Poker Generation: recensione del film di Gianluca Mingotto

Poker Generation

In Poker Generation Filo (Piero Cardano) e Tony (Andrea Montovoli), due fratelli diametralmente diversi, vivono a Scicli, un piccolo centro della Sicilia, ma per fuggire la monotonia della vita di paese e la tristezza per una situazione familiare molto drammatica, i due si rifugiano nei loro sogni. Quando la sorellina si ammalerà gravemente, per guadagnare i soldi necessari a pagare l’operazione chirurgica che potrebbe salvarle la vita, i due ragazzi andranno a Milano alla ricerca di Joyce,  il  campione Italiano di Poker Texas Hold’em, con la speranza di imparare da lui i turchi per vincere al Poker.

 

Gianluca Mingotto ma soprattutto il produttore Fabrizio Crimi, mettono in piedi un film che ha come scopo principale quello di mostrare il lato “buono” del Poker. Il Poker ed in particolare il Texas Hold’em, non è un semplice gioco d’azzardo possibile fonte di pericolosa dipendenza (pericolosa soprattutto per il portafogli ), ma i due autori lo ridipingono come una disciplina sportiva a tutti gli effetti con tanto di preparazione atletica in questo caso non dei muscoli, ma del cervello. Crimi infatti, oltre ad essere produttore di questo Poker Generation completamente indipendente, è anche un top manager nel settore del Gaming On Line.

Poker Generation, il film

La mossa promozionale, quindi, è del tutto manifesta anche se va a questo film il merito di essere quasi totalmente auto prodotto e di avere un cast tecnico ed artistico composto per la maggior parte da giovani esordienti (escludendo la partecipazione di Francesco Pannofino e di Lina Sastri nel ruolo dei genitori di Filo e Tony). Questo aspetto influenza le scelte stilistiche della pellicola che in molti momenti per fluidità e ritmo ricorda un video musicale (Mingotto, regista esordiente sul grande schermo, ha realizzato precedentemente alcuni videoclip e spot pubblicitari).

Poker Generation presenta  una certa freschezza dal punto di vista stilistico, le pecche sono da riscontrare nella sceneggiatura e nella costruzione narrativa. Purtroppo la sceneggiatura è stata scritta quasi esclusivamente per dimostrare che il gioco del Poker non è un gioco cattivo e pericoloso, non è un gioco d’azzardo ma uno sport e che con il Poker (e soprattutto con i tornei), è possibile cambiare la propria vita, anzi il Poker è metafora  della vita stessa.

I dialoghi molto spesso presentano frasi altisonanti e retoriche nonostante il regista stesso tenga a precisare come la pellicola sia il frutto di un’attenta e lunga documentazione sul campo effettuata  intervistando giocatori professionisti e provando egli stesso a giocare. Il risultato si discosta dal documentario e anzi è pesante il debito che Poker Generation ha nei confronti del premio Oscar The Milionaire. Anche qui infatti come nel film di  Danny Boyle ci sono due fratelli poveri: uno intellettualoide e un po’ sfigato, l’altro bello e con ambizioni da gangster e mentre lì lo strumento di riscatto era il quiz televisivo, qui il torneo di Poker. Addirittura sono simili i momenti finali in cui i protagonisti affrontano il loro destino inquadrati in uno schermo televisivo con le persone care che fanno il tifo.

In Poker Generation, invece, Mingotto da buon mestierante ce la mette tutta per soddisfare le esigenze della committenza. Questa non vuole assolutamente essere una critica, anzi piuttosto è un merito centrare un simile obiettivo quando si sta lavorando ad un prodotto commerciale. La caduta di tono, piuttosto, sta nel voler spacciare un film un po’ ruffiano per un’opera indipendente d’avanguardia.

Tutto il film è patinato come in uno spot televisivo ed anche la giovane ragazza madre di cui Filo si innamora (Francesca Fioretti), ha le sembianze di una statuaria ballerina di Lap Dance (il secondo lavoro che è costretta a fare per mantenersi).

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