, con
un’apparente semplicità che avvicina lo spettatore.
L’amore non va in vacanza frasi
Ho scoperto che quasi tutto ciò
che è stato scritto sull’amore è vero. Shakespeare ha detto: “Il
viaggio termina quando gli innamorati si incontrano”. Ah, che
pensiero straordinario! Io non ho mai sperimentato nulla di neanche
vagamente simile a questo, ma sono più che disposta a credere che a
Shakespeare sia accaduto. Credo di pensare all’amore più di quanto
in realtà si dovrebbe; resto sempre sbalordita dal potere assoluto
che ha di alterare e definire la nostra vita.
Un
uomo e una donna hanno bisogno di qualcosa per dormire e vanno
nello stesso reparto: pigiami da uomo. L’uomo dice al commesso: mi
serve solo il sotto… e la donna dice: mi serve solo il sopra. I due
si guardano e questo è un bell’incontro.
Senti, so che è difficile credere
alle persone che ti dicono ” so cosa provi”, ma io so davvero che
cosa provi. […] Sto cercando di dire che capisco com’è sentirsi
piccoli e insignificanti, quant’è umanamente possibile e come può
far male in punti che neanche sapevi di avere dentro di te. E non
importa quante volte cambi taglio di capelli o in quante palestre
ti iscrivi o quanti bicchieri di chardonnay bevi con le amiche: vai
lo stesso a dormire ogni sera riesaminando ogni dettaglio, e
chiedendoti dove hai sbagliato, come hai fatto a non capire. E come
diavolo hai potuto pensare di essere tanto felice in quel momento.
Ti capita anche di convincerti che lui capirà cosa ha perso e
busserà alla tua porta. E dopo tutto questo, per quanto a lungo la
storia possa durare, vai in un posto lontano e conosci persone che
ti fanno sentire di nuovo viva e finalmente i pezzettini della tua
anima si rimettono insieme e tutta quella confusione, tutti gli
anni della tua vita che hai sprecato… alla fine come per incanto
svaniscono. (Iris a Miles
Iris, se tu fossi una melodia…
userei solo le note belle. (Miles a Iris)
Sono innamorato di te. Perdona la
brutale dichiarazione, ma… per quanto problematica questa storia
possa essere, mi sono innamorato… di te. E non provo questo perché
stai per partire, né perché mi piace sentirmi così! Anzi, in realtà
non mi piace o non mi piaceva prima che tu parlassi. Non so capire
la logica di questa cosa, io so solo… che ti amo. È incredibile
quante volte lo sto dicendo. (Graham ad Amanda)
Nei film c’è la protagonista e c’è
la migliore amica. Tu, te lo dico io, sei una protagonista, ma per
qualche stupida ragione ti comporti da migliore amica.
L’esordio alla regia nel
lungometraggio di fiction Francesca Muci, L’amore è
imperfetto, tratto da un romanzo della stessa regista, ha
per protagonista Anna Foglietta nel ruolo di una donna che scopre
qualcosa di sé stessa lasciandosi andare all’amore nelle sue varie
forme. A presentare il film, accanto alla regista, intervengono lo
sceneggiatore e produttore Gianni Romoli, gli attori Anna
Foglietta, Giulio Berruti, Lorena Cacciatore e Camilla Filippi,
presenti anche i produttori R&C Produzioni e Rai Cinema.
Benedetta Parodi e Fabio Caressa
hanno qualcosa da dirci: saranno loro gli host de
“L’amore è cieco: Italia”, l’adattamento italiano della serie di
successo Love Is Blind, prodotto da Banijay Italia
e prossimamente solo su Netflix.
Per la prima volta insieme
alla conduzione di uno show, Fabio e Benedetta accompagneranno i
partecipanti in questo emozionante viaggio alla scoperta dell’amore
vero, dando il via al percorso che li porterà a scegliere qualcuno
da sposare senza averlo mai incontrato di persona.
L’amore è cieco: Italia
rappresenta un vero e proprio esperimento sociale, un approccio
meno convenzionale al dating moderno, in occasione del quale un
gruppo di single che vogliono essere amati per quello che sono avrà
l’opportunità di cercare l’anima gemella senza le distrazioni del
mondo esterno e scegliere qualcuno da sposare senza averlo mai
incontrato di persona. Dopo essersi visti ed essere promessi in
matrimonio, i protagonisti avranno la possibilità di approfondire
la loro conoscenza nella normale routine quotidiana di coppia fatta
di lavoro, amici e parenti. La realtà e i fattori esterni li
allontaneranno o, quando arriverà il giorno delle nozze, sposeranno
la persona di cui si sono innamorati ciecamente?
L’adattamento italiano,
con la regia di Angelo Poli, è scritto da Magda Geronimo, Valentina
Massouda e Antonio Vicaretti.
Love is Blind ha debuttato
negli Stati Uniti il 14 febbraio 2020 e da allora è diventato un
fenomeno globale. La serie originale ha avuto un tale successo da
esser stata adattata in molti paesi, come Giappone, Brasile,
Svezia, Regno Unito, Messico, Arabia Saudita, Germania, Argentina e
Italia.
L’amore
e altre seghe mentali, il film diretto da Giampaolo Morelli, che lo vede anche
protagonista assieme a Maria Chiara Giannetta arriva al cinema
il 17 ottobre distribuito da Vision
Distribution.
Guido vive nel
disincanto. Rifiuta l’amore in ogni sua forma e limita i rapporti
umani alle chiacchierate con i suoi amici storici Niky e Armando.
La sfera del sesso è invece ridotta alla pratica compulsiva
dell’autoerotismo. L’arrivo inaspettato di Giulia nella sua
quotidianità, però, stravolge le carte in tavola e lo porta a
adottare una nuova visione dell’amore e della vita.
