Si presenta nella piccola sala del Palazzo delle Esposizioni avvolto in una giacca scura e una sgargiante camicia verde che spunta dal colletto: è Michael Mann, noto e molto apprezzato regista di molti capolavori del cinema contemporaneo, da Heath – La Sfida, a Collateral. In occasione dell’attesissimo Nemico Pubblico, in Italia il 6 novembre, Mann ha incontrato la stampa e ha spiegato le ragioni del suo eroe: “Abbiamo considerato in primo luogo la leggenda di Dillinger, il suo mito. Poi ho scelto di metterne a fuoco la vita reale, le passioni che muovevano l’uomo, al di là dei generi cinematografici e degli stereotipi del personaggio. Si è tentato di mostrare un uomo che aveva raggiunto l’eccellenza in un arte particolare: quella delle rapine alle banche. Ho provato a mostrare la sua rinascita dopo un lungo periodo di reclusione. Che decide di fare? Che strada intende seguire? Vuole recuperare il tempo perso.” Mann ha esposto l’hic et nunc della vita del gangster, la sua mancanza di prospettiva futura, ma allo stesso tempo il profondo carisma del personaggio, e al suo fianco “una gang nichilista, feroce che corre senza la voglia di raggiungere un traguardo.”
– Jhonny Deep interpreta un
Dillinger che si atteggia a star, come le figure iconiche dei
criminali di quell’epoca, crudele, anarchico e drammatico. E’ anche
il primo film in cui viene mostrata la sua morte, e lui è morto
davvero all’uscita del cinema.
E’ proprio così. Era il secondo volto più famoso d’America, secondo
solo al Presidente, voleva essere amato e sapeva manipolare
l’opinione pubblica, si sentiva messo al sicuro dalla sua fama e
usciva in pubblico senza problemi. Il suo atteggiamento ha dato
origine ai grandi personaggi hollywoodiani, lo stesso Gable si
riferisce a lui quando interpreta un gangster, e per Dillinger è
vedersi sullo schermo.
– Il personaggio si trova in mezzo a due realtà
emergenti, quella della polizia federale e quella del crimine
organizzato. In che posizione il suo Dillinger si colloca rispetto
alle dinamiche sociali nel mezzo delle quali si trova?
Si tratta di un conflitto a tre, egli è fuori dal suo tempo e in
conflitto con tutti. Si struttura adesso la polizia federale (FBI)
e allo stesso tempo le associazioni criminali si organizzavano
investendo il patrimonio ereditato da Al Capone. Dillinger sta in
mezzo e da fastidio ad entrambe le parti.
– Come ha diretto Jhonny Deep? Le facce dei suoi attori sembrano
quelle degli anni ’30.
Sono molto grato a Jhonny, è riuscito a mostrare il suo aspetto
oscuro che lo accomuna a quello che era Dillinger. Lui non recita
più, diventa proprio il personaggio che vive quelle emozioni
terribili. Marion invece ha quel quid che le consente di entrare
nel personaggio, ha vinto un Oscar ma è una ragazza semplicissima,
è riuscita a gestire l’accento francese. E’ stata fantastica.
– La stampa dice di lei che talvolta è troppo pignolo. E’
d’accordo?
Assolutamente no (ride). E’ un’esagerazione, semplicemente so ciò
che voglio e riesco a capire bene quello che è necessario e quello
che invece non lo è.
– Per quale motivo lei si affida sempre al
digitale?
E’ per me una piattaforma sulla quale si può operare almeno 8 o 9
volte di più rispetto alle possibilità che offre la pellicola.
– In Italia amiamo molto L’Ultimo dei Moicani. Se
rifacesse oggi quel film cambierebbe qualcosa?
Sto lavorando adesso al re-editing di quel film, l’ho rivisto da
poco e mi sono reso conto che ora darei maggiore drammaticità a
determinati aspetti, come la piccolezza dell’uomo di fronte alla
natura. E’ cambiato tanto anche il mio modo di affrontare la scena,
prima la presentavo, scendendo successivamente nel dettaglio,
adesso preferisco tuffarmi nella scena direttamente. Anche se non
amo i sequel, per cui non credo di rigirare nulla che ho già
fatto.
In sala non sono mancati anche gli ospiti illustri, come Muccino e Salvatores, entrambi ammirati dal loro collega d’oltreoceano. E proprio Salvatores che in comune con Mann ha un direttore della fotografia, Spinotti, e l’uso del digitale, ha chiesto chiarimenti tecnici all’autore di Miami Vice. “Per il mio approccio al digitale- ha risposto Mann – io preferisco agire in macchina, c’è chi invece come Fincher che lavora in post produzione. Non faccio prove girate, lavoro molto con gli attori per la costruzione del personaggio, ma quando si gira sul set loro mantengono sempre una certa naturalezza.”
Alla fine Michael non ha più la giacca scura, la sua camicia verde spicca sul fondo grigio della sala, e il suo sorriso è generoso verso i fan che prima timidamente poi con più entusiasmo si accalcano intorno a lui.
L’incontro è stato promosso dalla Fondazione Cinema per Roma e dalla Universal Pictures.