Marco
Risi, dopo aver affrontato i più disparati territori
cinematografici torna ad esplorare la commedia- dopo le sue
incursioni in salsa pulp negli anni ’90,
ricordiamo L’ultimo
Capodanno- realizzando
l’equilibrato Tre Tocchi.
Il titolo fa riferimento
al gergo calcistico, lo sport che accomuna i sei protagonisti della
pellicola. L’altro fil rouge che li unisce e la
recitazione: tutti cercando di sfondare in qualche modo, senza
farsi sopraffare dalle delusioni, dalla rabbia, dalla tristezza e
dalle angherie della vita stessa. Sulla scena si muovono Gilles, il
bello da fotoromanzo, bello e amato dal pubblico delle ragazzine
urlanti, che copre dietro la sua spavalderia delle insicurezze
talmente profonde che lo spingono a cadere nel baratro della
cocaina e nelle cattive frequentazioni; c’è Vincenzo, che cova
all’interno di sé una rabbia ed un dolore sordo dovuti alla
malattia del padre e alle delusioni professionali, che lo portano a
sfogarsi attraverso il sesso e una brutalità immotivata; Leandro,
il più grande del gruppo, torna dopo anni nella sua Napoli, dalla
quale era scappato per evitare un passato oscuro che continua a
perseguitarlo, ma dal quale cerca di affrancarsi; lo stesso accade
per Max, frustrato per via di una carriera bloccata dopo un buon
inizio, che torna nella sua terra- la Basilicata- e non sa se
cedere al dilemma morale di sposare la ricca figlia di un
albergatore; infine ci sono Antonio ed Emiliano: il primo è un
giovane attore appena uscito dall’Accademia, uno che si sta
affermando a teatro anche grazie alla frequentazione con un’anziana
attrice più grande di lui, in cerca del ruolo della sua vita;
l’altro, forse, è il vero perdente del gruppo, l’unico che cede a
piccole lusinghe e compromessi per rimanere sulla cresta dell’onda
del patinato mondo dello spettacolo.
La storia che Risi sceglie di
raccontare contiene in sé degli spunti interessanti, a partire
dalla pluralità del racconto: sei storie che si intersecano tra
loro, sfiorandosi senza mai incontrarsi definitivamente, con
l’unico filo conduttore del gioco più amato dagli italiani, il
calcio. Interessante è anche la scelta di utilizzare una narrazione
meta- cinematografica: raccontare il cinema attraverso l’occhio
indiscreto del cinema, che segue silenziosamente le vicende dei
personaggi spiandoli, come un voyeur. Ma queste
ottime premesse di partenza vengono vanificate nel corso della
narrazione: i protagonisti, sulle cui spalle dovrebbe reggersi il
peso del film, non hanno una forza- e una presenza- tali e
rimangono vittime del controsenso logico supremo per un film del
genere: si vede che stanno recitando una parte, seguendo
pedissequamente un copione. La trama non è forte abbastanza da
reggere al peso della coralità, e crolla inesorabilmente come un
castello di carte spinto dal vento. I personaggi, invece di essere
costruiti in un modo complesso o sfaccettato, si appiattiscono
inesorabilmente sui cliché del genere senza mostrare uno sprazzo di
originalità. L a parata di star e starlette in ruoli minori
distoglie solo l’attenzione dello spettatore dalla labile
storia.
Ludovica Ottaviano è laureata con
lode in Editoria e Scrittura – Forme e Modelli del Cinema Italiano
all’Università La Sapienza di Roma, con una tesi sul road movie
nell’immaginario cinematografico italiano. Ha conseguito con lode
anche la laurea triennale in Arti e Scienze dello Spettacolo,
maturando competenze in critica, giornalismo e editoria.