“Cella 211” esce domani, dopo aver partecipato al festival di Venezia. Il film ha preso forma grazie ad un lavoro di ricerca sul mondo delle carceri, parlando coi detenuti e con chi lavora in carcere. «Il noir è sempre stato un buon mezzo per una critica alla società» ha affermato l’attore Guerricaechevarria.
È insomma la realtà a cui si sono
voluti ispirare Monzon e Guerricaechevarria per tradurre sullo
schermo il romanzo di Francisco Perez Gandul, Celda 211. Non quella
del cinema americano di detenuti con casacche a righe e celle che
si aprono tutte insieme, ma quella di una violenza quotidiana che
domina nell’universo del penitenziario, oppone i detenuti tra loro,
i poliziotti ai detenuti, i detenuti contro se stessi. Una violenza
dell’emarginazione e del sopruso, come quando un detenuto non viene
curato dal medico perché è «immondizia». O le visite, dice
Guerricaechevarria, che avvengono attraverso le sbarre se il
detenuto è giudicato pericoloso. Il film ci porta così in una
realtà troppo spesso continua a essere occultata, pensiamo che
l’amministrazione penitenziaria in Italia pone enormi limiti per
l’accesso nelle carceri da parte della stampa. Nel film emerge
l’istituzione totale dove rispondere alla giustizia equivale a una
perdita di diritto, dignità, umanità. Tutto è negato anche
ammalarsi. In Spagna, dicono i protagonisti di Cella 211, quando un
detenuto sta molto male viene rilasciato. Così l’eventuale decesso
non va a ingrossare le statistiche, ufficialmente è morto fuori.
Che poi dietro a quella morte ci siano anni di condizioni
psicologiche e fisiche insopportabili poco importa. Mura scrostate
con su nomi e molti figlio di puttana. Tatuaggi, facce indurite,
rabbia e diffidenza, la polizia è feroce. Alla presentazione romana
c’era anche Patrizio Gonnella presidente del gruppo Antigone che da
anni combatte l’indifferenza istituzionale nei confronti dei
problemi che soffocano il sistema carcerario. Vedendo il film viene
in mente Stefano Cucchi di cui Gonnella spiega la vicenda agli
stupefatti spagnoli. Morto per violenze e mancanza di cure, sarebbe
stato l’ennesimo caso di decesso in cella se i familiari non
avessero avuto la forza di denunciare. In questo senso Cella 211 –
che per ora non è ancora stato proiettato in un carcere – è
importante.
La “Primavera del cinema francese” a Roma, fino al 20 è una
kermesse nata sulla scommessa di portare il cinema francese in
Italia. Qualcuno chiede a Girardot come mai oltralpe si produca
ancora tanto e in modo così differenziato. Risposta: «La volontà
dello stato non è stata ancora corrosa dall’avidità di un primo
ministro come quello che avete voi». Certo anche in Francia le
difficoltà ci sono ma fare un film è ancora possibile e soprattutto
si possono presentare storie non formattate sul codice della
fiction televisiva come in Italia, fiction zeppa di modelli sociali
da playstation. Nel programma di quest’anno c’è un omaggio a Eric
Rohmer che permetterà di rivedere sullo schermo film come La mia
notte con Maud (’69) o Le genou di Claire (’70). C’è il gioco
amoroso di Alain Guiraudie (Le Roi de l’evasion, 2008), e il
commovente Gli amori folli – nelle sale italiane il 30 – di Alain
Resnais. “Yuki&Nina” di Hippolyte Girardot, e Nobuhiro Suwa,
regista giapponese: il film parla di una storia di due ragazzine
divise dalla vita, i genitori di Yuki si lasciano e lei andrà a
vivere in Giappone, tra sentimenti, dolori e tenerezze della vita
che si confondono sul confine trasognato di una foresta.