Happy End 1

Se con Amour, probabilmente il suo capolavoro più grande, Michael Haneke aveva riempito una casa dell’amore più assoluto, universale ed eterno, con Happy End compie esattamente l’opposto, racconta l’effimero, il vuoto sentimentale, l’attualità. E attualità, nel 2017 in Europa, significa solidarietà, migranti, confini, traversate, uomini, donne e bambini di etnie diverse che lottano e vagano per mare e per le nazioni in cerca di un posto nel mondo, come di una seconda occasione. Il regista austriaco però non è certo famoso per la retorica, per creare opere didascaliche, succede così che per parlare di integrazione e immigrati questi non appaiano praticamente mai sullo schermo – o quasi. Il centro di tutto è al contrario una ricca e allargata famiglia borghese, emblema dell’Europa benestante che fa di tutto per chiudere i confini nazionali – come privati, di una singola abitazione – per curare i propri interessi.

 

Il dibattito politico, la guerra in Siria e tutto ciò che ne deriva sono soltanto idee di sfondo, che difficilmente toccano da vicino la grande borghesia francese. I grandi industriali sono più interessati ai loro vizi, al loro broncio universale, da tramandare di generazione in generazione. Prendiamo Anne Laurent, personaggio interpretato con sagace freddezza da Isabelle Huppert, che ha come unico interesse il bene della grande azienda di famiglia e delle sue costruzioni, o Thomas Laurent, un maturo Mathieu Kassovitz, che nonostante abbia divorziato una volta sta per farlo una seconda, flirtando a distanza con una nuova amante. Il tutto davanti agli occhi della figlia ignara, la piccola Eve, che neppure si sorprende dell’incapacità di amare del padre. Lei viene sballottata da una casa all’altra senza cura, mentre il genitore chatta senza sosta come un tredicenne su Facebook, capace a scrivere parole d’amore (e porcate sessuali) solo attraverso un freddo monitor di computer.

Happy End, il film

Happy End

Terra arida, un deserto di sentimenti che tocca l’apice con Georges Laurent, un inarrivabile Jean-Louis Trintignant, il capofamiglia anziano che vorrebbe soltanto morire. Morire per non vedere in quali mani incapaci, secondo lui, è finita la sua azienda; così mentre migliaia di migranti tentano di scappare dal mare, lui vuole entrarci e soffocare, schiaffo supremo ai tempi che stiamo vivendo. Il suo cuore di pietra colpisce a muso duro anche l’innocente nipote, in grado di reggere il colpo solo grazie a una prematura maturità. Personaggi che non conoscono amore, o che non lo conoscono più, che vivono tutto senza passione, capaci di riprendere con i propri smartphone anche la morte in diretta, senza emozioni – da qui la particolare locandina del film, come se l’immagine venisse ripresa in live da un telefono.

Michael Haneke racconta così, con il suo strambo e solenne stile, la freddezza con cui buona parte di Europa sta affrontando la questione migranti, ambientando simbolicamente la sua storia a Calais – luogo dove molti migranti finiscono per “parcheggiarsi” in attesa del loro destino. Finché tutti continueremo a fare orecchie da mercante, a voltare lo sguardo altrove, non ci sarà umanità nelle nostre vite e in quelle degli altri, anche quando gli altri ne hanno estremo bisogno. Retorica, e spicciola per giunta, che però abbiamo aggiunto noi: in Happy End in realtà non esiste alcun lieto fine, non c’è nessuna morale, esiste solo il dramma del vuoto, del silenzio, della solitudine di ognuno. Il grido strozzato di chi non vuole farsi sentire.

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