Questa mattina è stato presentato al Festival di Roma 2014 il film Phoenix di Christian Petzold, in concorso nella sezione Gala. Alla conferenza stampa ha partecipato il regista del film.
Quali sono quindi le fonti
su cui si è basato per la realizzazione del film?
Christian Petzold: È incredibile ma non ci sono
molti documenti su chi è sopravvissuto ai campi di concentramento
ed è poi tornato a casa, fondamentalmente perché non hanno più
trovato una casa a cui tornare. Il racconto del ritorno è
fondamentale nella storia dell’uomo, basti pensare all’Odissea, ma
dopo il 1945 in Germania nessuno ha scritto o raccontato questa
storia. Mi interessava, per esempio, la storia di Primo
Levi, uno dei pochi sopravvissuti ad aver scritto della
sua esperienza nei lager e il suo ritorno, eppure nessuno si è
ancora occupato della sua storia. Io e Harun Farocki volevamo
riempire questo vuoto nella storia della Germania.
Il grande regista Harun
Farocki ci ha lasciato da poco, cosa ricorda principalmente di
lui?
G.P.: Ho sempre considerato Harun un grande
maestro e il mio migliore amico, insieme a lui ho scritto tutti i
miei film. Molti pensavano che, venendo lui dal documentario, si
occupasse della parte tecnica del lavoro lasciando a me il romanzo.
Devo dire invece che è successo tutto all’opposto, lui scriveva e
fantasticava continuamente e io poi dovevo mettere in ordine.
Il film possiede un grande
senso dello spazio tra cinema e teatro. Come ha pensato a questa
messa in scena?
G.P.: Ritengo che il fulcro del film sia la scena
che ha luogo nella cantina. Ciò che mi interessava in particolare
era il corpo di Nina Hoss, le sue reazioni. Ho
condotto il contrasto tra uomo e donna come se fosse un ballo, un
tango, un passo avanti e un passo indietro. Nel girare questa scena
ho impiegato dodici giorni e ho imparato molto sul ruolo dello
sguardo.
Il film ha qualche eco di
Vertigo di Hitchcock. è una mia impressione oppure ha
avuto un ruolo di rilievo?
G.P.: Tutto inizia da un numero della rivista
tedesca Filmkritik dedicato proprio a
Vertigo, dove Harun Farocki aveva scritto
un saggio intitolato Scambio di donne. Nell’articolo, citava il
libro a cui Hitchcock si era ispirato, Le retour de
cendres, di Hubert Monteilhet. Inoltre
Vertigo è il mio film preferito, ma provo odio nei suoi
confronti, a volte nel guardarlo mi viene da vomitare. In un certo
senso, Phoenix è come sarebbe stato Vertigo se fosse stato
girato dal punto di vista di Kim Novak.
La musica ha un ruolo
importante nel film, rappresenta il ritorno del rimosso. Come
ha pensato ad inserirla?
G.P.: Ho sempre visto il cantare insieme come una
sorta di ritorno a casa, ma in un certo senso i tedeschi non hanno
canzoni. Quella da noi utilizzata, composta da Kurt Weil insieme a
Brecht, è stata realizzata durante il suo esilio a Los Angeles, la
canzone è infatti finita in un musical americano, eppure si avverte
che la canzone ha un chiaro senso di nostalgia di casa.
Lei è un gran
cinefilo ha visto dei film con il cast per lavorare a questo
film?
G.P.: Metà del tempo di lavoro l’abbiamo impiegato
a vedere film insieme. Perché quando devi controllare persone
diverse, e conseguire insieme un obiettivo artistico, finisci per
condividere con loro un’identità e un linguaggio. Per questo motivo
ho mostrato numerosi film, come Le catene
della colpa di
Jacques Tourner, perché c’erano delle immagini
particolari che volevo che il cameraman realizzasse, in particolare
un immagine riflessa negli occhi del personaggio, ottenuta
utilizzando solo due luci. Poi La scampagnata di
Jean Renoir ambientato prima
dell’occupazione tedesca. Poi ancora,
Josephine di Jacques
Demy, anch’egli ebreo, che è un film musicale basato
sull’attesa, un film dove si balla contro il fascismo, e spesso
riflettevamo con Farocki sul fatto che non siamo più in grado di
realizzare film del genere. Poi è stato fondamentale l’unico film
da regista di Peter Lorre, Der Verlorene.
L’influenza del noir è fondamentale, soprattutto perché i maggiori
cineasti tedeschi furono costretti a lavorare in America durante il
nazismo, e portarono quindi la luce del noir tedesco in America.
Con Phoenix abbiamo voluto recuperare la luce esiliata del
noir di Berlino.
Nel film è importantissimo
il lavoro sul colore. Come è stato il tuo approccio?
G.P.: Tutti i film sul dopoguerra e di
Fassbinder in particolare sono in bianco e nero o
con colori molto opachi, per indicare che questo tempo non esiste
più. Eppure, nelle mie ricerche sul web e su you tube, sono
incappato in un corto di circa due minuti,
1945 Lost German
Girl, girato dalle truppe di liberazione, dove
vediamo una ragazza che corre verso la macchina da presa, indossa
dei pantaloni militari e una maglia strappata, perché ha subito
numerose violenze sessuali. Questo documento importantissimo è
stato girato con colori molto forti, quasi artificiali, e penso di
essermi principalmente ispirato a loro, e per questo abbiamo optato
per la pellicola, così calda e viva, per sottolineare questa
distanza. Ho poi scoperto che anche David Lynch ha
tratto ispirazione da questo piccolo frammento per il primo
episodio di Twin Peaks, dove vediamo la
ragazza sopravvissuta che cammina sul ponte. Nel mio film il colore
è fondamentale, specialmente il rosso così lucente, che indica come
il colore sia presente, sia lì. E ovviamente tutto questo non
sarebbe stato possibile senza la lezione di Fassbinder.