“What must the king do now? must he submit?
The king shall do it: must he be deposed?
The king shall be contented: must he lose
The name of king?”
(Richard)
Fra il Giubileo di Diamante della Regina e gli imminenti Giochi Olimpici di Londra, nel 2012 il Regno Unito ha di certo trovato un anno dorato. Una ghiotta circostanza per la BBC, rete ammiraglia da sempre abituata a viziare il suo pubblico con prodotti di indiscussa qualità, che per onorare la Nazione ha pensato bene di affidarsi ad uno dei degli autori britannici più conosciuti e amati: complice la recente febbre da Game of Thrones e il leitmotiv della sacralità di una monarchia che ben si intona alle celebrazioni del Regno, l’ambiziosa miniserie The Hollow Crown guarda ai drammi storici della Quadrilogia dell’Enrieide di William Shakespeare (Riccardo II, Enrico IV parte I e parte II, Enrico V) con occhio moderno e assoluta fedeltà, per restituire alle nuove generazioni un’eredità che a dispetto di 400 anni di storia non sembra invecchiata di un giorno.
Ad aprire le danze è stato quindi Riccardo II (Richard II), il dramma che sconvolse più di tutti la regina Elisabetta I Tudor (“I am Richard II, know ye not that?” le sue parole dopo aver assistito allo spettacolo) e che rischiò di far tremare le fondamenta stesse del suo potere, quando il Conte di Essex lo fece mettere in scena per cercare di accendere, senza ottenere però il successo sperato, il malcontento della folla contro la Sovrana.
Chiamato a risolvere la disputa fra il Duca di Norfolk Thomas Mowbray (James Purefoy) e Henry Bolingbroke (Rory Kinnear), figlio del Duca di Lancaster, Re Riccardo II d’Inghilterra (Ben Whishaw) sceglie di bandire entrambi condannando il primo all’esilio a vita e il secondo a 6 anni di lontananza. La decisione si rivelerà però fatale per la corona e per la sua stessa vita: dopo la morte di Giovanni di Gand (Patrick Stewart), primo Duca di Lancaster, Riccardo si appropria infatti di tutti i beni spettanti di diritto a Bolingbroke, spingendolo a ritornare anticipatamente dall’esilio e a combattere per riconquistare terre e titoli; infiammati dall’illegittima destituzione avvenuta ai danni di Bolingbroke, i Pari d’Inghilterra si schierano con quest’ultimo offrendogli tutto il supporto necessario, fino a quando non diviene chiaro allo stesso Riccardo che l’unico modo per riconciliare il paese è rinunciare alla corona, lasciando che Henry Bolingbroke diventi il nuovo re d’Inghilterra col nome di Enrico IV.
Allontanato dai fasti della Corte e lasciato a marcire in una cella della Torre, Riccardo troverà presto la morte grazie ad Aumerle (Tom Hughes), figlio del Duca di York (David Suchet) e un tempo suo grande sostenitore, che sperava così di compiacere la volontà del nuovo sovrano: tuttavia, Enrico IV sconfessa quell’atto che lui stesso aveva desiderato ma mai apertamente voluto, consapevole del fatto che aver usurpato il trono rompendo i voti di un re consacrato da Dio ha aperto nella sua coscienza una ferita destinata a tormentarlo per il resto dei suoi giorni.
Senza il supporto di spettacolari battaglie e con una domanda di attenzione di ben 2 ore e 40 minuti, Riccardo II era forse l’opera più impegnativa e faticosa dell’intero progetto, ponendo una scommessa che Rupert Goold, regista teatrale dal lungo e alquanto shakespeariano curriculum, ha vinto puntando sulla classe e la grazia dei suoi straordinari interpreti: nell’affrontare la delicata transizione dal palcoscenico al piccolo schermo l’allestimento preserva intatta la sua inevitabile e rischiosa teatralità , cucendo la camera addosso agli attori e supportandoli con scenografie essenziali, ma nei rari momenti in cui riprese sono lasciate libere di respirare è un unica Prima Donna a diventare protagonista: l’Inghilterra, consacrata dalle parole di Giovanni di Gand come isola scettrata e terra di maestà, Paradiso e fortezza naturale (“This royal throne of Kings, this sceptred isle, This earth of majesty, this seat of Mars, This other Eden, demi-paradise, This fortress built by Nature for herself Against infection and the hand of war, This happy breed of men, this little world, This precious stone set in the silver sea, Which serves it in the office of a wall Or as a moat defensive to a house, Against the envy of less happier lands,– This blessed plot, this earth, this realm, this England.”), pietra preziosa che risplende in tutta la sua bellezza per dire addio ad un cupo ed esiliato Henry Bolingbroke (“Though banished, yet a true-born Englishman”) prima e accogliere poi, in un campo lunghissimo e meravigliosamente eccessivo, Re Riccardo al suo approdo sulla costa.
Incoronato re all’età di dieci anni e del tutto assorbito dalla divinità associata al suo sacro ufficio, il Riccardo II di Ben Whishaw è una creatura ambigua e affascinante: assiso sul suo trono dorato e separato dai comuni mortali grazie a un’impenetrabile e invisibile barriera, per aver osato credersi al di sopra della legge vedrà punito il suo atto d’orgoglio come tutti i tiranni della storia: la sua è una condanna a un decadimento lento e graduale, lo sgretolarsi di un equilibrio che Dio in persona avrebbe dovuto onorare e che invece lo vede trasformarsi in un vero e proprio martire; infranti tutti i giuramenti e coperto dal fango dell’umiliazione (“With mine own hands I give away my crown, With mine own tongue deny my sacred state,With mine own breath release all duty’s rites”) il sipario cala su Riccardo con una morte che lo vede, quasi come in una rappresentazione di Cristo in croce o del martirio di San Sebastiano (il riferimento iconografico è palese), trafitto nel sangue come un qualsiasi mortale.
Nell’interpretazione di un ottimo Rory Kinnear, l’usurpatore Bolingbroke è l’uomo politico e moderno che con la sola forza di una giusta causa riesce a ottenere il consenso popolare e ad acquistare, contro ogni previsione e con sguardo sinceramente stupito, molto di più di quanto si aspettasse: difficile non tifare per il “team Lancaster” dopo aver ascoltato il famoso “sceptred isle speech” da un magnetico Patrick Stewart, che nel ruolo del vecchio Giovanni di Gand ci regala il ritratto di un padre devoto all’onore e alla nobiltà del figlio fino alla fine, ma soprattutto di uomo innamorato di una Patria ormai compromessa dall’avidità di un sovrano di cui il Duca profetizza la caduta imminente.
Difficilmente dimenticabili anche le performance di David Suchet e di uno sgradevole David Morrissey: il primo, conosciuto ai più come il Detective Poirot nella serie televisiva tratta dai romanzi di Agatha Christie, è gigantesco nei panni del Duca di York, combattuto fra la lealtà alla corona e l’ingiustizia dell’affronto subito da Bolingbroke e costantemente preoccupato per le intemperanze del giovane figlio Aumerle, prima sostenitore di Richard e poi suo brutale assassino; Morrissey, nel ruolo del Duca di Northumberland, interpreta ancora una volta un traditore (era stato un subdolo Duca di Norfolk ne “l’altra donna del re”), ma solo per indossare la sua maschera alla perfezione.
Dopo la deposizione di Riccardo e con l’ascesa al trono del ramo Lancaster adesso è il turno di Enrico IV ed Enrico V, ma non c’è dubbio che The Hollow Crown sia già diventata un’altra perla rara nella prestigiosa collezione della BBC.