Parlando a margine della proiezione di Le donne del 6° piano, il regista del film, Philippe Le Guay, ha diffusamente discusso riguardo alle motivazioni che l’hanno spinto a concretizzare quest’opera, a partire dal desiderio, finora irrealizzato di lavorare con attori non francesi; il casting per i ruoli delle estroverse cameriere spagnole si è svolto a Madrid, dove il regista si è trattenuto per tre settimane, dividendosi tra lavoro e visite culturali: in proposito Le Guay ha raccontato di come, nel corso degli incontri pomeridiani con le aspiranti protagoniste, avesse l’impressione di ritrovarsi di fronte alle versioni in carne ed ossa dei protagonisti delle opere di artisti come Goya e Velazquez, visti nelle visite mattutine al Prado.

 

La vicenda prende spunto da un avvenimento storico ben preciso: il fenomeno migratorio che, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 portò tante donne spagnole, per la maggior parte provenienti dalle campagne, a fuggire dalla povertà (la Spagna all’epoca scontava un ritardo di quasi un secolo nel suo sviluppo economico rispetto alla Francia) e a farsi impiegare come domestiche, in particolare nelle case della medio-alta borghesia parigina.

Per accentuare il realismo della vicenza, Le Guay ha peraltro intervistato alcune di quelle donne, ormai anziane, oltre che attingendo dalla propria vicenda personale, con la quale peraltro quella del film ha molti punti di contatto. Come il protagonista del film, anche il padre del regista era un agente di cambio, professione peraltro tramandata in famiglia da generazioni, e come nel film, anche la famiglia di Le Guay aveva assunto una domestica spagnola. Come si evince dallo stesso titolo, si tratta di un film incentrato sulle donne: una scelta voluta da Le Guay, che nel film ha voluto riflettere l’allegria di quelle donne, felici del senso di libertà e di affrancamento dall’oppressione maschile, nonostante la durezza dei lavoro che dovevano svolgere e degli orari cui erano costrette.

Parlando del protagonista del film, il regista ha affermato di non aver voluto raccontare tanto la storia di una crisi di mezza età con tanto di innamoramento per una ragazza più giovane, quanto quella di una sorta di ‘risveglio’: anche la sua scelta di appoggiare il gruppo di domestiche, andando oltre i confini di classe e culturali, non è frutto di una posizione ‘a monte’, ma di un’evoluzione, di una presa di coscienza, dalla voglia di farsi coinvolgere e contaminare da una realtà prima sconosciuta, in contrapposizione con lo stile di vita ‘borghese’, rappresentato dai figli, ma anche contro la ‘resistenza’ alla modifica dello ‘status quo’ (e quindi all’andare oltre i rapporti stabiliti dalla società, come appunto quello domestica – padrone), rappresentato anche dal personaggio di Carmen Maura.

Nell’economia della storia, i figli impersonano certo i canoni più rigidi della borghesia francese, ma anche quelli più fedeli alla tradzione e le leggi: figli che allo spettatore possono sembrare meschini e un pò cattivi, ma che in fondo risultano anche divertenti, nel tradizionale rovesciamento di ruoli: a loro sta richiamare ai doveri famigliari un padre improvvisamente scopertosi ‘libero’. Il personaggio della moglie, interpretato da Sandrine Kiberlaine, potrebbe sembrare algido, incurante dei sentimenti del marito e dedito solo alla conservazione delle convenzioni sociali; tuttavia Le Guay ha invece spiegato di aver voluto piuttosto portare sullo schermo un modello di donna della provincia francese, che non vede (o non vuol vedere) il cambiamento del marito, ma non lo giudica nemmeno, in contrapposizione alle amiche cittadine subito pronte a consigliarle un buon divorzista.

Ciò che però il regista ha voluto rimarcare con più forza nel corso della conferenza stampa, è stato volere con questo film porre l’accento sul concetto di ‘comunita’: il film in fondo propone un’utopia, all’insegna dell’interclassismo, dell’accoglienza e del rapporto con ‘l’altro’ come occasione di cambiamento in contrapposizione con il clima attuale, che anche in Francia, soprattutto negli ultimi anni, è stato caratterizzato da una crescente spinta all’esclusione – e dunque all’espulsione – dello ‘straniero’.

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