La Faida: recensione del film di Joshua Marston

La Faida

Il regista Joshua Marston ha un debole per le ragazzine “con gli attributi”. È un debole spontaneo, un’inclinazione naturale che lo spinge a indagare nel mondo di piccole donne che conservano la loro dolcezza e la loro grazia anche se coinvolte in situazioni drammatiche. Nella sinossi della La faida, l’ultimo film da lui diretto, vincitore dell’Orso d’Argento per la sceneggiatura a Berlino, è scritto che il protagonista è il diciassettenne Nick, interpretato da Tristan Halilaj. In realtà in questa storia che si svolge nella campagna albanese e che documenta le fasi di un violento conflitto tra due famiglie, emerge ancora una volta, così come nel precedente Maria full of grace, un intenso ritratto femminile, quello di Rudina; brillante e intelligente sorella di Nick che si trova costretta a subire le leggi idiote e assurde di un mondo dominato dagli uomini.

 

Se la colombiana Maria, nella precedente pellicola, aveva il compito di ingerire ovuli di cocaina per portarli da un capo all’altro del mondo, anche a Rudina tocca trasportare e vendere pane e sigarette per assicurare la sopravvivenza alla sua famiglia. Così come la protagonista del primo film, inoltre, la ragazzina albanese, interpretata dalla sedicenne Sindi Laçej, capisce di essere vittima di un meccanismo assurdo e non voluto da lei, ma dimostra una forza silenziosa e conserva sempre la speranza di poter dare una svolta al suo futuro.

Con La faida, prodotto da Portobello production e Fandango, Marston e lo sceneggiatore Andamion Murataj ci mostrano un mondo rurale in cui l’invasione dei moderni mezzi di comunicazione, telefonini e social network, stride con l’atmosfera arcaica di una società ancora basata sul patriarcato e su codici ormai annullati “legalmente” ma diventati ferree regole non scritte. Come il delitto d’onore in Italia, anche le note del Kanun furono infatti messe al bando dal regime comunista di Hoxha, durato circa 40 anni. Dal 2000 circa molti albanesi sono però tornati a farsi giustizia da soli, convinti che lo Stato non faccia abbastanza per punire i colpevoli. Marston dimostra così ancora una volta, di interessarsi a questioni conosciute solo per chi le vive sulla propria pelle e che non hanno eco in altre parti del mondo; e lo fa costruendo un film in cui lo stile documentaristico si alterna ad un gusto per l’inquadratura che fa assomigliare molti paesaggi della campagna albanese a quelli ritratti da Cézanne o Fattori. D’impatto anche la recitazione degli interpreti, tutti non professionisti, e in particolare la resa del rapporto che Nick stabilisce con la sua stessa casa. Un tempo sereno e pieno di vita e interessi, il ragazzo in cattività considera la sua dimora una gabbia e inizia a deturparne mura e pavimenti quasi senza rendersene conto.

Pur non riuscendo a raggiungere la tensione ed il pathos che contraddistinguono certe sequenze di Maria full of grace, La faida mantiene sicuramente alto il profilo di Jushua Marston, il cineasta “metà regista e metà antropologo”.

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