La Gabbia Dorata recensione

La Gabbia Dorata recensioneQuando le barriere sociali, nazionali e razziali sono scavalcate da un unico e viscerale bisogno, e gli artificiali confini annientati da una comune sete di speranza, un film come La gabbia dorata non può che lasciarci di stucco per la lealtà con cui tratta il dramma della migrazione e la sua penosa esegesi in uno scenario empio, ostile. Il film è l’opera prima per il regista Diego Quemada Diéz che si è aggiudicato il Premio Gillo Pontecorvo al 66° Festival di Cannes, nonché quello di Miglior Film alla 43° edizione del Giffoni Film Festival.

 

Juan, Sara e Samuel, tre sedicenni del Guatemala debosciato e malfamato, alle prese con un’interminabile e faticoso viaggio verso l’eldorado, la terra promessa e tanto sognata, quell’America dorata che seppur dietro l’angolo appare lontanissima. Lungo il cammino i tre ragazzi si imbatteranno in Chauk, un indio del Chiapas, che insegnerà loro a comunicare con il cuore e con l’anima.

La Gabbia Dorata recensione posterFrustrazione e sofferenza, paura e senso di smarrimento. La strada è lunga e insidiosa, con banditi e poliziotti pronti a minacciare la loro corsa, mettendoli faccia a faccia con la morte o rispedendoli nell’inferno da cui scappano. Ma l’eco di una vita migliore e il fremito che li trascina verso Nord è inarrestabile, tanto da rendere gli sconfinati binari un tassativo trampolino verso l’inaudita libertà.

La pellicola si apre con un silenzio tombale che ci trascina, dopo una rapida occhiata ai tre ragazzini, nella foresta guatemalteca, nel cuore di una laconica wilderness, dove a risuonare sono solo il rumore dei loro passi, il triste lamento degli uccelli e il fruscio del vento. Un treno in corsa fende la natura tentacolare. E quando la quiete lascia spazio al commento musicale, a trapelare sono solo l’angoscia e l’avvilimento per un viaggio che si preannuncia amaro e sfibrante. Un cammino che non è solo una sorta di rito iniziatico verso la California, ma anche e soprattutto un percorso di crescita, di conoscenza e di scoperta.

Diego Quemada-Diez scruta con la sua cinepresa al di là di barriere e grate, mostrando la sua esigenza di scavare in profondità, e di riportare dettagli apparentemente irrilevanti ma che danno la giusta misura a ciò che vuole trasmetterci.

Una storia che affonda le sue radici nella tragica realtà del Guatemala, e che il regista imbastisce a partire da molteplici racconti di vita vissuta, prediligendo un taglio documentaristico. Non un viaggio che pur ispirandosi alla realtà, finisce per distaccarsene e diventare una storia meramente cinematografica, ma un racconto minimale, semplice, girato in Super16 che, sfruttando lentezza narrativa, recitazione spontanea e budget esiguo, vuole  comunicare un’estratto di vita quotidiana e il suo intimo disagio.

- Pubblicità -