L’amore e altre
seghe mentali è una produzione Eagle Original Content e
Italian International Film in collaborazione con Vision
Distribution e con Sky e con Prime Video.
Nel cast al fianco
di Giampaolo Morellie Maria
Chiara Giannetta troviamo anche Leonardo
Lidi, Marco Cocci, Giulia Fiume e con Marco
Messeri.
La trama di L’amore e altre
seghe mentali
Dopo una delusione d’amore,
Guido, 45 anni, ha ormai ridotto da tempo la sua vita sessuale alla
compulsiva pratica dell’autoerotismo.La sua dedizione al
sesso virtuale gli consente di realizzare le sue fantasie senza
alcuna implicazione nel mondo reale: basta indossare un visore per
mettere a segno tutte le sue immaginarie ed eccitanti
conquiste.
Gli sono accanto i suoi migliori
amici: Niky, ossessionato dalle relazioni online e Armando,
inconsapevolmente incastrato in un matrimonio già finito da
tempo.L’irruzione repentina di Giulia, la strampalata e
sexy cameriera che lavora nel locale davanti al suo negozio, lo
travolge risvegliando in lui le emozioni e i sentimenti di cui
pensava di essersi liberato, dando il via ad un susseguirsi di
situazioni comiche e imbarazzanti.
L’esordio alla regia di
Michal Gazda è segnato da una commovente
storia di amore, paternità e grande umanità.
L’amore dimenticato – disponibile dallo
scorso 27 settembre su Netflix
– è entrato a gamba tesa nel catalogo della celebre piattaforma
come uno dei gioiellini cinematografici provenienti dalla
Polonia, tanto da guadagnarsi fin da subito il suo posto
nella classifica Top10 Netflix.
Scritto da Marcin Baczynski e
Mariusz Kuczewski, L’amore dimenticato è
il nuovo adattamento di The Quack di Tadeusz
Dołęga-Mostowicz, romanzo che negli anni si è affermato
nel panorama europeo come un celebre cult melodrammatico
della letteratura polacca e fonte di ispirazione per
tantissimi registi. Infatti, quello di Gazda è il secondo remake
del classico di Mostowicz: il primo, considerato anch’esso un’opera
iconica del cinema polacco e diretto da Jerzy
Hoffman, risale al 1982.
Trama de L’amore dimenticato
Polonia, primi anni del
Novecento. Rafał Wilczur (interpretato da Leszek
Lichota) è uno stimato e illustre
chirurgo che non riesce ad ignorare i più deboli e meno
fortunati. La sua determinazione è tale da convincere anche i piani
alti del prestigioso istituto privato in cui lavora, così da
assicurare un aiuto medico anche ai pazienti dei ceti più poveri.
Oltre ad essere un uomo di grande generosità, è anche un
padre presente ed amorevole, perdutamente innamorato della
sua piccola Marysia. Ma, proprio quando gli sembra di avere tutto
(o quasi), la vita di Rafał prende una piega
inaspettatamente tragica e dolorosa: la moglie lo lascia,
portando via con sé la bambina. Oramai solo e affranto, si mette
alla ricerca della sua famiglia finché una notte si ritrova
coinvolto in una violenta rapina in cui perde la memoria. È così
che, mentre tutti in città credono che il dottor Wilczur si
sia suicidato per il dolore della separazione,
Rafał vaga senza ricordi di villaggio in villaggio
alla ricerca della propria identità e dell’amore dimenticato.
Dopo quindici anni di
vagabondaggio, Rafał – conosciuto con il nome di
Antoni Kosiba – si stabilisce in un piccolo villaggio,
accolto dalla tanto gentile quanto scorbutica Zoska (Anna
Szymanczyk). Pur non ricordando nulla della sua vita, Rafał
continua ad esercitare inconsciamente il suo dono di medico,
divenendo in poco tempo il guaritore del
villaggio. È proprio grazie alla sua umanità e propensione
all’aiutare il prossimo che incontra nuovamente la figlia Marysia,
una giovane donna indipendente e audace che non ha mai davvero
dimenticato il proprio amato padre.
“L’amore dimenticato” di Michał Gazda | In foto a partire da
sinistra: Ignacy Liss e Maria Kowalska.
Un melò classico
L’amore dimenticato di
Michal Gazda affonda le sue radici in un grande classico
dell’est Europa, trasportando il pubblico nell’idilliaca
campagna polacca degli anni ’30. In questa coinvolgente atmosfera,
ricreata il più fedelmente possibile, si distingue un cast
di talenti con i quali risulta difficile non empatizzare.
Notevole è soprattutto l’interpretazione dell’attore Leszek Lichota
che riesce a trasmettere, anche semplicemente attraverso il
suo sguardo intenso e profondo, tutto lo smarrimento,
l’umiltà e la ricchezza d’animo del protagonista.
In 2 ore e 20
minuti Gazda racconta non solo la storia di Rafał e quella
di Marysia, ma a queste due intreccia anche quelle di tanti altri
personaggi minori. Delle microstorie, per così dire, a cui dà il
giusto spazio e valore e che contribuiscono a rendere l’opera il
più ricca. Proprio per questo motivo, nonostante la lunghezza del
lungometraggio, il pubblico sarà catturato da un
susseguirsi di scene che daranno quasi l’illusione di
essere in “modalità binge-watching”. A facilità la
fluidità della visione è anche il mix di dramma (con una punta di
giallo) e commedia romantica che conduce, senza troppe pause
narrative, ad un epilogo scontato ma
gratificante.
