La distruzione, quindi, come la
creazione, è uno dei mandati della natura
(Sade, La filosofia del Boudoir)
Il fatto che esistano dei bisogni
sessuali negli esseri umani e negli animali è spiegato in biologia
con la assunzione di un «istinto sessuale», per analogia con
l’istinto di nutrizione (nel caso della fame). Il linguaggio d’ogni
giorno, per quanto concerne i bisogni sessuali, non possiede una
parola che corrisponda a «fame», mentre la scienza fa uso, a questo
proposito, del termine «libido».
(Freud, Le aberrazioni sessuali)
“La borghesia non può più in alcun
modo liberarsi della propria sorte […] e […] qualunque cosa un
borghese faccia, sbaglia”
(Pasolini, Teorema)
Escono a distanza di poco tempo,
1974 e 1975, forse i due film in assoluto più estremi che la
storia cinematografica del nostro paese abbia mai visto.
Si tratta di La grande abbuffata di Marco Ferreri e Salò o le 120
giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini.
Molto spesso parte della critica ha accostato questi film per i
loro tratti in comune.
Se indubbiamente i due film presentano aspetti simili in certe
situazioni rappresentate, nei temi e negli assunti che li
muovono, diverse sono invece sono le premesse ideologiche e
tematiche, nonché gli sviluppi espressivi e le strategie
linguistiche messe in atto dai due autori, entrambi passati alla
storia come provocatori e fustigatori di costumi.
Vediamo brevemente le trame di entrambi i film.
La grande abbuffata. Quattro uomini -un pilota di linea, un giudice, un produttore televisivo, un ristoratore- si chiudono in una villa nei pressi di Parigi al fine uccidersi mangiando oltremisura. A loro si unirà poi una maestra d’asilo. Uno per volta moriranno tutti, mentre la maestra si rinchiuderà nella villa.
Salò o le 120 giornate di Sodoma.
Il film è basato sull’opera del marchese De Sade Le 120 giornate di
Sodoma, ma trasposto nella Repubblica Sociale Italiana.
Quattro signori, rappresentanti altrettanti aspetti del potere
(Eccellenza, Monsignore, Presidente, Duca) si riuniscono in una
villa in compagnia di altrettante meretrici (tre di loro
ecciteranno dei signori mediante racconti, mentre la quarta le
accompagnerà al pianoforte).I signori rapiscono un gruppo di
ragazze e ragazzi tra le brigate partigiane per disporne
crudelmente e indiscriminatamente attuando su di essi atroci
perversioni, seviziandoli e torturandoli. Il regolamento stilato
dai quattro signori proibisce ogni insubordinazione, l’assoluta
obbedienza e le pratiche religiose punibili con la morte, nonché i
coiti tra individui di sesso diverso. Durante l’orgia finale di
sesso e violenza, due giovani collaborazionisti dei signori
improvvisano maldestramente qualche passo di valzer.
Sono evidenti i nodi comuni alle
due pellicole. Entrambe fanno leva sull’eccesso (e infatti il
Monsignore di Salò commenta il crudele regolamento stilato dai
quattro signori con la frase “Tutto è buono quando è eccessivo”).
La prima pone l’accento sugli eccessi alimentari (ma non manca
l’aspetto sessuale, proprio dell’altro film), l’altra sugli eccessi
sessuali (ma non manca l’aspetto del cibo, dominante in quella di
Ferreri). C’è forse un dato ulteriore, che accomuna queste
due opere, ma tale dato è assunto e sviluppato in maniera
differente dai due registi: il loro fondo critico nei confronti di
alcuni aspetti caratteristici della società neocapitalistica, quali
l’edonismo antiumanitario, assoluto e indiscriminato, e
l’altrettanto assoluta opulenza, nonché le perversioni spesso
represse. Benché l’acredine e il piglio provocatorio sia
comune a entrambi i film (e pressoché anche all’intero opus dei due
autori), scrivevo poco più sopra che diversa è invece la modalità
con cui la critica viene messa in atto dai due registi.
La grande abbuffata (di cui Pasolini stesso aveva scritto sulla
rivista “Cinema Nuovo” nel numero di settembre-ottobre 1974,
elogiandone alcuni aspetti e rimproverando invece l’arbitrarietà e
la mancanza di articolazione dei principi metafisici e metaforici
che sembrano aleggiare nel film, già colti da Maurizio Grande) si
presenta, così come altri film del secondo Ferreri (dopo la fase di
“commedie nere” quali La donna scimmia e L’ape regina), quale film
“eventico” o fenomenologico, un po’ come il precedente Dillinger è
morto (1968) o il successivo L’ultima donna (1978).
