Alejandro Amenábar presenta il thriller Regression, tra satanismo, scienza e religione

Un premio Oscar per il miglior film straniero, una filmografia che vanta piccoli film culto di genere, qualche passo falso, ma una perizia rara nel mettere in quadro e nel dare voce alla settima arte. A soli 43 anni Alejandro Amenábar è uno dei registi più apprezzati del mondo e è venuto a Roma a presentare Regression, il suo ultimo thriller psicologico con Ethan Hawke e Emma Watson.

 

Come è cominciata l’avventura di Regression?

“Io mi sono sempre sentito molto attirato dagli horror. Il mio primo film è stato di questo genere. Per me fare questo tipo di film è molto bello. Prima di girare Agora avevo già l’idea di fare un film sul diavolo. Ma documentandomi sul satanismo e su cose simili mi sono annoiato, anche se mi piaceva l’idea. Ci ho rinunciato per un po’, poi ho esplorato l’argomento degli abusi nei rituali satanici e ho pensato che potesse essere l’approccio giusto. È venuto fuori un film sul diavolo ma anche un thriller psicologico, che esplora i demoni interiori e il labirinto della mente. Era questo l’approccio giusto per me”.

È produttore, regista, sceneggiatore, montatore, musicista? Che ti piace di più?

“Da musicista mi sono ormai dimesso negli ultimi due film. Dove mi sento meglio e a mio agio è sul set, quello che mi piace di più è dirigere e trarre il massimo della soddisfazione dall’interazione con le persone e trarre il meglio dalle persone.. Per alcuni registi è molto stressante girare film, spesso dicono che l’esperienza li fa arrabbiare. Per me girare, dirigere riesce a tirare fuori il meglio della mia personalità”.

Nel film si dice a un certo punto che il diavolo non esiste e che ci sono soltanto cattive persone. Lei cosa crede?

“Qualche giorno fa ho letto che Guillermo Del Toro ha detto che ci sono due tipi di film che parlano del diavolo, uno in cui l’entità viene dall’esterno e l’altro in cui il maligno viene dal cuore delle persone. Questo film è più del secondo genere. Io ho fatto mia la battuta del film e sono convinto che esistano buoni e cattivi ovunque. Parlando della religione, se giri l’America e ti informi scopri che c’è molta influenza delle chiese evangeliche, ma io non volevo fare un film in cui si parla di queste realtà. Volevo mostrare in che modo due istituzioni naturalmente in opposizione, scienza e religione, collaborano per risolvere il puzzle, volevo mostrare come tutti possono commettere errori e nel film tutti i personaggi a un certo punto commettono degli errori. Semplicemente non volevo enfatizzare il ruolo della chiesa, ma indagare l’aspetto psicologico”.

regression posterIn merito alle sue ricerche sugli abusi satanici rituali, che hanno dato l’input principale per la storia, Amenabar ha dichiarato di aver raggiunto una rivelazione piuttosto interessante: “Quello che ho imparato durante le ricerche è stato scoprire quanto è fragile la nostra mente e quanto sia labile la nostra memoria. Quando torniamo indietro con la mente a qualcosa che è accaduto nel passato, abbiamo la tendenza a dare per scontato che quello che ricordiamo è effettivamente quello che è avvenuto. Se però confrontiamo i nostri ricordi con quelli da altre persone che hanno vissuto la stessa esperienza ci rendiamo conto che i ricordi sono diversi a seconda di come la nostra mente ha elaborato tutto. Crediamo che il nostro cervello sia come un piccolo computer, mala verità è che nella nostra testa ci sono come degli omini, un meccanismo che sposta i ricordi e li aggiusta secondo i nostri desideri e le nostre paure. In passato facevo molto più affidamento sui ricordi di quanto non faccia oggi. C’e un film di John Huston con Montgomery Clift chiamato Freud. Alcuni temi di quel film li tratto qui e scrivendo Regression ascoltavo la sua colonna sonora”.

Sul lavoro con le immagini e sulle rappresentazione del satanismo, Amenabar ha confessato di amare i cliché e di volerci giocare nel film in maniera esperta è consapevole: “Mi piace utilizzare i cliché. Per quello che riguarda il diavolo e il satanismo abbiamo delle immagini che ci collegano a quello. Queste cose si alimentano a vicenda, l’immaginazione trae le immagini dalla realtà e dai film che abbiamo visto, il cinema a sua volta trae riferimenti dall’immaginazione”.

Sull’atmosfera uggiosa e piovosa del film: “Per il film era importantissima la scenografia e l’atmosfera. Volevamo un posto buio e fosco. Non è stato facile perché Toronto, dove abbiamo girato, è una città dove splende il sole, come Roma, ma era davvero importante che fosse un po’ oscura”.

Regression racconta anche, forse soprattutto, della capacità, o meglio, della tendenza umana a commettere errori, dell’impossibilitá di essere sempre nel giusto. “Penso che tutti dobbiamo contemplare l’idea di fare sbagli, perché così impariamo – ha dichiarato il regista – Fanno parte della nostra natura. Quando ci rendiamo conto dell’errore ci può essere un attimo di smarrimento. È come un’equazione matematica sbagliata che rifai in continuazione ma non trovi il risultato. Basta aggiustare una piccola cosa all’inizio è tutto torna. Per quello che riguarda me, quando ho cominciato volevo che la troupe mi rispettasse e mi dovevo mostrare duro e sicuro di me, mai in errore. Ora mi comporto nella maniera opposta, preferisco lavorare con persone che mi sfidano, soprattutto con gli attori. Preferisco persone che mi mostrano che posso sbagliare e dove sbaglio, che mi sfidano e che si confrontano”.

Lo stile del film ricalca vagamente i fil anni ’70.

“Il film guarda indietro, in termini di stile, agli anni 70. I riferimenti sono stati Tutti gli uomini del presidente, Il maratoneta. Abbiamo pensato di fare qualcosa senza molto movimento, con meno musica sarebbe stato proprio un film di quegli anni, ma oggi la musica si usa di più”.

Tracciare il confine tra ciò che fa realmente paura e ciò che è nella nostra testa. In questo momento storico è importante?

“Quando ho incontrato Ethan (Hawke, il protagonista, ndr), ha detto che i film horror non gli piacciono perché non gli piCe l’idea di spaventare le persone. Io non sono d’accordo perché anche se mi spavento facilmente, soprattutto quando ero piccolo, mi piace l’idea di essere spaventato al cinema. A Ethan del film piaceva proprio che alla fine noi smantelliamo il meccanismo della paura. Penso anche che bisogna lavorare con la parte razionale e con quella fantastica, con la paura, con la parte irrazionale. Sono molto razionale ma devo anche avere una mente aperta. Mi sono reso conto che negli ultimi film quello che affronto sempre è il concetto di credere o meno a qualcosa. Un’altra cosa che mi colpisce molto non è la nostra capacità di ingannare ma la nostra volontà di credere”.

Il film si chiude con l’immagine di una prigione e si sposta poi verso il mare, con un’inquadratura a un cielo nuvoloso ma luminoso, con il sole all’orizzonte. Ecco come ha commentato il regista: “Mi piaceva l’idea che la prigione si affacciasse sul mare, l’ultima immagine che si vede è proprio quella del mare che è anche l’ultima inquadratura di Mare Dentro. Dà una sensazione di sollievo perché alla fine fuori splende il sole”.

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