L’amore: tra ricerca e lotta
Anche se l’amore
incondizionato ed immenso tra padre e figlia ha
un’importanza preponderante nel racconto, non è sicuramente l’unico
che il film narra. L’amore è, infatti, mostrato nelle sue mille
sfumature: i primi amori, passionali e
irresponsabili, e quelli più maturi, meditati e
coltivati. E, ancora, l’amore affettuoso e sincero che
lega due amici, e quello più personale e valoroso per il proprio
lavoro.
Ma non c’è solo romanticismo.
L’amore
dimenticato tratta anche temi come la lotta di
classe, le prime spinte femministe e la quotidianità
contadina della Polonia poco prima della Seconda Guerra
Mondiale. Il tutto arricchito da un forte messaggio di speranza e
solidarietà nelle avversità della vita.
Un film emozionante che non si decide ad essere un
capolavoro
L’amore dimenticato è,
dunque, un gran bel film che però non riesce ad affermarsi
come un vero capolavoro del genere. Se la durata non
penalizza la godibilità della visione, la sua eccessiva
prevedibilità finisce per deludere, in parte, le
aspettative del pubblico. Gazda non apporta alla storia
nulla di davvero rivoluzionario e originale,
limitandosi così a creare una buona ed emozionante trasposizione
del classico polacco che, con un pizzico di audacia, sarebbe potuta
essere davvero un’opera da “non dimenticare”.
Arriva un nuovo trailer
italiano di L’amore
bugiardo – Gone Girl, il nuovo attesissimo film di
David Fincher con protagonista l’attore e regista
premio Oscar Ben
Affleck.
La storia di L’amore
bugiardo – Gone Girl analizza il matrimonio di una
coppia, Nick (Ben
Affleck,) ed Amy (Rosamund
Pike), sposata da cinque anni ma in rotta di
collisione in seguito al trasferimento da New York al Midwest. A
rompere gli equilibri sarà la scomparsa di Amy nella notte del loro
quinto anniversario, sparizione che indurrà le forze
dell’ordine ad individuare nell’uomo il probabile assassino della
donna.
Opera magistrale, capolavoro di
regia, Rosamund Pike da Oscar, saggio di cinema. In
questi minuti, successivi alla proiezione di L’amore
Bugiardo – Gone Girlal Festival
Internazionale del Film di Roma 2014, le definizioni si
sprecano. David Fincher consegna alla settima arte
un film straordinario, basato su un romanzo di altrettanto valore e
interpretato da un cast che sembra letteralmente uscito dalle
pagine di Gillian Flynn.
In L’amore Bugiardo – Gone
Girl Amy e Nick Dunne sono una coppia bellissima, il loro
sembra il matrimonio perfetto che aspetta di essere coronato
dall’arrivo di un bebè, ma la mattina del loro quinto anniversario
di matrimonio, Nick torna a casa e non trova più sua moglie. Chiari
segni di colluttazione e tracce di sangue in cucina conducono ad
una sola, inequivocabile conclusione: Amy è stata rapita e forse
uccisa. Prima che possa rendersene conto, Nick si trova ad essere
il primo e unico imputato del crimine.
L’amore Bugiardo – Gone Girl, il film
Fincher è un autore la cui presenza
si sente in ogni inquadratura, in ogni movimento e soprattutto in
ogni nota che Trent Reznor compone per lui.
L’amore Bugiardo – Gone Girl non fa eccezione
e si pone con prepotenza trai migliori prodotti del cineasta
statunitense coniugando una storia decisamente forte, che si regge
su un plot twist geniale, e l’inconfondibile e personalissimo stile
di David. Il regista si confronta con una bella storia nelle sue
corde e, dopo un lavoro di casting perfetto, mette in scena
Ben Affleck e Rosamund Pike nei panni della coppia
protagonista. Se Affleck, amato più per le sue doti da regista che
per quelle da attore, è un perfetto Nick Dunne, Rosamund Pike trova in Amy il suo primo ruolo
da grande protagonista, un personaggio difficile, mai incontrato
prima, lontano da qualunque archetipo femminile che il cinema, e la
letteratura, ci abbiano mostrato in precedenza. La Pike si dimostra
all’altezza della situazione, mettendo al servizio di Fincher la
sua algida ed elegante bellezza e il suo talento fino ad ora
relegato allo sfondo.
La sceneggiatura, adattata dalla
stessa Flynn, perde la personalità del romanzo ma acquista potenza
cinematografica grazie all’attenta messa in scena che non trascura
i personaggi di contorno come la sorella di Nick, Margo,
interpretata da Carrie Coon, oppure il misterioso
personaggio interpretato da Neil Patrick Harris, che vediamo per la prima
volta in un ruolo non comico.
L’amore Bugiardo – Gone
Girl mette a nudo l’essere umano, la natura dei rapporti
di coppia e conduce per mano lo spettatore in un racconto che
sconvolge e coinvolge, un racconto che il maestro Ficher, non senza
qualche lungaggine, conduce ad una conclusione inaspettata.
L’amore a domicilio è
una commedia romantica italiana del 2020 diretta da
Emiliano Corapi, che unisce il tono leggero della
commedia sentimentale a spunti di riflessione più profondi legati
alla libertà, alla fiducia e ai vincoli imposti dalla società. Il
film si inserisce nel filone delle rom-com contemporanee italiane,
ma lo fa con un’impostazione originale: racconta infatti una
relazione sentimentale che nasce e si sviluppa in circostanze del
tutto fuori dal comune, con una protagonista femminile costretta
agli arresti domiciliari e un protagonista maschile che si lascia
travolgere dall’attrazione e dalla curiosità.
