Hai paura del buio: recensione del film

Hai paura del buio

Al suo primo lungometraggio Massimo Coppola – già autore radio – televisivo per Rai ed Mtv, filosofo, nonché uno dei più lucidi intellettuali d’oggi (e forse uno dei pochi rimasti) – continua l’esplorazione dell’universo giovanile iniziata con la serie di documentari Avere Ventanni. Suo talento, ora come allora,  visivamente parlando, è senz’altro quello di scovare paesaggi, in Italia e in questo caso anche in Romania, che non si vedono mai solitamente, cogliere con il particolare taglio di un’inquadratura scorci suggestivi nella loro disperata alienazione, desolatamente emblematici, che fanno scoprire lati nascosti e ignorati delle nostre città, sposandosi ottimamente allo stato di confusione e disillusione dei giovani oggi. Dal punto di vista del contenuto, lo sguardo sulle vicende esistenziali dell’individuo innesca riflessioni di ordine generale, che riguardano la dimensione collettiva. Questo è il mondo duro e per nulla consolatorio di Hai paura del buio.

 

E viene da dire, viste le musiche dei Joy Division (ma non solo) che fanno da degno accompagnamento musicale al film: tutto il mondo è Manchester. Vi sono, qui, una Romania e un’Italia intrinsecamente dark, e in ciò simili all’Inghilterra industriale e post industriale in cui è nata, cresciuta e morta la band di Ian Curtis. A Bucarest c’è la fabbrica in mezzo ai palazzoni orrendi e algidi. Una fabbrica in cui lavorano in tute scure operai che visti dall’alto sembrano formiche. C’è pioggia. A Melfi c’è la fabbrica in mezzo ai campi, con tutte le sue macchine parcheggiate in ordinatissime angoscianti file. Macchine dentro, macchine fuori. Melfi battuta dal vento, pale eoliche. La fabbrica che è entrata a forza nell’Italia rurale e ne è diventata il fulcro, l’unico orizzonte possibile per chi vive in quei luoghi. Fabbrica che è vita, ma può essere anche morte. Questi i contesti in cui si muovono le due protagoniste: Eva/Alexandra Pirici e Anna/Erica Fontana.

In Hai paura del buio Eva, perso il lavoro in fabbrica a Bucarest, parte per Melfi alla ricerca di qualcuno, la cui identità si scoprirà pian piano. Qui incontra Anna, operaia alla Fiat, che la ospita. Anche Anna perderà il lavoro e dovrà trovare un punto dal quale ripartire. I numerosi primi piani scandagliano l’universo interiore delle due ragazze, entrambe intense nelle loro interpretazioni – Erica Fontana all’esordio. Il suo personaggio, Anna, appare chiuso, rancoroso verso un mondo esterno che ingabbia in un ruolo, verso una vita che già a vent’anni sembra non avere altro da offrire che una famiglia di origini modeste e una quotidianità di fatica e rinunce. La nonna (Angela Goodwin), alla quale è molto legata, è gravemente malata; il padre (Manrico Gammarota) è disoccupato e lei condivide con la madre (Antonella Attili) il peso della responsabilità familiare. Ottimi gli attori appena citati nei rispettivi ruoli.

Eva è invece più aperta, determinata, cerca scampoli di felicità in mezzo alla desolazione, mentre persegue il suo obiettivo. La sua storia si scopre poco a poco nel film, sul filo della tensione: la ragazza individua la persona che stava cercando, la segue e la spia, fino a un durissimo faccia a faccia. Lì scopriamo cosa covava dentro di sé la dolce Eva: il dolore tenuto dentro per anni, che rivolge contro il suo “bersaglio”, conto chi glie ne pare la causa. Ad accomunarla ad Anna è un universo di solitudine interiore, d’isolamento, un senso d’impotenza che vuole finalmente scrollarsi di dosso. Due ventenni apparentemente senza sogni, dunque, come tanti ventenni di oggi. Due ragazze che un evento, in questo caso la perdita del lavoro, spinge a fare scelte importanti, a cercare una svolta per la propria vita, non rinunciando più a sé stesse, alle proprie aspirazioni.

Non può sfuggire allo spettatore, strettamente legata alla vicenda delle protagoniste, una riflessione sul valore del denaro nella società occidentale. Denaro vitale, da cui dipendono tutte le scelte esistenziali, ma in nome del quale si finisce per sacrificare l’umanità delle relazioni sociali e familiari. Hai paura del buio affronta anche il tema dell’immigrazione in un’Italia impreparata e poco memore di sé stessa, che oscilla fra accoglienza e diffidenza. Le strade della rumena Eva e dell’italiana Anna si incrociano e loro camminano l’una a fianco all’altra, ma un vero rapporto tra le due inizierà a nascere solo alla fine di Hai paura del buio.

Le ambientazioni sono da documentario: senza nessun tipo di fronzolo, scene di vita quotidiana, non modificate per darne un’immagine più “gentile”, anzi, quanto più realistiche si può. Non c’è niente di consolatorio, che dipinga un quadro più leggero della realtà in cui le protagoniste si muovono, proprio come nei brani che accompagnano la narrazione. La scelta di inquadrature ed effetti visivi è invece dettata da un preciso senso artistico ed espressivo, che spesso riesce a coinvolgere e affascinare lo spettatore.

Coppola, dunque, torna finalmente a fare quello che gli riesce meglio: fotografare l’esistente e darne una lettura acuta e profonda, mai scontata, e al tempo stesso largamente accessibile. Lo fa con l’aiuto di Indigo Film – già produttrice degli esordi cinematografici di Paolo Sorrentino e Andrea Molaioli – MTV e BIM, anche distributrice della pellicola (per ora a Roma in due sole sale). Non può che farci piacere.

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