Ci sono universi che
prendono forma dal basso, da quello sguardo che si innalza verso il
cielo, ma con i piedi incatenati al suolo. Sono anime che aspirano
in alto, a una felicità promessa, ma mai mantenuta dalla forza di
un destino scomodo, doloroso, umile. Jeong-Sun è
il canto degli ultimi, un poema degli ignorati scritto con
l’inchiostro tinto nel neorealismo, e pennellato di attualità.
E così, nell’opera prima
di Jihye Jeong si ritrovano i fantasmi che hanno
abitato le opere di Rossellini e De
Sica (senza dimenticarci quelle regalateci da un cult come
Parasite); sono esistenze ordinarie, ricche nell’animo
e umili nel contenuto sociale. Ma tra gli inframezzi di
un’esistenza che pare vivere e respirare all’accensione di una
cinepresa, scorre il senso di paura e dolore che colpisce l’animo
femminile, urtandone la sensibilità e deteriorandone la sicurezza.
È il timore di perdere il controllo del proprio corpo, di
tramutarsi in carne da macello per il consumo voyeuristico altrui.
Racconto degli ignorati, e denuncia sociale di un male che
incancrenisce l’essere umano, sviluppandosi in metastasi lungo dita
che scorrono e occhi che scrutano video virali, si muove nell’opera
l’ombra distruttiva del revenge porn e del body
shaming.
Jeong-Sun non si eleva soltanto a prestanome di
una pellicola tanto semplice, quanto umanamente commovente, ma
anche portavoce di tante lacrime nascoste, visi celati sotto
cuscini di vergogna, corpi depredati della propria intimità, ed
esistenze spogliate della propria dignità.
Jeong-Sun, la
trama
Jeong-sun (Kim
Kum-soon) è una donna di mezza età che lavora in una
fabbrica. Attacca quando fuori è ancora buio, accompagnata ogni
giorno dalla figlia (Yun Seon-a), prossima al
matrimonio. Di buon umore e umile estrazione, Jeong-sun finisce per
instaurare una relazione con un nuovo collega, il coetaneo Yeong-su
(Cho Hyeon-woo). Un legame felice e tranquillo,
fino a quando l’uomo non decide di immortalarla in un video che
cambierà l’esistenza di tutti.
Il canto degli
ultimi
È il teatro
dell’esistenza quello allestito da Jihye Jeong nel
suo Jeong-Sun. Una cinepresa fissa, granitica, la
sua, di chi si limita a osservare lasciando che siano i personaggi
a muoversi e infondere linfa vitale alla propria opera. È un cinema
che si nasconde dietro la potenza della quotidianità, che reduplica
lo scorrere della realtà al di là dello schermo, aderendo
perfettamente a quell’ideale di finestra sulla realtà agognata dal
cinema classico. Ma nell’universo filtrato dall’obiettivo di
Jihye Jeong non vi è alcun intento edulcorante
dell’universo colto in essere; ancorandosi a uno sguardo che tutto
coglie e registra dal basso – prendendo cioè corpo da quel
sottosuolo antropologico da cui i suoi stessi protagonisti prendono
vita – la cinepresa di Jihye Jeong si fa
penna adattante un saggio sullo sfruttamento operaio e del corpo
femminile in un paese come quello sud-coreano ancora profondamente
maschilista e dominato da logiche patriarcali.
Duplice colpo al
cuore
Lucido, onesto e
ferocemente sincero, il film è una rappresentazione diretta, ai
margini del documentario, un quadro sociale imbastito con cura
dalla propria autrice. Lontano da ogni manierismo stilistico, e da
virtuosismi registici, la macchina da presa stila un discorso
semplice nel linguaggio, e altrettanto facilmente comprensibile
nella sua lettura. Jeong-Sun scorre sul binario di
un’esistenza ordinaria, ma è proprio grazie a questa esacerbata
normalità, che la sua protagonista si eleva a perfetto testimone, e
massimo rappresentante, di quelle mani che soffocano, e dossi che
rallentano, la serenità delle donne tanto in Sud-Corea, che nel
resto del mondo.
In
Jeung-Sun vivono due anime distinte, e all’interno
di esse scorrono duplici moniti di carattere sociali volti a
schiaffeggiare un sistema ambizioso, che tanto chiede e poco offre.
