Francofonia –
L’industria cinematografica, almeno in superficie, è un universo
abbastanza semplice da comprendere, anche per i ’non addetti ai
lavori’. La parte più scintillante, patinata e glamour è ovviamente
dominata dalle produzioni hollywoodiane, create con la
preoccupazione primaria di infrangere record su record al
botteghino; subito dopo troviamo la parte più appassionata, il
cinema di genere, che cattura puntualmente milioni di estroversi
incalliti, nerd di vario genere, collezionisti e feticisti del
sangue, delle pallottole, delle lame affilate. Inseguono poi
commedie e drammi dell’Europa occidentale, gli indie americani,
tutto l’underground dei cinema monosala, luoghi dall’aura
mitologica dalle sedie di legno trasandate e unte.
Più nascosti, timidi, introvabili,
ci sono poi i grandi Maestri, persone uniche che badano molto a
loro stesse – è vero – ma solo per regalare al loro selezionato
pubblico adorante un respiro di meraviglia. Ci viene da pensare a
Jean Luc Godard, a Terrence
Malick, alla Russia e ad Aleksandr
Sokurov. Già, Sokurov, che sprezzante di qualsiasi regola
commerciale e materiale ha tirato fuori dal cappello del suo
inestimabile talento – dopo il gigantesco
Faust,
Leone d’Oro a Venezia nel 2011 –
Francofonia. Un esperimento, un saggio,
un sogno sfocato, un documentario, un viaggio nel tempo e nello
spazio, ma soprattutto una dichiarazione d’amore.
Amore per quell’arte eterna,
monumentale, universale, attraverso la quale l’uomo ha lasciato la
sua impronta sull’esistenza passata, presente e futura. Una
passeggiata mano nella mano attraverso le sale e le gallerie del
Museo del Louvre di Parigi, custode della verità e della bellezza,
ma non solo. Anche testimone di eventi nevralgici, di grandi rischi
e grandi offese, di valorosi e infimi uomini. Il cuore del mondo
visto come una nave in mezzo all’oceano, carica di opere d’arte dal
valore incalcolabile eppure in balia di una tempesta selvaggia, di
onde feroci, che rischiano di annientare tutto.
Tele, sculture, l’umanità nella sua
interezza, perché è senza arte che l’uomo si fa arido, vuoto,
inutile. Ecco dunque la critica all’età contemporanea, alla madre
Russia, affidata a un urlo soffocato che tenta di rianimare i
grandi autori del passato, sussurrando loro quanto bisogno urgente
vi sarebbe oggi del loro operato. Un’utopia in piena regola,
narrata con una voce quasi spezzata, innamorata e nostalgica,
desiderosa di conservare, assorbire la bellezza e l’assoluto – del
resto sono due cose che spesso coincidono – e condividere tutto con
gli altri, nel buio della sala. Il risultato è un’opera slegata,
visionaria, incantevole, comlicata, a tratti persino interattiva,
anarchica, da rivedere più volte, che prova a ricordarci chi siamo,
chi siamo stati, chi saremo, con il piglio di chi sa di poter
tutto, sfidare la corrente, capovolgere il mondo, far scorrere i
titoli di coda all’inizio. E creare l’incantesimo.