Non si può dire che in questi film vi sia una trama, intesa in
senso tradizionale, come intreccio dove a un conflitto iniziale
debbano seguire azioni che conducano al suo scioglimento, ma
piuttosto una serie di eventi, atti (più che azioni drammaticamente
dette) interpolati a una situazione di base pressoché priva di
intreccio.
Del resto, quello della trama così intesa è un concetto forse più
proprio di certa letteratura (il romanzo classico), o al limite di
buona parte del teatro (almeno fino a Beckett escluso), mentre non
è necessariamente attributo specifico del cinematografo.
Nel caso specifico di questo film, la situazione di base è presto
detta e potrebbe essere liquidata in due righe: quattro amici
appartenenti alla borghesia medio-alta compiono un quadruplice
pantagruelico suicidio. Tutto il resto di ciò che vediamo nel film,
dalla passione del pilota Marcello per le macchine d’epoca, alle
inclinazioni artistiche del produttore Michel che suona il piano o
improvvisa dei passi di danza, ai siparietti del cuoco Ugo che
imita il Brando de Il padrino, non è che una serie di eventi
accessori a quella situazione di base che segue il suo proprio
clinamen del tutto indisturbata e in maniera inarrestabile, come
inarrestabile è l’orgia gastronomica dei protagonisti. Tali eventi
accessori, del resto, non contraddicono, non ostacolano, ma neppure
accelerano l’iter della situazione di base.
D’altro canto Ferreri non ci lascia spiegazioni palesi del perché i
suoi quattro protagonisti decidano di darsi ad eccessi alimentari
fino a morirne. Probabilmente, non ne abbiamo bisogno. Egli non
voleva fornirci che un apologo, privo di scavo psicologico (e del
resto i personaggi –sempre che a Ferreri interessi ciò che siamo
soliti definire “personaggio”- mantengono i nomi degli attori che
li interpretano: Ugo-Tognazzi; Michel-Piccoli; Philippe-Noiret;
Marcello-Mastroianni; Andreà-Ferreol), dove i protagonisti sono
presentati dapprima come esemplari della borghesia medio-alta,
ritratto ognuno nel suo ambiente personale, grigio, vacuo,
squallido, ed osservati poi nella villa solo nel loro comportamento
(con sguardo eventico, dicevamo), come animali.
Risultano illuminanti a questo proposito le parole del regista:
“Nel mio film il mangiare diventa l’ultima speranza e disperazione
presente davanti agli uomini. Più che dei significati metaforici
particolari ho voluto rappresentare, come davanti allo specchio,
dei personaggi della nostra società: sono stanco dei film sui
sentimenti ed è per questo che ho voluto fare un opera fisiologica.
(…) Ora è tempo di ritornare all’uomo come animale fisiologico. Non
al corpo come realtà edonistica, ma come unica, tragica realtà di
questa vita”.
Ed ecco, non è che il corpo l’unica tragica realtà di questa vita,
allo stesso modo che per gli animali, così per gli uomini:
l’assunto materialista di Ferreri è semplicissimo, tale che non
necessita di spiegazioni logiche, quasi una tautologia.
Ma cosa accade quando è un borghese -ovvero un appartenente a
quella classe che fa dell’autosufficienza, dell’autoconservazione,
dell’integrità morale spesso paralizzante, dell’abbondanza i propri
modus vivendi- a realizzare questa “tragica realtà” del corpo?
Un borghese non può che accostarsi ad essa in maniera
automaticamente perversa, poiché si riappropria del naturale e
delle sue uniche tragiche certezze (il corpo e il suo
sostentamento) in maniera violenta ed eccessiva: egli è un complice
della società dei consumi e della sua cultura (quella delle norme
per il giudice interpretato da Noiret, quella dello spettacolo per
il produttore Piccoli, quella del benessere alimentare e del
successo dei personaggi di Tognazzi e Mastroianni), per cui il
ritorno alla natura e all’animalità fisiologica –che è anche, come
vedremo successivamente, un regressus ad uterum o ad nihil- non può
attuarsi più secondo le norme (borghesi) della autoconservazione,
ma attraverso la pulsione di morte in pieno disprezzo verso il
proprio essere.
