Mountains May Depart: recensione del film di Jia Zhangke

Mountains May Depart

In Mountains May Depart è il 1999, la Cina saluta il nuovo anno con i dragoni per le strade, i fuochi d’artificio nel cielo e i balli incastrati in uno schermo 4:3. Fra le pieghe di una vita semplice, divisa tra botteghe di famiglia e miniere di carbone che lavorano a pieno regime, sta esplodendo fragorosa una rivoluzione economica pronta a portare ricchezza nelle tasche di pochi intraprendenti pionieri. Figlio di questa rivoluzione è Dollar, un bambino nato esplicitamente sotto il segno del dollaro americano e le visioni espansionistiche di un padre diventato ricco troppo in fretta – senza averne forse la testa e la maturità. I primi disastrosi segni del cambiamento iniziano a palesarsi quindici anni dopo: nel 2014 Dollar ha genitori separati e una nuova madre, vive in una grande città e sta imparando a parlare l’inglese, proiettato verso una scuola internazionale fuori dal Paese.

 

Mountains May Depart, una storia personale

Il formato dello schermo è ora 16:9 e fra le mani di tutti spuntano iPad e iPhone, i simboli estremi di una industrializzazione di massa snaturata di ogni radice (come saprete, Apple disegna i suoi prodotti in California ma li produce interamente in Cina). Si arriva ad immaginare un 2025 su schermo panoramico 2:35, sempre più largo, in cui Dollar e la sua intera generazione vivono in Australia, hanno completamente dimenticato la loro lingua d’origine e non riescono più a comunicare con i loro stessi padri, incapaci di comprendere la nuova, obbligata rivoluzione culturale che essi stessi hanno imposto.

Mountains May Depart

Jia Zhangke, che molti ricorderanno per lavori come Still Life e Touch of Sin, racconta la storia personale di un ragazzo dai suoi 0 ai 25 anni (o giù di lì) per spiegare come stia cambiando la Cina e come soprattutto potrebbe diventare in un futuro non troppo lontano. Un Paese che abbagliato dai guadagni facili della globalizzazione sta perdendo direzione e tradizione, diventando arido e ghiacciato nello spirito, privo di ogni sentimento e ricordo. Un monito d’allarme dal linguaggio semplice, quasi folkloristico, che andando avanti con le fasi del film diventa più rigido, insipido e asettico, per riscaldarsi di nuovo solo nel finale emozionante e simbolico.

Medesima evoluzione per l’immagine e la fotografia chirurgica di Nelson Yu Lik-wai, che sfuma costantemente dal caldo al freddo insieme ai personaggi sempre più sperduti e confusi. Siamo di certo lontani dalla potenza visiva de Il Tocco del Peccato (A Touch of Sin) ma è probabilmente una scelta voluta, ricercata, più poetica. Ci si rivolge esplicitamente ad un pubblico di massa e si fa leva sulle canzoni popolari, i canti di piazza, le danze di fine anno, i ravioli fatti in casa dalle madri per i propri figli e famiglie assenti. Madri che trasudano dolore da ogni sguardo, da ogni parola affidata al silenzio, nonostante le gioie del passato e l’idea di un futuro ideale siano ancora forti e presenti nel profondo. Una profondità che neppure la neve, che scende copiosa, può raffreddare.

Mountains May Depart
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