La settima stagione di Pretty Little Liars nasce con una promessa chiara: chiudere il cerchio dopo sette anni di rompicapi, identità camuffate e verità taciute, riportando il racconto alla sua essenza primigenia—un gioco al massacro tra l’intimo e l’indizio, dove la prova forense conta meno dell’effetto-onda emotivo che ogni azione innesca su Spencer, Aria, Hanna, Emily e Alison. L’apertura con Tick-Tock, Bitches condensa tutto il lessico della serie: azione frenetica, minacce “impossibili”, ingressi di figure-chiave (Mary Drake) e quell’elasticità di logica che i fan hanno accettato come parte integrante del patto narrativo. Nello sviluppo, la stagione alterna episodi di forte trazione (l’omicidio di Rollins, il ritorno di Mona e Jenna, l’entrata in scena del “gioco da tavolo” di A.D.) a passaggi più dilatati, dove i nodi sentimentali funzionano da vero metronomo dei colpi di scena. È un equilibrio volutamente instabile: PLL non cerca la linearità ma la saturazione—di stimoli, sospetti, deviazioni—fino al finale extra-long che svela la maschera definitiva, tra twist dichiaratamente sopra le righe e un addio affettivo costruito per il pubblico che non ha mai smesso di “giocare”.
Dal trauma alla strategia: un innesco ad alta tensione che riporta Rosewood al suo “vecchio” sé
Il primo blocco (episodi 1–4) lavora di accumulo e riposizionamento. L’evento traumatico, l’omicidio di Elliott/“Mr. Rollins”, costringe le Liars a una coesione forzata e ripristina il codice morale ambiguo che da sempre alimenta la serie: sopravvivere significa mentire, manipolare, spostare l’asticella tra giusto e utile. L’episodio The Talented Mr. Rollins ritrova il vecchio PLL: ritmo forsennato, set-piece quasi horror, finale a bruciapelo. Subito dopo, Hit and Run, Run, Run apre la stagione al “noi contro il mondo”: l’azione non chiude indagini, ma sposta continuamente il terreno sotto i piedi delle protagoniste. È qui che rientra Mona—chiave inglese dentro un ingranaggio pieno di sabbia—e che Jenna riaccende quella luce sinistra sulla colpa originaria di Rosewood: ogni soluzione prevede un sacrificio.
A.D. come dispositivo drammaturgico: il “gioco” che trasforma la colpa in performance
Nella seconda metà, l’invenzione più interessante non è un indizio ma un format: il board-game di A.D., oggetto totemico che scientemente sposta PLL dal giallo classico al teatro della colpa. Ogni casella è un obbligo/verità che costringe le Liars a performare la loro ambiguità davanti a noi, più che a risolvere un mistero. Playtime (7×11) istituisce la regola e normalizza l’assurdo: non cerchiamo “chi è A.D.” con metodo, ma quanto le ragazze siano disposte a perdere pur di smettere di essere prede. È una scelta coerente con l’identità della serie: PLL non chiede di credere, chiede di partecipare—di collezionare teorie, affezionarsi ai sospettati, accettare che il gioco sia truccato. E proprio per questo, funziona.
Mary Drake, genealogie spezzate e la questione dell’identità: quando l’albero familiare è un labirinto
La linea Mary Drake/Jessica DiLaurentis sposta l’asse dall’esterno all’interno: non è solo “chi ci perseguita?”, ma da dove veniamo e chi siamo quando i legami di sangue vengono manipolati come prove a discarico. Le allusioni al “secondo figlio”, i ritorni di Jason e Noel, l’ombra lunga di Charlotte: tutto concorre a un romanzo familiare che è sempre stato il cuore segreto di PLL. In questo contesto, Spencer diventa il barometro emotivo della stagione: il suo percorso—tra rivelazioni di parentela, gaslighting istituzionale (Detective Furey/Tanner) e il dubbio della gemella—incarna la tesi più radicale del racconto: a Rosewood l’identità non si scopre, si costruisce, spesso a prezzo di un tradimento di sé. È una mossa rischiosa (la “teoria delle gemelle” abbraccia il trash), ma coerente con un universo che fa della maschera l’unica verità condivisa.