Se i protagonisti ferreriani appaiono in certo qual modo come folli
o masochistici latori di un disprezzo antiumanitario, i
quattro signori del film pasoliniano sono inequivocabilmente dei
sadici, mossi anch’essi da disprezzo. La differenza più evidente
tra i quattro protagonisti ferreriani e i quattro signori del film
di Pasolini è che questi ultimi sono uomini di Potere. Ma se
Ferreri, per sua stessa affermazione, non ha voluto tanto
rappresentare dei significati metaforici (quelli che del resto
Pasolini, nel suo articolo su La grande abbuffata, aveva criticato
come inerti e arbitrari perché non compiutamente articolati),
Pasolini invece si serve almeno di due livelli metaforici.
Il primo è quello del sesso inteso come metafora dei rapporti di
potere, come dominio diretto esercitato da alcuni individui sul
corpo di altri (simile in questo, a un altro film maledetto,
anch’esso, come Salò, uscito postumo: Querelle di Fassbinder).
Un sesso non più vissuto –come accadeva nella Trilogia della vita
(Il Decameron, I racconti di Canterbury, Il fiore delle mille e una
notte) in maniera totalmente naturale, sempre gioiosa anche nelle
sue manifestazioni che la nostra cultura tende a demonizzare (il
poeta omosessuale e i tre giovani ne Il fiore delle mille e una
notte, ad esempio), ma esclusivamente come borghese possesso, dove
gli atti sessuali non hanno mai come fine il piacere che da essi
–naturalmente- deriva, ma il piacere che deriva dall’infliggerlo
come crudeltà alle loro vittime. Del resto, la sessualità dei
quattro signori, appare come perversa perché ancora –Freud alla
mano- infantile (anale-escrementizia), o consumata sui corpi morti
delle vittime nel finale.
Anche i quattro personaggi del film ferreriano, hanno, a ben
vedere, una sessualità ancora infantile: evidente nel giudice
Philippe che chiede alla maestra Andreà di sposarlo dopo che questa
gli ha praticato un rapporto orale (stesso atto che abbiamo visto
compiere precedentemente –ed è significativo- dalla sua balia), o
nel fallocentrismo latente di Marcello, o in Ugo, che muore
ingurgitando un enorme paté facendosi masturbare da Andreà.
In oltre, benché i personaggi de La grande abbuffata non siano
visti secondo un modello tradizionale di scavo psicologico, è pur
vero che molti tratti del film sono leggibili secondo certi
parametri della letteratura psicoanalitica e antropologica.
In questo senso mi sembrano illuminanti le teorie di Abraham
riprese poi da André Green.
Abraham distingue due modalità nella fase orale dello sviluppo
della libido: la prima in cui prevale la suzione (del seno
materno); la seconda (che corrisponde alla sottrazione del seno
materno) in cui prevale il piacere di mordere e lacerare che
corrisponde alla fase sadico-orale.
I personaggi ferreriani apparirebbero dunque tutti appartenenti
alla seconda fase descritta da Abraham: essi sembrano sfogare il
piacere di mordere e lacerare legato alla fase sadico orale
connessa alla sottrazione del seno materno. Il giudice Philippe
(rimasto sessualmente puer, come notava Pasolini), d’altro canto
muore proprio dopo aver ingurgitato un gigantesco budino a forma di
seno. Potremmo dire, in termini psiconanalitici, che egli ha
realizzato il desiderio di incorporazione del seno materno proprio
di quella fase dello sviluppo della libido. La figura materna del
film è naturalmente il personaggio della maestra Andreà, che
accompagna i quattro nel loro disfacimento, che è dunque anche una
sorta di regressus ad uterum, simile (ma più cruento) a quello dei
personaggi del successivo Chiedo asilo, che nel finale ritornano
alle acque –materne- del mare.
Veniamo ora al secondo livello metaforico del film di Pasolini, che
è quello della Storia. Il romanzo di Sade, autore settecentesco,
trasposto nella Repubblica Sociale, coi quattro signori che citano
a più riprese anche scrittori posteriori al tempo in cui il film è
ambientato, non è un gratuito gioco colto d’autore.
Questa operazione può intendersi meglio alla luce dell’Abiura dalla
trilogia della vita scritta dal poeta friulano all’indomani
dell’uscita del film, protestando contro la falsa tolleranza che
aveva scavalcato la lotta per la liberazione sessuale e il
proliferare dei film boccacceschi usciti a seguito della sua
trilogia.
