Ischia Film Festival: Claudio Casazza racconta Un altro me

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Selezionato nella quindicesima edizione dell’ Ischia Film Festival, Un altro me di Claudio Casazza è un documentario importante, impietoso nella sua onestà, eppure ricco di una umanità perduta e distante, lontana dai canoni del perbenismo e della morale comune. Un’umanità vibrante e scomoda che freme per farsi raccontare, nonostante la facciata di indifferenza.

 

Un altro me è un viaggio all’interno della struttura carceraria di Bollate. Casazza spiega: “Ho deciso di seguire un anno intero di lavoro tra l’equipe dell’Unità di Trattamento Intensificato per Autori di Reato Sessuale del CIPM e i detenuti “abitando” i luoghi delle riprese e girando con una troupe minima che non interferisse con quanto accadeva.”

Ma il progetto nasce per caso, a seguito di un invito del criminologo Paolo Giulini presso il carcere dove svolge questo percorso con i detenuti: “A questo incontro mi accorgo che c’era tanta umanità e un’importante bagaglio da raccontare, con tante contraddizioni in cui si discuteva di questioni molto spinose. L’idea è stata quella di raccontare il percorso più che il tema vero e proprio della violenza; e così ho provato a raccontare queste persone che provavano a confrontarsi con il proprio reato con l’aiuto e l’assistenza di psicologi criminologi.“

Come spiega il regista, ospite al Festival di Ischia dove ha presentato il film, il titolo della pellicola, Un altro me, ha una doppia valenza: “Un altro me è il detenuto che cerca una versione migliore di sé ma dall’altra parte c’è la società che dovrebbe provare a vedere l’altro in maniera diversa, per evitare che rimanga loro appiccicato il bollino del mostro.”

Da un punto di vista tecnico, il documentario ci mostra sempre i detenuti sfocati, in inquadrature che tagliano la loro figura, non li vediamo mai in viso: “Il film è girato con i protagonisti in fuori fuoco e per me significa da una parte la mancanza di una centratura che queste persone cercano di recuperare, e dall’altra c’è ancora l’occhio di chi guarda, di noi spettatori e società, che non ci sforziamo di vedere dall’altra parte dei componenti della società.”

Le conversazioni raccolte nel film sono eterogenee, non raccontano una storia specifica. Emergono le varie esperienze, ma il tentativo di Casazza è quello di diversificare l’estrazione sociale, le età, la ricchezza e la cultura dei detenuti coinvolti nel montaggio finale. “Raccontare soltanto una storia vorrebbe dire marchiare la persona che racconta il suo reato: sarebbe come scegliere un esempio, che può essere significativo, efferato, delirante, lo identifichiamo in quanto tale. Invece il lavoro che viene fatto è di diversa natura. Nella terapia e nel mio documentario abbiamo cercato di raccontare più le conseguenze che le cause.”

Su 200 ore di materiale girato, senza l’intenzione di raccontare una storia specifica, che criterio si adotta per il montaggio finale?

“Abbiamo fatto un grande lavoro di scrittura post-film. Prima delle riprese non abbiamo scritto nulla perché si trattava solo di osservazione, giorno per giorno, con cadenza settimanale. Circa 50 giorni all’anno. Alla fine il montaggio è cronologico in base ai racconti ma il primo criterio che ho utilizzato è stato quello della presa di coscienza. Da quei detenuti che rifiutano il reato con le solita scusanti a quelli che man mano prendono coscienza e riconoscono la loro colpa. Questo stadio si raggiunge soprattutto guardando e ascoltando gli altri detenuti, i loro reati. Alla fine si raggiunge la visione della vittima e la consapevolezza che il proprio reato ha avuto conseguenze su qualcuno. L’ultima parte è tutta sul futuro e sul cosa aspettarsi nel post carcere e dopo essere usciti. Alla fine le storie che ci vengono raccontate sono quattro o cinque con un campione rappresentativo di diverse fasce d’età. L’ultima versione è di un’ora e 23 minuti.”

Ma che responsabilità si sente a provare a restituire dignità a soggetti che la morale comune ci impone di considerare, forse a ragione, mostri?

“Personalmente penso che tutti siamo essere umani. Quello che fanno i criminologi, in termini tecnici, è tentare di restituirli ‘al campo degli umani’, solo in questo modo molto probabilmente queste persone non incorreranno nello stesso reato e solo così la società intera può trarre giovamento. Si lavora su queste persone perché si prova a restituirle alla società senza che riprendano il reato. E questo dovrebbe essere il compito di tutti i carceri: non solo strutture di detenzione ma di recupero e riabilitazione. Altrimenti la sola punizione non è correttiva.”

Che vita sta avendo questo documentario?

“È partito dal Festival dei Popoli, il 25 novembre scorso, che è il giorno dedicato alla violenza sulle donne. Poi siamo stati al Trieste Film Festival, il Festival del Cinema Europeo, adesso è all’Ischia Film Festival. È uscito ad Aprile e abbiamo fatto molte proiezioni in tutta Italia. Il film cresce e continua ad essere visto.”

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