Compiuto il suo quarto di secolo, Pretty Woman dice addio al suo creatore. Il compianto regista Garry Marshall è spirato questa notte al Burbank Hospital (Los Angeles) a causa di complicanze dovute ad un ictus.
Tra le sue creature, oltre a pietre miliari per la tv, come Happy Days, il cineasta ha impresso il suo nome nella storia del cinema con una delle favole più “diversamente romantiche” degli ultimi trent’anni.
L’incredibile storia d’amore tra la prostituta Julia Roberts e il miliardario Richard Gere ha fatto girare la testa a milioni di donne e ragazzine, permettendo loro di cullarsi nella dolce fantasia del “e vissero per sempre felici e contenti”.
Storia ormai nota, il film si compone di tutti quegli elementi indispensabili ad ogni fiaba romantica che si rispetti: c’è una giovane fanciulla in difficoltà (economiche), un aitante giovane principe (leggi “miliardario”), un cattivo che tenta di ostacolare il loro amore, e l’happy ending scontato e ma tanto sospirato dallo spettatore.
Entrata nella leggenda anche grazie alla canzone del 1964, Oh Pretty Woman di Roy Orbison, il film può risultare – ad un occhio un po’ critico se non anche cinico – una miscela di luoghi comuni sull’amore, sugli uomini e sulle donne.

Successivamente si decise di alleggerire i toni, emendando la storia dalle controversie socio-culturali e dai toni cupi, la cui eco tragica riecheggia solo nelle note della Traviata che i due guardano con la consapevolezza di rivedere sé stessi nella storia tra una prostituta e un ricco uomo d’affari.
Assumendo invece tutti i toni della commedia romantica di altri tempi – a partire da quel Sabrina di Billy Wilder che mette in luce la capacità insita in ogni donna di trasformarsi da bruco in farfalla – Pretty Woman fece e fa tuttora breccia nei cuori del pubblico, prevalentemente femminile lo si ammetta, che almeno una volta nella vita ha ammesso di invidiare «quella gran c**o di Cenerentola».

