Dopo il complesso e ambizioso Midsommar, che guardava al linguaggio del folk – horror riadattandone i criteri, Ari Aster si presenta, completamente a briglia sciolta, con il suo terzo film, Beau ha paura, in sala dal 27 aprile distribuito da I Wonder Pictures.
Accompagnato da uno sciame di critiche negative, il film con protagonista un attonito e impaurito Joaquin Phoenix non arriva nelle nostre sale con la migliore delle presentazioni, e probabilmente già soltanto la durata del film, tre ore, basterà a scoraggiare gli spettatori, a meno che non siano proprio estimatori del regista di Hereditary.
E non sarebbe poi una scelta tanto sbagliata andare a vedere il terzo film di quel regista che tanto ha fatto parlare bene di sé e che, insieme a Robert Eggers e Jordan Peele, ha dato una spinta d’autore al genere horror, con molte declinazioni e punti di vista personali. Tuttavia, Beau ha paura non si muove dentro gli argini di un genere soltanto, rivelandosi più una Odissea sotto allucinogeni, una specie di film d’avventura, un road movie a piedi (scalzi) in cui il protagonista si perde dentro le sue stesse paranoie.
Beau ha paura, la trama
E in fondo il film è questo: il racconto della vita di un uomo paranoico, dentro la sua stessa testa. Beau ha paura di ogni cosa, sembra avere una vita normale che gestisce con una immensa fatica, ma, con l’approssimarsi dell’anniversario della morte del padre, deve intraprendere un viaggio per raggiungere la casa della madre, che lui ama e teme in egual misura. Questo viaggio obbligato lo spingerà a interrompere la sua routine e a mettersi in gioco in un mondo che, in ogni sua singola manifestazione, lo atterrisce.
Una progressiva discesa nella mente di Beau
Mentre nella prima parte ci vengono dati strumenti e coordinate per capire cosa stiamo guardando, con tutte le esagerazioni, le paure, gli inseguimenti, i ritmi incalzanti e, appunto, le paranoie che sono solo nella testa di Beau, nella parte centrale il film deraglia in una fiaba, una passeggiata in un bosco esistenziale in cui moltissime contaminazioni narrative si influenzano e si mescolano, sfilacciando non solo la forma del racconto, ma anche quella del linguaggio che si contamina con segmenti animati. Se dal punto di vista linguistico e visivo siano quindi di fronte a una forma se non nuova almeno interessante, dal punto di vista narrativo siamo già completamente persi nella mente di Beau, e vengono meno tutte quelle coordinate che avevamo acquisito nella prima parte del film.
Sembra che Aster guardi al cinema di Charlie Kaufman, provando a mettere in scena situazioni surreali e bizzarre che trovano un’eco nel cinema del cineasta newyorkese, là dove in Kaufman però c’è una maggiore consapevolezza dei limiti e forse anche della potenza del racconto, oltre che una costante e innata dolcezza. Aster invece perde il senso della misura, e così abbonda, aggiunge situazioni, senza procedere organicamente con il racconto ma sovrapponendo suggestioni le une sulle altre, scivolando sempre di più in un mondo che non è più solo la rappresentazione delle paure di Beau, ma è un delirio di input, colorato e senza forma.
Il confronto con il “mostro” finale
Nel terzo atto, poi, ci
confrontiamo direttamente con ciò di cui Beau ha veramente paura.
Tra complessi freudiani, inibizioni sessuali, incomprensioni e
traumi, la paura più grande del protagonista si rivela essere
proprio quella madre, il mostro di fine livello, dalla quale, per
tutto il film, tenta di tornare, ma dal cui è irrimediabilmente
spaventato. In questo rapporto così contraddittorio con una madre
manipolatrice e effettivamente spaventosa Beau può trovare un punto
di contatto con il pubblico, tra cui ci saranno sicuramente persone
con un rapporto complicato con la figura materna. Ma ovviamente lui
è un paranoico, e quindi tutto viene esagerato, esasperato,
addizionato, sovrapponendo strati di significato su strati di
metafora, con il risultato che, alla fine, lo spettatore risulta
stordito e sfiancato dal fiume in piena dei pensieri di Ari
Aster, che, dal canto suo, sembra estremamente compiaciuto del
proprio lavoro, senza risparmiarsi niente, neppure la più piccola
idea bizzarra, che sia un gemello cattivo o un mostro/padre
rinchiuso in soffitta.
Un racconto a briglia sciolta
La sensazione è che, fuori dal linguaggio di genere, Ari Aster abbia perso le briglie del suo stesso racconto, dando libero sfogo al suo immaginario e così auto-sabotandosi, senza una macchina filmica che gli abbia offerto sponde e limiti per razionalizzare al meglio la sua idea che comunque è intrigante, ma disordinatamente realizzata. Ma forse lo spirito di Beau ha paura è proprio questo: la paura è irrazionale e incontrollata, non ammette ragionevolezza né limiti di azione, a maggior ragione se si annida dentro la testa di un paranoico che ha avuto paura di tutto dal momento in cui è nato, ancora prima di emettere il primo vagito.
Un enorme contenitore di idee
Più che un film ambizioso, come spesso si legge, Beau ha paura è un film contenitore, in cui Ari Aster ha riversato, senza riguardo per nulla e nessuno, idee, traumi, sensazioni, situazioni e forse anche paure personali.
È un film squilibrato, un flusso di coscienza per immagini senza però la profondità e il bisogno di riflessione e confronto che ha una vera coscienza quando si mette a nudo sullo schermo. Beau ha paura è delirio cinematografico, addizione di suggestioni e incontrollata glorificazione del proprio ego. Sicuramente si tratta di una visione ostica e per niente rassicurante, ma forse era giusto aspettarsi qualcosa del genere da Aster, perché il cinema non deve sempre per forza essere organico e rassicurante.