Il regista tedesco Wim
Wenders è stato protagonista di uno degli incontri tenuti
al Festival Internazionale del Film di
Roma. Il maestro del cinema tedesco ha incontrato in
sala Sinopoli il pubblico e la stampa per parlare del prossimo film
che il regista ha realizzato Il Sale della
terra in cui oltre a raccontare le storie che
Sebastião Salgado ha immortalato da la possibilità
all’autore di sviscerare i temi trattati come solo Wenders sa
fare.
Dall’incontro e dalle varie clip mostrate durante l’incontro è
emerso il profondo rapporto che il maestro ha con la fotografia e
di come questo lo ha avvicinato al cinema.
In un libro da lei scritto,
Una Volta, lei sostiene che una foto non testimonia solo
ciò che si vede ma parla anche di chi ha fatto quella foto. Come
può spiegarci meglio questo principio?
Tutto è reso
molto più complesso grazie all’evoluzione della tecnologia, ma c’è
un fenomeno che mi affascina da sempre e mi intriga ed è che in
ogni fotografia è come se vi fosse un controcampo incorporato
questo effetto è invisibile ma riusciamo a percepirlo. In seguito
ho conosciuto il lavoro di questo straordinario fotografo che in
questo controcampo ci regala un senso di avventura, di amore e
rispetto che ha nel proprio mestiere e un’infinita conoscenza.
Questo però non riuscivo a comprenderlo fino infondo ad immagarmi
bene come fosse la persona responsabile di queste immagini e quindi
ho deciso che era venuto il momento di incontrarlo. E quindi per
una volta ho deciso di sollevare questo velo invisibile e fare il
film su queste immagini, su questo controcampo.
Nel libro lei sostiene che
il viaggiare ed il fotografare sono un’esperienza di vita e di
conoscenza della realtà. Possiamo dire che Salgado è
un’applicazione perfetta di questa accoppiata?
L’aspetto del tempo è fondamentale per quest’avventura che è stata
intrapresa, io inizialmente avevo ipotizzato che nel giro di un
paio di settimane avrei potuto fare questo film e sapere tutto
quello che c’era da sapere di questo fotografo. Abbiamo iniziato
con delle interviste ama mi sono reso conto che la sua opera si
basa su un senso del tempo completamente diverso e la profondità di
questo suo lavoro era tale da non consentirmi di fare un film
rapidamente, avevo bisogno di tempo e il segreto è che lui stesso
dedica sempre tanto tempo ad ogni tema sul quale lavora, per questo
motivo viaggia moltissimo, sparisce addirittura per mesi per
riuscire ad arrivare ad un grado di verità davvero
straordinaria.
Lei all’inizio ha
raccontato che era molto più interessato alla fotografia e alla
pittura, le piaceva il cinema perché le sembrava che ci fosse la
verità della fotografia ma era molto sospettoso del montaggio, del
racconto. Crede che in Salgado ci sia tantissimo
cinema?
La prima volta che ho visto le foto di questa
miniera d’oro l’impressione che ho avuto è quella di un enorme set
cinematografico mentre invece mi sono reso conto che era verità e
non era finzione, questo mi ha portato a riflettere su quanto tempo
aveva sicuramente passato l’autore in questi luoghi e se si
riguardano attentamente si intravede una forte complicità tra il
fotografo e i suoi soggetti. Vi racconto un episodio che non
vediamo nel film ma che credo sia significativo, inizialmente
quando è sceso con la sua macchina fotografica lungo queste scale
ha percepito una lunga ostilità nei suoi confronti gli uomini non
lo volevano, non voleva che fossero visti e poi ad un certo punto è
arrivata la polizia, lo ha arrestato e gli ha messo le manette e
questa è stata una scena al quale gli uomini hanno assistito,
quando è riuscito a dimostrare che è un cittadino brasiliano e non
c’era motivo per trattenerlo, in quel momento tutti si sono fermati
e hanno cominciato a battere forte con senso di approvazione,
perché avevano capito che non era amico della polizia e da quel
momento ha potuto scattare qualsiasi tipo di foto, viveva con
loro.
Le fotografie di Salgado si leggono come una storia ed egli la
racconta come farebbe un regista, con inquadrature diverse campo
lungo, stretto, riprese dall’alto, dal basso, primissimi piani ed è
proprio come un film ed è come si potrebbe immaginare un
documentario. Ed in ogni fotografia vediamo un frammento di tempo e
tutti insieme creano questa serie che si avvicina in maniera
impressionante ad un film.
Ci sono state delle
difficoltà nel mostrare le reazione di Salgado alla visione delle
sue stesse foto?
