Diego Armando Maradona ha attirato su di se l’interesse del mondo della musica (oltre quaranta canzoni), della letteratura e del cinema. Oltre che per le gesta sportive da calciatore ineguagliabile, Maradona ha fatto scalpore per le dichiarazioni eclatanti contro i centri di potere del calcio e non solo, oltre che per le personali vicende personali.

 

Un soggetto quindi appetibile per un film, e così, tralasciando i vari servizi sportivi minori, a partire dal 2005 al 2008 sono state diverse le pellicole dedicate interamente al Pibe de Oro: “Non sarò mai un uomo comune”, realizzato dal giornalista italiano Gianni Minà; “Amando a Maradona” del regista argentino Javier Vazquez; “Maradona la mano de dios” di Marco Risi, figlio di Dino, e “Maradona di Kusturica” del regista serbo di “Underground”. Quella di Gianni Minà è una lunga intervista sulla vita di Maradona anche su aspetti che vanno oltre il campo ed i gol. Il film di Vazquez ha il taglio di uno speciale sportivo per la televisione. Il film di Marco Risi non è un granché, tratteggia essenzialmente la vita di Maradona con sequenze sceniche e dialoghi simili a quelli di una fiction televisiva di bassa lega. Discorso a parte invece per il film di Kusturica, presentato fuori concorso a Cannes nel 2008. Il film ovviamente da ampia visione delle scene degli splendidi gol e dell’ascesa calcistica di Maradona, che accompagnano le vicende di vita e le sue prese di posizione. Si vedono i tatuaggi del Che e di Fidel sul polpaccio e sul braccio del campione, che afferma: «In Colombia si produce la droga, ma a gestire il traffico sono gli Usa. Che campione sarei stato, senza la droga». Ed eccolo al fianco di Morales e Chavez, in piazza, contro Nafta e Bush, il «criminale assassino», con la sua t-shirt «Stop the War». Salito in vetta dalla povertà, precipitato in basso per dipendenza da cocaina con tanto di overdose e ricoveri ripetuti in ospedale, ha accusato i dirigenti degli alti vertici delle organizzazioni calcistiche di essere dei manovratori e di fare solo proclami in campo umanitario.

E poi, come spiega Maradona “il presidente Matarrese e Havelange sono mafiosi altrimenti non si spiegherebbe come gli unici calciatori risultati positivi ai test antidoping, negli anni ’90, sono stati Maradona e Caniggia”. Osservando alcune scene del film si potrebbe pensare ad una rappresentazione un po’ oleografica, ne mancano passaggi in cui Kusturica parla del suo mito senza però destare interesse nello spettatore. Maradona indefettibile rivoluzionario? C’è chi storce il naso, ma una vita così anticonformista in fin dei conti rende bene nella pellicola del regista serbo. Qualche stelletta in più la merita sicuramente un altro film con dei riferimenti al futebol, intenso ed impegnato.

Si tratta di “Cronaca di una fuga – Buenos Aires 1977” in concorso a Cannes nel 2006. E’ un lavoro del regista argentino Israel Adrian Caetano, che parla della storia di Carlo Tamburini, uno tra i trentamila “desaparecidos” argentini, perlopiù giovani di sinistra che furono imprigionati, torturati, sedati ed uccisi nei modi più turpi da parte della polizia dei regimi militari sudamericani, nel caso del film si tratta della dittatura di Videla. Il film parla di una storia vera, tratta dal libro di Tamburini “Pase libre: La fuga da la Mansión Serè”, in cui l’autore racconta le prigionie e le torture subite da parte dei commando militari in una villa situata nella periferia di Buenos Aires. Una truce esperienza che però riuscì a risolversi con una fuga attuata da Tamburini insieme ad altri tre giovani. Tamburini era un bravo studente di filosofia e promettente portiere di una squadra di calcio di serie B, il San Lorenzo de Almagro. Squadra di un barrio, quartiere periferico di Buenos Aires, ancora più politica dei Boca Juniors, forse per questo mezza squadra finì tra quei 30.000 desaparecidos. Il 23 novembre del 1977, proprio dopo una partita, Claudio viene sequestrato dalla polizia della Junta militare e accusato di «attività sovversive». Claudio non è un militante dell’estrema sinistra, è solo un simpatizzante, ma gli sgherri dei generali non vanno per il sottile, chi finisce nelle loro mani viene torturato e poi, confessi o no, fatto sparire. Assieme ad altri ragazzi come lui, Claudio viene rinchiuso nella Mansion Seré, una villa signorile adibita a centro di detenzione e tortura dalla dittatura militare argentina, isolata nella periferia di Buenos Aires. All’interno della Villa, Claudio trascorrerà mesi assieme ad altri ragazzi, sottoposto ad inaudite torture, psicologiche e fisiche.

Nel film si riesce a ricreare il clima di estrema tensione tra le mura fatiscenti della mansion, dentro lo squallore degli ambienti ed il senso generale di sporcizia, i materassi sporchi e le pozze di urina, le pareti scrostate, le brande cigolanti. Lo spettatore è catturato ed immedesimato da un suspance che viene fuori dalla continua incertezza sul destino dei giovani sottoposti alle sevizie per un periodo prolungato, le immagini puntano dritto ai nervi. I giovani nudi e dai corpi martoriati, striscianti e rannicchiati a terra, sembra di essere con loro. Sale ancora dippiù il nodo alla gola di chi guarda quando due aguzzini e due prigionieri in una cucina guardano la nazionale argentina in tv. Claudio pensa di approfittare della situazione per ucciderli e fuggire. Il compagno Gallego non vuole. Secondi drammatici, in apnea. Ma l’albiceleste segna e tutti si uniscono in un grottesco urlo per il gol. I mesi passano, ma Claudio non si è assuefatto alle torture, e così assieme a tre compagni – Guillermo, el Vasco, el Gallego – intuisce la possibilità dell’evasione e la mette in atto. E così siamo al momento della fuga a cui si riferisce il titolo, la tensione tocca il suo apice. Nudi come vermi i quattro corrono nella notte argentina e riescono a trovare dei panni per coprirsi e affrontare la prima alba da fuggiaschi. Solido, asciutto, il film si conclude con una didascalia sui destini dei quattro giovani.

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