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Dopo esserci lasciati alle spalle quel noioso episodio/spiegone in cui Murphy sentiva la necessità di entrare nel dettaglio delle origini del male, il settimo episodio di American Horror Story: Asylum abbandona la linea disturbante adottata da questa seconda stagione e torna a stupire come solo un prodotto del genere sa fare.

Nell’andirivieni di personaggi più o meno sensati in quel del Briarcliff, in questo episodio, scritto da Tim Minear e diretto da David Semel, fa la sua visita una signora dal gusto retrò, vestita di nero, una diva vintage degli anni ’40 che sembra essere la dark cousin di sister Mary Eunice (o di chi abita in lei). Stiamo parlando della splendida Frances Conroy che nella prima stagione di American Horror Story interpretava la versione anziana della governante Moira mentre, in questa seconda stagione, veste i panni di un glamourissimo angelo della morte.

Se lo scorso episodio era tutto incentrato sull’origine del male, nella settima puntata gli autori indagano il tema della libertà e del prezzo che essa si porta dietro. Talmente tanta è la sofferenza terrena che gli ospiti del Briarcliff si trovano a voler invocare il freddo bacio della Signora vestita di nero che, uno dopo l’altro, farà visita a tutti i personaggi della serie provando a rimettere insieme i tasselli dei vari storyline persi qua e là.

La forza dell’episodio è tutta incentrata nel ruolo della Conroy che lascia da parte l’eccesso quantitativo di scene disturbanti e cruente a tutti i costi per dar voce all’abbandono dei personaggi che disperatamente chiedono l’intervento della loro unica fonte di salvezza: la morte.

Aggirandosi per il manicomio l’angelo della morte non può che fare l’incontro di sister Mary Eunice che viene riconosciuta come altra forma sovrannaturale presente nel luogo di cui vuole essere l’unica padrona. L’incontro permetterà al Demonio di lasciare la presa sulla suora e di farne riaffiorare la coscienza sopita (che inevitabilmente chiederà la liberazione tramite l’intervento della Signora) e allo spettatore di ammirare Lily Rabe in tutta la sua maestria. Ovviamente il Demonio riesce quasi subito a riprendere in mano le vesti del corpo di cui si serve così che l’Angelo della Morte si trova “costretto” a far visita a un’altra persona: la povera Grace, la quale tira le cuoia in una scena tecnicamente mediocre, pur tenendo in considerazione lo stile schizofrenico e singhiozzante a cui la serie ci ha abituato. L’errore viene però recuperato in fase finale quando il sussurro “I’m free” di Grace viene accompagnato dall’apertura alare (nera) dell’angelo della morte, posto sopra la giovane donna.

Intanto, una sorta di logica dell’eterno ritorno sembra pervadere gli altri personaggi del manicomio.

Nonostante la continua latitanza degli amici alieni, Kit fa ritorno al Briarcliff; Lana si ritrova ancora una volta imprigionata nel Briarcliff.

In un’allucinazione estremamente vivida macchiata da una buona dose di auto-lesionismo, Sister Jude si trova a invocare la liberazione da una colpa che, di fatto, scopriamo non ha mai commesso: erosa dai sensi di colpa la donna decide di andare a trovare la famiglia della ragazzina investita e uccisa per fare finalmente ammenda dei suoi peccati salvo poi scoprire che la ragazzina in questione è viva, vegeta e fa l’infermiera. In una chiacchiera al bar con l’angelo della morte Jude confessa che ciò che voleva più di ogni altra cosa era una vita normale, come tutte: il più classico dei sogni americani, con tanto di casa con steccato, marito e figli al seguito. L’abuso di alcool e uomini però l’hanno portata in una sorta di decadenza malinconica in cui la sessualità sfrenata si impone come ennesimo vessillo di un maschilismo imperante che l’ha portata alla rovina. I sensi di colpa che l’hanno erosa dall’interno per anni non trovano neanche una facile via d’uscita, negando alla sorella persino la redenzione finale che porterà le commesse del bar, mentre guardano una povera vecchia chiacchierare da sola, sentenziare: “Poverina. Forse dovremmo chiamare il Briarcliff. Almeno potrebbero darle un letto per stanotte.”

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