Tra i temi affrontati troviamo
l’imprevedibilità dell’amore, la difficoltà di lasciarsi andare
quando si ha paura del futuro e la tensione costante tra desiderio
e responsabilità. Il film riesce a toccare queste corde mantenendo
però un tono brillante e vivace, grazie anche alla scrittura dei
dialoghi e alla chimica tra i due attori principali. Così facendo
si collega a diversi film italiani che esplorano le relazioni
sentimentali in contesti quotidiani, come La finestra di
fronte di Ferzan Özpetek e Scialla! di Francesco Bruni. Come
questi titoli, affronta temi di solitudine, difficoltà di
comunicazione e il desiderio di intimità in una società moderna e
frenetica.
La storia mette infatti in luce le
sfumature delle relazioni amorose, tra speranze, fragilità e
imprevisti. Questa attenzione alla dimensione emotiva e sociale
rende L’amore a domicilio parte di una tradizione
italiana che racconta con delicatezza e profondità l’amore
contemporaneo. Nel corso dell’articolo approfondiremo tutti gli
aspetti principali del film: dalla trama al cast, passando per
altre curiosità. Il film è infatti molto più di una semplice
commedia romantica: è un racconto sull’amore come esperienza
liberatoria anche quando si è, fisicamente o emotivamente,
costretti in uno spazio ristretto.
Simone Liberati e Miriam Leone in L’amore a domicilio
La trama di L’amore a
domicilio
La storia di L’amore a
domicilio ruota attorno a Renato
(Simone Liberati), un giovane assicuratore dalla
vita ordinata e prudente, che si ritrova coinvolto in una
situazione imprevista quando incontra Anna
(Miriam
Leone), una donna affascinante e misteriosa agli
arresti domiciliari. Incuriosito dalla sua personalità forte e
fuori dagli schemi, Renato inizia a frequentarla, attratto da un
tipo di relazione che sembra offrire emozioni nuove ma al tempo
stesso sicure, grazie ai limiti imposti dalla condizione di lei.
Tuttavia, la complicità tra i due cresce e il legame si fa sempre
più intenso, mettendo in discussione le certezze di Renato.
Il film segue l’evolversi di questa
relazione nata in circostanze insolite, alternando momenti di
leggerezza e romanticismo a riflessioni più profonde sull’amore, la
libertà e la paura del cambiamento. Attorno ai protagonisti si
muovono personaggi secondari che arricchiscono la narrazione, come
Gabriele (Fabrizio Rongione),
collega e amico di Renato, e Franco (Anna
Ferruzzo), agente della polizia penitenziaria che
sorveglia Anna. Il tono del film resta ironico e vivace, ma non
rinuncia a scavare nella psicologia dei personaggi e nella natura
paradossale dei loro desideri, rendendo L’amore a
domicilio una commedia romantica originale e dal tocco
delicatamente malinconico.
Il cast del film
I due protagonisti principali di
L’amore a domicilio sono interpretati da Miriam Leone e Simone
Liberati, due volti ormai noti del cinema e della
televisione italiana. Miriam Leone veste i panni di
Anna, una donna carismatica, imprevedibile e
sensuale, costretta agli arresti domiciliari dopo una rapina.
L’attrice, ex Miss Italia, è diventata negli anni un punto di
riferimento del cinema italiano contemporaneo, affermandosi grazie
a ruoli significativi in serie come 1992, 1993 e
1994, e in film come Il
testimone invisibile e Diabolik, dove interpreta la celebre Eva Kant.
Miriam Leone in L’amore a domicilio
Simone Liberati
interpreta invece Renato, un giovane impiegato
assicurativo dalla vita apparentemente stabile ma priva di stimoli,
che si ritrova completamente travolto dall’incontro con Anna.
Liberati è emerso come uno degli attori più promettenti della sua
generazione grazie a ruoli in film come Cuori puri di
Roberto De Paolis e La profezia dell’armadillo, tratto dai fumetti di
Zerocalcare. Ha inoltre recitato in serie
televisive come
A casa tutti bene – La serie, consolidando la sua presenza
anche sul piccolo schermo. In questo film, interpreta con
sensibilità e misura il percorso emotivo di un uomo che, per amore,
è costretto a rimettere in discussione ogni certezza.
Le location di L’amore a domicilio
L’amore a domicilio è stato
girato prevalentemente a Roma, città che fa da
sfondo alla vicenda con discrezione ma grande riconoscibilità. Le
riprese si concentrano soprattutto in ambienti interni, come
l’appartamento di Anna, dove si sviluppa gran parte della storia e
che diventa un microcosmo emotivo e narrativo. Tuttavia, alcune
scene in esterni mostrano quartieri residenziali e scorci urbani
meno turistici, contribuendo a restituire una Roma quotidiana e
autentica. La città non è mai protagonista, ma agisce come un
contenitore silenzioso che riflette la condizione dei personaggi,
tra desiderio di evasione e senso di costrizione.
Il trailer di L’amore
a domicilio e dove vedere il film in streaming e in
TV
È possibile fruire di
L’amore a domicilio grazie alla sua presenza su
alcune delle più popolari piattaforme streaming presenti oggi in
rete. Questo è infatti disponibile nei cataloghi di Rakuten
TV, Apple iTunes, Prime Video e Rai Play.
Per vederlo, una volta scelta la piattaforma di riferimento,
basterà noleggiare il singolo film o sottoscrivere un abbonamento
generale. Si avrà così modo di guardarlo in totale comodità e ad
un’ottima qualità video. Il film è inoltre presente nel palinsesto
televisivo di mercoledì 2 luglio alle ore
21:30 sul canale Rai 1.
Arrivano al cinema
in anteprima esclusiva come evento
speciale solo il 27, 28 e 29 gennaio
(elenco delle sale a breve su www.nexodigital.it) i
primi due episodi della nuova stagione de L’AMICA GENIALE.
