
Il film è in concorso a Venezia e nel suo eccessivo barocchismo riesce comunque a raccontare la grande volontà di guardare ad un futuro e ad una ricostruzione che sembra impossibile. Le intenzioni metaforici del regista finiscono troppo presto per retoriche, anche se l’eccesso visivo del film non copre diversi pregi, tra cui immagini di potente suggestione.
Il film racconta di Yuichi Sumida, un ragazzo che vuole diventare un uomo comune. Conduce un’esistenza tranquilla nel noleggio di barche della sua famiglia assieme alla madre, che lo trascura. La sua compagna di classe Keiko Chazawa ha invece l’unico desiderio di trascorrere la vita con una persona amata. La ragazza ha una cotta tremenda per Sumida e trova la felicità nell’averlo conosciuto nonostante lui la percepisca come un fastidio. Il padre di Sumida torna a casa solo quando è ubriaco e ha bisogno di soldi, e ogni volta sottopone il figlio a violenze fisiche e verbali. Sua madre peggiora la situazione scappando con l’amante e lasciando il figlio da solo. Chazawa cerca disperatamente di risollevare l’umore di Sumida. Una trama semplice per un film, un progetto che va molto al di là di quello che racconta, posizionandosi a metà tra la storia privata e la ferita collettiva che la potenza distruttiva della natura ha portato al Paese.

“Trasporre il libro nel film è stato come un viaggio – spiega la regista – il romanzo, e il suo protagonista, per me sono diventati un’ossessione: si tratta di una storia dura, cupa, profonda, strana, perfino al di là della comprensione. Ho scoperto da pochissimo che la Bronte non voleva che qualcuno la leggesse: per lei era come un diario quasi pazzo. Ho cercato di rendere tutto questo anche filmando la natura, che è parte integrante della pellicola; e sottolineando il fatto che in ciascuno di noi c’è un istinto animalesco”.
