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La prima stagione di Touch approda all’ultima puntata (Vortice, pt. 2). Bastano poche parole per dire cosa accade ai protagonisti: per Jake si spalancano le porte di un lontano e oscuro istituto, probabilmente una specie di pollaio della Aster Corp, ma, con un rischioso stratagemma Cloe riesce a strappare il piccolo dalle grinfie della Strepling, consegnandolo a Martin. Il signor Bohm, privato della custodia, può soltanto fuggire assieme al piccolo. Nonostante alcune pericolose traversie, i due la passano liscia; almeno così stanno le cose quando partono i titoli di coda. Inoltre, nel finale, i due Bohm s’imbattono nella madre di Amelia, Lucy. Per caso? Sia mai! Perché tutto è collegato, naturalmente: bella vita per chi scrive Touch. Un momento particolarmente critico della fuga è risolto dall’intervento provvidenziale di Randall Meade, il vigile del fuoco conosciuto nelle prime puntate. Distrutto dal senso di colpa per avere lasciato Sarah Bohm ancora viva dentro l’inferno delle Twin Towers, l’uomo, ancora divorato dal dolore nonostante il serio tentativo di riconciliarsi con se stesso e col mondo, riesce finalmente a trovare la pace: grazie all’aiuto che dà ai fuggitivi – regala loro l’auto appena acquistata – e alle parole di perdono che i due, anche in vece dell’angelica Sarah, gli concedono senza sforzo. Così, Randall, interpretato da un bravo Titus Welliver, può tornare definitivamente “ripulito” presso la piccola comunità dove sta cercando di rinascere, pronto, ora che è senza zavorre, a intraprendere a pieni polmoni una relazione con una bella e giovane vedova. Torna anche un altro personaggio, per una manciata di secondi: si tratta del cavaliere invisibile Walt King, al centro del terzo episodio (La sicurezza nei numeri), il migliore dell’intero blocco, vicino per certi versi a La leggenda del re pescatore di Terry Gilliam. Un’urticante linea narrativa s’intreccia alle vicende – alla quest – di Lucy; il personaggio su cui fa perno è un belloccio palestrato (Jackson Davis) che gira il mondo filmando vari artisti mentre eseguono uno stesso brano. Balza all’occhio come musicisti e affini, in Touch, siano davvero sgradevoli: probabilmente, dovrebbero risultare cool.

 
 

Una cosa va, ancora una volta, affermata: non ha senso chiedere a una serie – a una finzione in genere – solo e soltanto quel cinismo che va tanto di moda, quell’etica-estetica del basso lebo-bukowskiano. Perché la cosa più tremenda sarebbe accorgersi, un giorno, di provare vergogna (a mo’ di Arthur Fonzarelli) nel sentire il bisogno di un po’ di candore; con buona pace di chi vuole ingozzarsi unicamente del godibilissimo Vincent Vega. Il guaio è che l’asino Kring casca e ricasca (non perché sia un sempliciotto, ma perché fa il furbetto) nell’errore di liquidare grossolanamente un tema colossale, cioè la ricerca del Bene, dell’Ordine (un solo Ordine?), facendo sbrodolare tutto verso i lidi del semplicismo e del sensazionalismo. Per non parlare delle velleità scientifiche: niente pulci fatte sulle equazioni, d’accordo, ma tirate d’orecchie a non finire per un atteggiamento che ricorda tanto la spicciola pesca nel mare della filosofia praticata da Franco Battiato quando desidera abbagliare.

La Fox ha confermato Touch, un po’ a sorpresa. D’altronde, c’è un’Amelia da trovare; tra Jake e la ragazzina ci saranno ancora tante giravolte e, si spera, qualche musichiere in meno. Per salvare la serie, abbiano il coraggio dell’incoerenza.

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