In essa, Pasolini scrive fra l’altro: “Il crollo del presente
implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di
insignificanti e ironiche rovine.”
È l’amara constatazione di un intellettuale che si rende conto che
le armi della propria logica, della sua cultura e della sua
coscienza storica non sono sufficienti a contrastare l’orrore del
suo tempo, poiché il presente mantiene un terrificante rapporto di
specularità col passato, e il Potere omologante di oggi, della
neocapitalistica società dei consumi, non è diverso da quello
fascista, come non è diverso dai crudeli personaggi sadiani: essi
hanno come unico fine il dominio pieno e antiumanitario degli
esseri umani.
Notava giustamente Moravia a proposito del film che in esso
Pasolini si è servito “di Sade come di una pietra da lanciare
contro la società italiana, con l’intento provocatorio di farla
uscire allo scoperto, fuori dalla sua corruzione e dalla sua
contraddittoria condanna dell’omosessualità.”
Lo sguardo di Pasolini è qui, in questo suo ultimo film, amaro più
che altrove. La logica stessa, che egli adoperava da intellettuale
per fustigare i costumi, non è che un prodotto della società
dominante, un ulteriore strumento di tirannia di cui essa si serve
per stabilire delle norme, discriminando ciò che è logico e ciò che
non lo è. Ecco allora dove risiede la differenza sostanziale che
separa il film di Pasolini da quello di Ferreri. Quest’ultimo ha lo
sguardo di un entomologo o di un etologo, e come tale non riconosce
alcuna logica alla cosiddetta società civile ma neppure –a livello
metafisico- alla realtà stessa (ed era Pasolini stesso a notarlo,
nell’articolo più volte citato su La grande abbuffata: “una
contestazione assoluta, che mette in scacco «globalmente» la logica
del reale, non ammettendo la possibilità di alcun genere di
logica”): per Ferreri l’uomo non è aristotelicamente animale
razionale, e dunque egli non può dare spiegazioni logiche né alla
naturalezza del corpo (tanto nella sua creazione che nel suo
disfacimento inteso anche come regressus ad uterum), né del
quadruplice suicidio pantagruelico da lui messo in scena.
Pasolini ha invece l’amarezza di chi ha creduto fermamente, da
intellettuale, che la logica e la ragione potessero essere
ristabilite, con passione civile, anche lì dove sembravano “regnare
l’arbitrarietà e il mistero”, benché la logica borghese del buon
senso comune sia stata da lui criticata in più occasioni
(l’episodio del film Le streghe “La terra vista dalla luna”,
“Teorema”). Quella di Pasolini è una presa di coscienza da parte di
un uomo, come scriveva Moravia “tradito dal suo paese”, per il
quale ha lottato con forte passione, suo modo, ma ne è stato come
respinto per la sua diversità morale e sessuale. Quella diversità
sessuale che la società italiana borghese gli aveva fatto sentire
come nemica, in un senso di colpa latente.
Anche il linguaggio è usato nei film in maniera differente: se per
i protagonisti di Ferreri il linguaggio è quello della chiacchiera
(heideggerianamente, il linguaggio del “si dice”) tipicamente
borghese, usato come funzione meramente fatica (e forse in questo
legato al puro piacere di dire, e perciò alla fase orale), i
signori del film di Pasolini citano a memoria Baudelaire,
Nietzsche, Klossowski: sono uomini di potere che hanno fagocitato
la cultura dei pensatori “incendiari” di otto e novecento.
La condanna del Salò di Pasolini riguarda dunque in maniera
specifica il Potere e la società borghese, quella di Ferreri certi
aspetti della cultura borghese, ma il suo film appare distante da
possibili visioni in termini politici o di lotta di classe (poiché
da entomologo che non crede all’animale razionale, semplicemente,
da anarchico disincantato non può credere neppure all’animale
politico, ma solo all’animale in quanto tale?) e dunque la sua
condanna viene ad assumere tinte metafisiche e kafkiane, come di
un’oppressione dalla quale non è dato uscire, ma alla quale ci si
può solo arrendere senza troppe rimuginazioni, come fosse “l’unica
tragica realtà di questa vita”, la nostra stessa esistenza corporea
che conosce la creazione come il disfacimento.