
Fin dai suoi primi film la ricerca espressiva balza immediatamente alla ribalta creando uno stile inconfondibile ed unico, forse difficile da penetrare da parte di un pubblico “normale”, ma deliziosamente invitante per chi decide di farsi trascinare dai giochi enciclopedici e metaforici del filmmaker gallese. La sua nuova fatica cinematografica “Goltzius and The Pelican Company” è il degno coronamento di decenni di sperimentazioni e sicuramente il punto di partenza per nuove strade da percorrere.

Il film racconta un episodio della vita di Hendrik Goltzius, incisore, stampatore ed editore, contemporaneo di Rembrandt, che è in viaggio verso l’Italia assieme alla compagnia teatrale del Pellicano. Sulla strada decide di fermarsi in Alsazia, ospite del margravio locale, un laido individuo che oltre a governare e a defecare in pubblico, sbucciando mele per le sue scimmie, si diletta di mecenatismo.
Goltzius vorrebbe convincerlo a finanziere la realizzazione dei suoi libri con le storie dell’antico testamento viste in maniera erotica e ambiguamente metaforica, in particolare la storia di Lot e delle sue figlie, di Davide e di Betsabea e di Sansone e Dalila. Il margravio però esita a farsi convincere, così l’incisore gli propone di mettere in scena per lui sei rappresentazioni, una per sera, insieme agli attori della compagnia del Pellicano. Allettato dalla prospettiva di partecipare attivamente in messinscene erotiche il Margravio accetta. Ma la finzione si fonde con la realtà e così prende il via un perfido gioco di sesso, sangue e potere.

Il risultato visivo di “Goltzius and Pelican Company” è a dir poco superbo. La bellezza folgorante delle immagini si fonde con un testo profondo, ma ironico, sovversivo, ma incredibilmente logico, dove con l’innocenza di un fanciullo si dichiara che in fondo la parola God (Dio) atro non è che la parola cane (Dog) letta a contrario, oppure che il detto “una mela al giorno toglie il medico di torno” sia una conseguenza di quanto avvenuto con Adamo ed Eva. Il tutto giocato in una ammiccante ambiguità tra teatrale e reale, tra messinscena e gioco di ruolo, che permette di fare quello che altrimenti non sarebbe lecito, o meglio dignitoso. I personaggi si mascherano, pur rimanendo perfettamente riconoscibili, e sotto questo effimera anonimato, si abbandonano ai desideri più morbosi e agli atti più efferati. Ma il gioco sembra sfuggire loro di mano. E quando il labile copione viene sconvolto con l’inserimento forzato di una storia dal nuovo testamento, quella di Salomè e Giovanni Battista, gli stessi protagonisti sembrano subire una tragica crisi di identità, non distinguendo più i confini della rappresentazione.
La tecnologia digitale è di valido supporto alla pittura su schermo di Peter Greenaway che riesce a sviluppare le ricerche visive iniziate con il suo ormai lontano “Prospero’s Books” (L’ultima Tempesta) del 1991, che accostato a questa nuova opera appare oggi quasi un taccuino di schizzi.
Ma le sue sperimentazioni partono da molto prima, anche in tempi non sospetti, quando l’uso di tecnologie di manipolazione dell’immagine era ancora da considerarsi fantascienza. Come non pensare ad una delle scene chiave di “The Belly of an Architect” (Il ventre dell’architetto) del 1987, dove il protagonista scopre di essere stato seguito e fotografato dalla sua amante per mesi durante la sua permanenza a Roma. In tale scena la storia del film è condensata in pochi secondi attraverso una serie di collage fotografici reali, montati in una successione di piccoli carrelli laterali sottolineati dalla splendida musica di Wim Mertens; sembra quasi una dichiarazione d’intenti, in attesa di una tecnologia adeguata che permetta di manipolare il materiale filmico.
C’è da dire inoltre che le sperimentazioni di Greenaway iniziano molto prima, con le sue prime opere come “The Falls” del 1980 o “Vertical Feature Remake” del 1978, dove i suoi disegni, la sua pittura, le sue fotografie si integrano con materiale filmico assumendo una nuova identità espressiva.
In “Goltzius and Pelican Company” il compositing si fa complesso, multistratificato, con intarsi estremamente complessi e green-screen al servizio dell’arte espressiva e non degli effetti spettacolari. Come in “Prospero’ books” , in “Pillow’s Books” e in “Tulse Luper Suitecases”, l’immagine nell’immagine rompe il concetto di montaggio tradizionale a stacco e sovverte le regole legate alla continuità temporale, proponendo simultaneamente diverse viste della stessa rappresentazione. Lo spazio esplode, si disintegra e si ricompone digitalmente in un collage visivamente esaustivo, che sembra seguire contemporaneamente gli enunciati delle principali avanguardie artistiche storiche del novecento.

Goltzius, Rembrandt e tutta una folta schiera di artisti citati esplicitamente o negli stupefacenti giochi di collages digitali esprimono la loro arte avendo a disposizione una tavolozza tecnologica che ai loro tempi non sarebbe stata minimamente pensabile. E infatti Greenaway apre il suo film con una breve disquisizione proprio sull’evoluzione delle tecniche e delle tecnologie espressive.
Anche la scelta delle ottiche subisce un evoluzione sostanziale. Fino a questo momento Greenaway prediligeva ottiche medie che restituissero una esatta percezione di quanto inquadrato e senza forzature prospettiche. Ma in “Goltzius and Pelican Company” la visione si allarga, le ottiche divengono sempre più corte, fino ad esibire delle splendide riprese in fish-eye, quasi a voler sottolineare con tale scelta l’aspetto voyeristico delle rappresentazioni.

Le splendide musiche dell’italiano Marco Robino, insieme al suo gruppo “Gli Architorti”, accompagnano egregiamente questa messinscena di sapore elisabettiano ibridata con le atmosfere di Brecht e Weill.