Storia del nuovo cognome, la serie di Saverio
Costanzo, tratta dal best seller di Elena
Ferrante, edito da Edizioni E/O, in onda su Rai1 dal 10
febbraio. Un appuntamento unico per far vivere ai fan in anteprima
sul grande schermo e condividere con tutti gli altri appassionati i
nuovi episodi della saga che ha conquistato oltre dieci
milioni di lettori in tutto il mondo.
Gli eventi del secondo libro
de L’amica geniale riprendono esattamente dal
punto in cui è terminata la prima stagione. Lila (Gaia Girace) ed
Elena (Margherita Mazzucco) hanno sedici anni e si sentono in un
vicolo cieco. Lila si è appena sposata ma, nell’assumere il cognome
del marito, ha l’impressione di aver perso sé stessa. Elena è ormai
una studentessa modello ma, proprio durante il banchetto di nozze
dell’amica, ha capito che non sta bene né nel rione né
fuori. Nel corso di una vacanza a Ischia le due amiche
ritrovano Nino Sarratore (Francesco Serpico), vecchia conoscenza
d’infanzia diventato ormai studente universitario di belle
speranze. L’incontro, apparentemente casuale, cambierà per
sempre la natura del loro legame, proiettandole in due mondi
completamente diversi. Lila diventa un’abile venditrice
nell’elegante negozio di scarpe della potente famiglia Solara al
centro di Napoli; Elena, invece, continua ostinatamente gli studi
ed è disposta a partire per frequentare l’università a Pisa. Le
vicende de L’amica geniale ci trascinano nella
vitalissima giovinezza delle due ragazze, dentro il ritmo con cui
si tallonano, si perdono, si ritrovano.
“L’AMICA GENIALE – STORIA
DEL NUOVO COGNOME” (8 episodi da 50’) è prodotta da The
Apartment e Wildside, parte di Fremantle, e da Fandango in
collaborazione con Rai Fiction, in collaborazione con HBO
Entertainment e in co-produzione con Umedia. La serie ha visto la
partecipazione di 125 attori e migliaia di comparse, circa
8500 maggiorenni e 860 minorenni, e la realizzazione di circa 2.000
costumi tra realizzazioni originali e di repertorio.
L’evento al cinema, con la
proiezione dei primi due episodi della serie, è distribuito in
esclusiva da Nexo Digital solo il 27, 28 e 29
gennaio con i media partner Radio DEEJAY e
MYmovies.it.
Dopo un ritorno e un aggiustamento a
causa del nuovo casting, siamo pronti a buttarci nuovamente, con
familiarità e passione, nella vita di Lenù e Lila, con gli episodi
3 e 4 de L’amica geniale –
Storia della bambina perduta, ultima stagione della
serie che adatta la tetralogia di Elena Ferrante, famosa in tutto
il mondo e già conclusa nella messa in onda per gli Usa su HBO.
L’amica geniale torna in un rione
completamente cambiato
Le stagioni più felici della serie
hanno visto il rione come luogo di violenza e ignoranza, ma anche
posto sicuro, dove si aveva un’identità, una certezza, la
possibilità di esistere in un microcosmo piccolo ma confortante.
Il ritorno di Elena ai luoghi natii, nel capitolo 27, I
Compromessi, la riporta in un luogo che ormai è
sconosciuto. La donna ritrova la madre, la famiglia, soprattutto
Lila e tutti vivono in un mondo notevolmente cambiato e reso
pericoloso da una modernità, che in lì ha attecchito con il suo
volto peggiore. Elena si trova catapultata, di nuovo, in un nuova
vita, a fronteggiare delle circostanze impreviste, ma si ritrova
anche nuovamente in compagnia (e all’ombra di) Lila. L’amica
d’infanzia ha dato una svolta importante alla sua vita, diventando
una donna d’affari e trovando, non capiamo ancora bene come, il
modo di sovrastare il potere dei Solara, i boss di quartiere che
hanno tormentato le ragazze sin da ragazzine.
Lila è ora una specie di padrona
buona dei rione, una vera e propria “Madrina”, potente e ricca,
spietata, ma anche buona, generosa e compassionevole, l’unica a cui
rivolgersi per cercare aiuto. Una posizione che sembra sposarsi
alla perfezione con le due anime della donna, che vive da sempre di
contrasti, di nobiltà d’animo e cattiveria. E mentre Lila sale in
considerazione agli occhi dello spettatore, Elena si confronta con
la povertà delle sue scelte di vita, continua a vivere come
l’amante ufficiale di Nino, lo accompagna anche alle visite
domenicali in famiglia, nelle quali (orrore supremo!) Incontro di
nuovo il laido Donato Sarratore, padre di Nino e, a tutti gli
effetti, suo stupratore.
Il corpo come dispositivo
narrativo
In queste circostanze ambivalenti,
le due donne dovranno affrontare un felice imprevisto: entrambe
restano incinta (di Nino e di Enzo, rispettivamente), e cominciano
a condividere questo percorso trasformativo che le avvicina di
nuovo, tanto che Lila diventa “la zia preferita” di Dede e
Elsa.