Amori come metronomo del plot: quando le coppie regolano la temperatura del mistero
È impossibile leggere la stagione prescindendo dai ritorni/revisioni delle coppie storiche. PLL non usa l’elemento romantico come contorno, bensì come pedale di risonanza dei colpi di scena: Ezra/Aria oscillano tra promessa e minaccia (Nicole come fantasma morale), Hanna/Caleb ritrovano un baricentro che vale più di un indizio, Emily/Alison convertono la linea “nemiche/amiche” in intimità dichiarata, chiudendo un arco identitario che la serie aveva preparato per anni. Anche qui il melò è deliberatamente alto, ma non gratuito: ogni scelta di coppia riorganizza la posta in gioco del mistero, aumentando o abbassando la pressione narrativa prima dei grandi svelamenti.
Mona e Jenna: le variabili impazzite che tengono onesto il gioco
Se A.D. è la regia occulta, Mona e Jenna sono le spie sul quadro comandi. La prima conferma il suo statuto di miglior personaggio “ambiguo” della serie: intelligente, emotivamente opaca, capace di passare da sospetta a salvifica, sempre un passo di lato rispetto al centro—laddove si muovono le menzogne efficaci. La seconda incarna la memoria tossica di Rosewood: ogni sua entrata in scena ricorda che nessun debito è davvero estinto. In Choose or Lose (7×18) e Farewell, My Lovely (7×19) la loro funzione si chiarisce: mettere pressione, aprire varchi, costringere le Liars a esporsi. È anche grazie a loro che il penultimo episodio riesce a dare prime risposte (il caso Charlotte) senza bruciare l’ultimo colpo in canna.
Punti di forza e cadute: tra adrenalina, nostalgia e una logica “elastica”
La stagione corre meglio quando accetta di essere sé stessa: iperbolica, emotiva, a tratti apertamente camp. Gli episodi ad alta densità (7×03, 7×04, 7×10, 7×18–19) funzionano perché fanno collassare l’indagine nel vissuto delle protagoniste, mentre i segmenti più “respirati” (7×02, 7×08, 7×12–13) rischiano di diluire la tensione a favore di routine sentimentali. La logica forense resta il tallone d’Achille: chiavette che spariscono con troppa facilità, forze dell’ordine “a intermittenza”, coincidenze provvidenziali. Ma il punto è che PLL non ha mai cercato la coerenza investigativa: ha cercato l’adesione emotiva di un pubblico disposto a sospendere l’incredulità in cambio di riconoscimento (amicizia, lealtà, sopravvivenza, self-empowerment). E su questo terreno, la settima stagione mantiene l’impegno.
Il finale “Till Death Do Us Part”: il coraggio (imperfetto) di scegliere il proprio trash
Il series finale—novanta minuti che coronano sette anni di attesa—sceglie la via più spettacolare e divisiva: abbraccia la teoria delle gemelle, spinge sul twist identitario, chiude le coppie e concede ai fan l’abbraccio collettivo che chiedevano. È una conclusione coerente con l’identità pop del progetto e, al contempo, espone tutte le sue fragilità: risposte parziali, incastri non perfetti, una certa fretta nel riallineare gli ultimi pezzi del puzzle. Ma—ed è un ma non irrilevante—il finale rispetta il patto affettivo con la sua community: la verità ultima può essere incredibile, purché sia godibile e non tradisca i personaggi. In questo senso, la prova di Troian Bellisario nel doppio registro e la centralità di Mona sono le scelte più felici: danno spessore all’iperbole e impediscono al fan-service di divorare tutto.
Bilancio critico: perché la settima stagione “funziona” nonostante i suoi paradossi
Pretty Little Liars 7 non converte gli scettici, ma conferma a chi l’ha amata cosa sia stata: una saga di amicizia e identità travestita da giallo, dove ogni indizio vale soprattutto per mettere alla prova le protagoniste e la loro alleanza. È televisione che privilegia il coinvolgimento alla verosimiglianza, che usa il trash come linguaggio e la nostalgia come collante. Nella sua migliore versione, questa stagione è adrenalinica, emotivamente “carica”, consapevole del proprio pubblico. Nella sua peggiore, ripete pattern, allunga percorsi, promette più di quanto possa mantenere. Ma chiude nel segno dell’appartenenza—e non è poco per una serie che ha vissuto della partecipazione attiva degli spettatori più di qualunque prova d’aula.
Pretty Little Liars - Stagione 7
Sommario
Pro: ritmo elevato nei nodi chiave; invenzione del board-game di A.D.; centralità di Spencer/Mary e della linea Emison; Mona e Jenna come catalizzatori; finale affettivamente soddisfacente per i fan.
Contro: episodi “di mezzo” diluiti; logica investigativa elastica; alcuni twist gestiti con fretta; dipendenza da melodramma per regolare la tensione.