Ingenua, mite, e perlopiù preoccupata per l’abito da sposa della
figlia, la donna si fa guida dantesca tra le fila di un sistema
aziendale che al merito e alla gratificazione personale, preferisce
un impianto dittatoriale e psicologicamente degradante. Tra notti
spese al lavoro, e minacce da parte di un caporeparto insoddisfatto
della propria esistenza, la Jeong-Sun operaia vive
comunque di un certo ottimismo che la trascina tra i corridoi della
fabbrica a testa alta e il sorriso stampato in faccia. È una donna
che si accontenta delle piccole cose; una calamita umana verso cui
la cinepresa della Jeong non riesce a distaccarsi, inseguendola a
debita distanza e privandosi di movimenti che ne denuncerebbero la
presenza.
Quella che subentra nella
seconda parte dell’opera è invece una donna colpita nell’animo e
depredata della propria intimità. Quella relazione tenuta nascosta,
quasi adolescenziale, con il nuovo collega, si tramuta in culla di
una condivisione social che infanga la reputazione della
protagonista, tra commenti al vetriolo e giudizi taglienti come
lame affilate. Il viso prima sorridente si tramuta in una maschera
del dolore, sfregiato dal tradimento e appesantito da una mole di
sguardi che osservano e sparlano alle spalle. Il corpo di
Jeong-Sun si fa così statua granitica, un automa
che si muove nello spazio d’azione con meccanicità, attivata
soltanto da un’audacia e da una sete di rivendicazione personale
che tutto prende e distrugge con la forza della propria rabbia. Un
cambiamento reso tangibile e tormentato dall’interpretazione
profonda e convincente di una Kim Kum-soon
perfettamente in parte. Non sembrano esistere confini tra l’attrice
e il proprio personaggio: un’unione perfetta che trascina con
naturalezza lo spettatore all’interno della vita della donna,
assimilandone gli attimi di felicità, e interiorizzandone i
fulminei attimi di dolori.
Ambienti che
modellano, sguardi che distruggono
Affidando alla potenza di
campi lunghi, e piani medi, la regista coglie e staglia i propri
personaggi all’interno di un ambiente sociale e lavorativo di cui
essi si elevano a parte integranti e tessere imprescindibili alla
sua perfetta resa visiva. Gli uomini e le donne che scorrono
davanti alla cinepresa vanno oltre la propria natura umana, per
legarsi in maniera armonica al mondo che li circonda; sono universi
che li modellano come cera malleabile, e li influenzano
determinandone scelte e conseguenze di azioni o pensieri. Sono
ambienti illuminati da una luce naturale, sebbene colorata da tinte
fredde, cromatismi gelidi, che tutto rimandano a legami
interpersonali pronti a recidersi e spezzarsi, proprio come iceberg
bruciati dal fuoco della vendetta.
Cristallizzata in una
circolarità eterna, che vive e si sviluppa lungo una reiterazione
di eventi elevati a riti quotidiani, l’esistenza di Jeong-Sun è una
giostra pronta a ripetere ogni giorno, in maniera sempre uguale e
sempre diversa. L’entrata e l’uscita dalla fabbrica, le scatole da
chiudere in catena di montaggio, i rumori del traffico urbano,
l’incontro con l’ubriaca al di fuori del motel, sono punti fermi
nella vita dei personaggi; momenti colmi di sollievo perché carichi
di una quotidianità priva di sorpresa, e per questo di eventuali
minacce.
Inserendosi come un
fulmine a ciel sereno nella tranquillità della propria, ordinaria,
esistenza, la condivisione di un filmato intimo, dove il corpo si
mostra e la bocca canta, è un punto di svolta, un ribaltamento
interiore di una linea che scorre piatta, un extrasistole che
irrompe defibrillando intere esistenze; è l’inedito che distrugge,
per poi ricostruire, un nuovo tempio vitale, nell’attesa di un
ultimo canto liberatorio, in cui la catarsi si sveste di violenza
per esplodere di speranza. Una speranza illusoria, forse, ma
sufficiente per innalzare il punto di ripresa di una cinepresa che
dal basso si alza verso l’alto, verso quel cielo in cui volare
liberi senza pensieri, senza restrizioni, senza mani che scorrono
su cellulari, o labbra che proferiscono ordini con saccente,
tossica, mascolinità.