La serie si sposta quindi di nuovo
sull’importanza del corpo abitato non solo dalle donne, ma anche da
quello che loro stesse generano e, di nuovo, le due amiche/nemiche
non potrebbero essere più diverse nell’affrontare questo percorso
(che entrambe conoscono bene, essendo già madri). Elena è contenta
della sua rotondità, paziente, serena, stanca. Lila è irrequieta,
senza questo nascituro come un corpo estraneo, da espellere, che
“le tocca i nervi”, ovvero la infastidisce, arrivando a pensare che
in lei ci sia qualcosa che non va…
Un terremoto che scopre
le crepe di Lila e la solidità di Elena
La chiave di lettura di questo
disagio, e dell’intera personalità di Lila, ce la offre in un
momento di enorme generosità della sceneggiatura, l’episodio
successivo, il capitolo 28, Terremoto. Se
l’episodio precedente aveva citato la Strage di Bologna dell’estate
del 1980, confermando, anche in maniera marginale, quanto L’Amica
Geniale sia radicato nel suo tessuto sociale, questa seconda
puntata settimanale ci porta avanti nel tempo, fino a novembre,
quando ci fu il terribile Terremoto dell’Irpinia e tutta la
provincia napoletane venne scossa, letteralmente, con grande
violenza. Lenù e Lila sono da sole, è domenica, e le due amiche in
stato avanzato di gravidanza decidono di passare un pomeriggio
pigro in compagnia, a casa di Lila, al rione, fino a che la terra
non comincia a tremare (un tocco di enfasi ha fatto coincidere
l’inizio della prima scossa con la domanda di Elena a Lila: “Cosa
sai di Nino?”).
La due donne si aiutano e si fanno
forza, riescono a farsi strada fino alla strada e alla macchina,
dove rimangono in cerca di riparo. E qui, Lila ha un’altra delle
sue crisi, fa di nuovo esperienza di quella “smarginatura” a cui
avevamo assistito nella prima stagione, quando ai suoi occhi la
realtà si sfrangia, i confini delle cose si aprono e lasciano
uscire la loro parte viscerare e irrazionale, e nulla ha più senso.
Irene Maiorino abbraccia quindi la responsabilità di spiegare,
finalmente, la natura di Lila al pubblico e anche a Elena,
riportando a parole il celebre passo dei romanzi: L’unico problema
è sempre stato l’agitazione della testa. Non la posso fermare, devo
sempre fare, rifare, coprire, scoprire, rinforzare e poi
all’improvviso disfare, spaccare.
Ma la sceneggiatura non si ferma a
riportare la citazione dall’originale, va più a fondo e per molti
versi spiega meglio (cosa che il libro non farà mai fino all’ultima
pagina) quello che è il “mistero Lila”, in un impeto di purezza e
onestà, la donna confessa all’amica: “In me il male score insieme
al bene”, dimostrando così a se stessa a Elena e allo spettatore
tutta la sua specialità, ma anche la sua debolezza. È un momento
intimo e epifanico, in cui capiamo finalmente qual è il rapporto di
forze tra le due e quanto siano indispensabili l’una all’altra per
camminare dritte in un mondo continuamente spazzato dalle onde
della tragedia, della violenza e della prepotenza maschile. Una
prepotenza che nella sua violenza esteriore viene contrastata con
fierezza da Lila, ma che nella sua violenza psicologica e subdola,
rappresentata dalla stessa esistenza di Nino Sarratore
(Fabrizio
Gifuni), costringe ancora Lenù a soccombere.
L’Amica Geniale – Storia della
bambina perduta perde anche l’ispirazione
Il guizzo di generosità nello
svelamento della personalità di Lila si perde però in un mare
piatto. La serie sembra faticare a trovare quell’animo ruvido e
dolente, ma anche romantico e favolistico, che l’aveva
caratterizzata sin dall’inizio. Ormai siamo affezionati a Lila e
Lenù e vogliamo sapere come va a finire la loro storia e cosa il
futuro ha in serbo per loro. Siamo persino disposti a sopportare il
miscasting di Alba Rohrwacher perché comunque la sua voce
rappresenta un legame lungo e affettivo con lo show (lei non ne ha
nessuna colpa, si capisce), ma la regia e le idee, in questa
stagione, sembrano davvero distribuite a risparmio e ci sembra di
avviarci verso la fine di questa storia con stanchezza e
rassegnazione.
Presentata in anteprima nel ricco
programma della Festa di Roma 2024 con i primi due
episodi proiettati alla presenza di cast e pubblico,
L’Amica Geniale, tetralogia di Elena Ferrante,
arriva alla sua quarta stagione che traspone per la tv il quarto e,
appunto, ultimo libro della saga,
Storia della bambina perduta.
Dove eravamo rimasti?
Avevamo lasciato le due donne
distanti, entrambe alle prese con una nuova vita: Lila con Enzo, il
piccolo Gennarino, e un obbiettivo preciso, quello di aprire
un’azienda con le sue sole forze, di diventare finalmente il capo
di se stessa; Lenù con Nino, quando si accorge che l’amore di tutta
una vita è finalmente alla sua portata e non ci pensa troppo prima
di lasciare marito e figlie e volare via con lui. La terza stagione
dell’amica geniale era finita proprio lì, sul quel volo verso la
libertà e una vita di peccato accanto a Nino (Fabrizio
Gifuni), con l’immagine di quel riflesso che aveva
finalmente svelato al mondo che l’ultima trasformazione di Elena
Greco sarebbe stata affidata a Alba Rohrwacher che, a dire la
verità, ne era sempre stata la voce, lenta e calda, che ha
accompagnato gli spettatori nel fuori campo delle tre stagioni
precedenti.
La separazione e
Dispersione sono i capitoli 25 e 26 di questo
lungo romanzo di formazione, le prime due puntate della quarta e
ultima stagione de L’Amica Geniale, che andrà in
onda dall’11 novembre su RaiUno per 5 serata, fino al 9 dicembre. E
appunto di separazione parla il primo episodio, in cui seguiamo
principalmente Elena alle prese con la sua nuova vita, mentre si è
lasciata alle spalle il matrimonio con Pietro e, temporaneamente,
persino le figlie Dede e Elsa, affidate alle cure della suocera.
Per loro è necessario un ambiente regolare e rassicurante, con
regole e rituali, cosa che lei, nella sua vita da amante di Nino
Sarratore, non può garantire alle figlie.
Elena è l’eroina tragica di un
racconto drammatico, una donna che negli anni Settanta lascia
marito e figlie perché “vuole bene a un altro”. Quella
consapevolezza la travolge quando lo dice a alta voce a sua madre,
intervenuta per cercare di farla riappacificare con Pietro, che in
questo scenario viene dipinto forse come troppo mite e
accondiscendente, se pure naturalmente contrariato. Lenù è divisa
in due, tra senso del dovere di madre e ambizione professionale che
può coltivare a pieno solo nella libertà accanto a Nino, il quale è
per lei sogno e passione, ma anche dubbio e dolore.
L’Amica Geniale: storia
di madri, di corpi, di lotta
La Elena di Alba Rohrwacher smette di subire le decisioni
degli altri, ma questa risoluzione ha un prezzo, e lo vediamo nella
fatica che fa il personaggio a tenere tutto insieme, non volendo
rinunciare né all’amore per Nino né a quello per le figlie, che
pian piano sembra ridestarsi più forte di quanto non sia mai stato.
Dopotutto L’Amica Geniale è sempre stata una storia di donne, di
amiche, certo, ma anche di madri, di corpi, di consapevolezza,
rinuncia e lotta.
La lotta è molto presente nella
serie, che sia personale o di classe, come per le altre stagioni,
anche in questo caso L’Amica Geniale si fa
megafono per la situazione storica del Paese e non risparmia nessun
dettagli di quell’epoca turbolenta: i morti, la violenza, il
rapimento Moro. Lo sfondo della vicenda di Elena e Lila è
estremamente vivido e invadente e per questo, anche se la regista
Laura Bispuri si concentra sui volti, le mani e le
persone, sul suo nuovo cast, tra cui Stefano Dionisi, Lino
Musella, Edoardo Pesce, la Storia viene sempre fuori e si
fa sentire.
Dispersione invece racconta
principalmente la diaspora di Elena che lascia le sue certezze,
ancora una volta e scappa a Milano da Maria Rosa, sorella di Pietro
e sua grande amica, che la accoglie con le ragazze e le offre un
posto sicuro. Non abbastanza da sfuggire però a Lila. L’amica che è
rimasta al rione ed è diventata una imprenditrice invischiata con
la camorra, la cerca di continuo per metterla in guardia da Nino.
Anche lei è caduta nel suo inganno, ma questa volta ci sono di
mezzo figli, matrimoni e soprattutto una moglie che l’uomo non
accenna a lasciare. Il racconto si deve spostare a Napoli, nel
rione, per poter finalmente dare corpo alla presenza ingombrante di
Lila, che nel frattempo ha acquisito il volto di Irene Maiorino,
nata per questo ruolo e per succedere a Gaia Girace. La somiglianza
tra le due è davvero impressionante e il passaggio di testimone
appare naturale, anche grazie alla capacità interpretativa di
Maiornio che raccoglie la sua eredita e la sviluppa a modo suo.
La forza e la durezza di Lila non
bastano a Elena per allontanare Nino. La donna accetterà di essere
una compagna parallela, una moglie part-time, pur di stare con lui,
e questa sua decisione, certamente non facile ma urgente, la
riporterà a Napoli, vicino al rione, a sua madre, a quella miseria
e quella ignoranza dalla quale pensava di essere scappata. Elena è
di nuovo “a casa” e la prossimità con Lila tornerà a essere
necessaria e ingombrante. Farà i conti con il suo passato e forse
troverà la forza di essere indulgente verso quei luoghi e quella
miseria che non conoscono altro che se stessi.
Dopo un dittico che sicuramente ha
fatto discutere, a tratti sgradevole e violento nei confronti delle
sue protagoniste, L’amica geniale – Storia della Bambina
Perduta torna su RaiUno con le puntate 7 e 8, Il
ritorno e L’indagine. Dopo decenni che le due amiche erano
separate, questi due episodi le vedono tornare insieme, confidenti
e collaboratrici, di nuovo vicine, mentre la loro relazione assume
dei contorni nuovi che fino a quel momento non si erano mai
definiti così bene. Il loro rapporto di forze si evolve
ulteriormente e se Lila continua a essere quella tra le due che
tende a prevaricare l’altra, Elena si conferma una donna piena di
risorse, soprattutto dopo la
fine della storia con Nino.
L’addio a Nino e “Il ritorno” al
rione
Con il settimo episodio, dal titolo
Il ritorno, la storia si immerge di nuovo nel
tumulto emotivo di Elena, che torna alle sue radici e al suo
inizio, prendendo di nuovo casa al rione, proprio sotto
all’appartamento di Lila. La rottura definitiva con Nino è un
momento di liberazione e consapevolezza: un legame tossico che
viene reciso, non senza amarezza, ma con grande decisione. La scena
del loro confronto nella casa di Via Petrarca però non è il trionfo
della volontà di Elena, quanto piuttosto un verboso e depotenziato
colloquio tra due persone che, almeno da una parte, un tempo si
erano amate. Nino confessa tutte le sue piccolezze e questa volta
Lenù ha gli strumenti per allontanarlo, definitivamente. La scelta
degli sceneggiatori di mostrare il tradimento di Nino con una donna
sformata e anziana è stato un inciampo di scrittura davvero
sgradevole, come se solo vedendosi tradire con una donna così poco
attraente, Lenù avesse capito che quest’uomo, che ha amato per così
tanto tempo, non merita quella devozione. Il tradimento perpetrato
nel tempo da Nino, la sua ostinazione a coltivare se stesso al
posto della sua storia con Elena, il continuo desiderio di
affermazione e conferma, l’insicurezza che mortificava
l’intelligenza della compagna erano ben più gravi di una sveltita
con l’attempata domestica. Ma una scelta “grafica” rispetto agli
eleganti non detti allusivi del romanzo, è sembrata più adeguata
alla televisione. Non sarà l’unica volta in questa coda di serie,
né sarà la più sgradevole.
Archiviato finalmente Nino dal suo
cuore (ma non dalla sua vita, continuano a condividere una figlia,
dopotutto) Elena torna al rione, dove riafferma la propria
autonomia, nonostante la difficoltà di essere una donna sola con
tre bimbe. Questo ritorno alle origini diventa un catalizzatore per
la sua scrittura, che finalmente trova una nuova forza e
autenticità. La pubblicazione del suo libro e il successo che ne
deriva trasformano Elena in una figura di spicco, ma il prezzo del
suo successo diventa evidente: la distanza crescente tra lei e un
ambiente che implode su sé stesso. Elena è ormai un elemento
estraneo al rione e tuttavia una componente importante per il suo
ecosistema, una voce narrante.
L’evento che fa seguito
al ritorno di Lenù al rione è il tanto atteso matrimonio di
Marcello Solara con la sorella di Elena, Elisa, una delle sequenze
più cariche di tensione dell’episodio. La scena mira a sottolineare
un punto in particolare, che però non viene spiegato adeguatamente:
Michele Solara è definitivamente libero dall’incantesimo di Lila,
ormai la disprezza soltanto e con lei disprezza anche la sua
“brutta copia”, Alfonso. Vestito da donna, l’uomo fa irruzione al
matrimonio, creando agitazione e tensione. Verrà cacciato e
allontanato, solo Lila e Lenù gli rimarranno accanto, fino a che
Michele non lo picchierà a sangue per le strade del rione, davanti
all’indifferenza di tutti (tranne del buon Enzo, al quale però Lila
impedirà di intervenire). Edoardo Pesce, il
Michele adulto, è superbo nella messa in scena della bruta e cieca
cattiveria del Solara maggiore. Il pestaggio di Alfonso è uno dei
momenti più crudi e disturbanti dell’intera serie, eppure il
trattamento del personaggio appare forzato rispetto alla
delicatezza con cui era stato tratteggiato nei romanzi.
Punto fermo rimane l’amicizia tra
Lila e Lenù, sempre in bilico tra parità e abuso, onestà e inganno,
in balia degli umori della prima che continuano a influenzare e
travolgere la seconda che, dopo tutto questo tempo, appare
finalmente più consapevole e capace di schermarsi dalle inevitabili
cattiverie dell’amica.
La scrittura come strumento di
attacco al potere: L’indagine
L’ottavo episodio tira le fila di
molteplici tensioni, portando alla luce l’influenza opprimente dei
Solara e l’ineluttabile disgregazione del rione. La morte di
Alfonso segna un punto di non ritorno: non solo per la sua
brutalità, ma per il modo in cui spezza definitivamente la già
fragile speranza di una resistenza al potere dei Solara. La
reazione di Lila, fredda e piena di disprezzo, è un elemento di
distacco che evidenzia quanto la serie scelga di calcare la mano
sull’aspetto più crudo e spietato della realtà narrata. La donna è
spezzata dalla morte dell’amico, eppure sceglie di reagire in
maniera fredda, senza lasciarsi attraversare da quel dolore che
però, lo vedremo, avrà il tempo di esplodere per altre ragioni.
Il degrado del rione e la ritrovata
ispirazione di Elena si fondono come un’arma nelle mani di Lila: la
donna desidera che la compagna si faccia voce della protesta e del
cambiamento, vuole utilizzare le parole per distruggere la violenza
dei Solara, pensiero che ne rivela la fondamentale ingenuità,
soprattutto di fronte a una violenza cieca e sorda che prende corpo
in Michele. La ribellione delle due amiche le vede brevemente
fiorire in un nuovo afflato collaborativo: scrivono, lavorano, si
confrontano, tornano a essere le due bimbe piene di speranze nel
mondo delle idee, per poi scontrarsi contro una realtà ben più
cruda. Le parole che mettono insieme non servono ad altro che a
mettere Elena in una posizione di difficoltà all’interno del rione,
mentre Michele, sempre più violento e minaccioso, si erge come un
simbolo di quella brutalità sistemica che soffoca ogni tentativo di
cambiamento.
Elena si trova costretta ad
affrontare una querela e i problemi economici che ne derivano,
trovandosi a dover difendere la propria carriera e integrità.
L’episodio riflette bene la spirale di compromessi e minacce che
circondano entrambe le protagoniste, mostrando una Napoli senza
speranza che divora i suoi figli. Ancora una volta L’amica geniale
guarda oltre i confini del privato, affacciandosi con approccio
problematico alla società, al pubblico, instaurando uno stretto
legame trai due aspetti della narrazione.
L’amica geniale giunge alla svolta
decisiva
Gli episodi 7 e 8
segnano un passaggio cruciale nella narrazione de L’amica
geniale – Storia della Bambina Perduta, confermando il
talento della serie nel coniugare il dramma personale con il
contesto sociale. Tuttavia, alcune scelte narrative, come il
trattamento del personaggio di Alfonso, potrebbero risultare
discutibili per chi ha amato la delicatezza del romanzo. Resta
potente, invece, il rapporto tra Elena e Lila, sempre più
sfaccettato e complesso. Questi episodi ci ricordano che il rione
non è solo un luogo fisico, ma un’entità viva, un microcosmo di
potere e lotte, in cui i sogni di emancipazione si scontrano con la
brutalità del sistema.