Questo è un film che è stato girato
due volte la prima volta lo abbiamo girato per diverse settimane e
poi mi sono reso conto che quello non poteva essere il mio film,
avevamo deciso di adottare un’impostazione tradizionale e
convenzionale: noi due seduti ad un tavolo, due cineprese con una
terza che ci riprendeva le foto contenute nei suoi libri pile e
pile di fotografie per rappresentare tutto il suo lavoro dalle
origini fino ai giorni nostri. Ma poi lui quando si avvicinava per
vedere una foto, il carico emotivo diventava fortissimo perché lui
riviveva quel momento nel quale aveva scatto quell’immagine, poi
però quando rialzava lo sguardo ed incrociava il mio rientrava in
un meccanismo diverso, più rivolto a me che alle immagini e quindi
una volta finito questo primo film ero arrivato ad avere una vaga
idea di quello che era stato il suo percorso e la sua opera, volevo
vederlo più preso e più coinvolto che era esattamente quello che
accadeva quando scrutava le sue foto.
Poi quando abbiamo iniziato a girare quello che è diventato questo
film abbiamo adottato un’altra tecnica, una camera oscura, abbiamo
pensato che questo buio fosse più consono ad un fotografo perché
più familiare e tutto quello che vedeva erano le sue foto mostrate
una dopo l’altra, non su carta ma abbiamo quello che in televisione
si chiama gobbo elettronico, quelli trasparenti. Perciò lui in
realtà guardava uno schermo semi trasparente, non un testo ma le
sue foto, solo non c’era nessun altro. E questo mezzo ci ha
permesso di avere il suo sguardo in macchina ed era questa intimità
che volevo, trovare con però la possibilità di comunicazione.
C’è un pensiero ricorrente
nel cinema, che guardare implichi sempre una posizione morale e
credo di poter dire nella cultura moderna e contemporanea. Questo
concetto si applica in maniera impeccabile in questo film ed in
generale al lavoro di Salgado, che spariva in questi luoghi per
mesi senza che nessuno lo sapesse.
Devo dire che io
stesso ho questo desiderio, di poter sparire in un luogo dove non
so niente, dove non c’è un incontro, dove non ho punti di
riferimento. La sequenza dedicata al Sudamerica è particolarmente
lunga, perché è proprio li che ha iniziato a lavorare come
fotografo. Inizialmente Salgado era un economista, poi ha deciso di
abbandonare questa strada e di dedicarsi alla fotografia, lui non
aveva di ritornare in patria ed aderire alle correnti politiche.
Quindi cercò di avvicinarsi in posti vicini al suo paese ma
sconosciuti, quindi si è letteralmente perso in Sudamerica ed
allora non poteva comunicare come lo si fa oggi, questo rappresenta
per me uno stato ideale sia per chi vuole fare cinema, sia per chi
vuole fare fotografia. Abbandonare tutti e diventare ciò che noi
vediamo e vogliamo conoscere.
Nel film viene anche tratta
la delicatissima relazione di Salgado con il figlio,
Juliano.
Ogni famiglia è un po’ particolare ed il
rapporto tra padre-figlio è molto speciale. Juliano che insieme a
me ha curato la regia di questo film è cresciuto con un padre che
spariva per lunghissimi periodi, che era assente e che quando era a
casa, si buttava sul lavoro, montando le sue immagini e lavorando
con la moglie che era la sua editor. Quindi questo giovane in
realtà non conosceva suo padre, poi ha deciso di diventare un
documentarista e ha pensato che la cosa più avventurosa che potesse
fare era un viaggio con il padre e scoprirne l’identità. La cosa
per me è stata molto stimolante perché il suo punto di vista sul
padre era per forza di cose completamente diverso dal mio, ed ho
pensato che insieme avremmo potuto realizzare un film che poteva
essere complesso e vero più di quanto non sarebbe stato possibile
fare individualmente.
Da queste immagini emerge
la sconvolgente bellezza di questo pianeta e poi subito dopo c’è il
tanto dolore e la tanta ingiustizia.
Nel corso della
sua carriera Salgado è stato criticato da molti, perché lo hanno
accusato di estetizzante il suo modo di fare fotografia, un
concetto che ho sviscerato con lui è stato il senso della bellezza
e della verità. Poi ho deciso di non includere questa parte nel
film perché non volevo arrivare ad una mera discussione sulla
fotografia, volevo solo mostrarla. Mostrando il modo in cui lui si
pone nei confronti della siccità, dalla fame, delle persecuzioni e
cosa significavano per lui. Io credo che piuttosto che parlare di
“foto belle” sia più giusto parlare di foto giuste, perché la
bellezza non centra, indubbiamente lo sono, però per me questo era
il suo modo per mostrare il rispetto di fronte a queste situazioni
e farlo con dignità. Quindi si potrebbe dire che nessuno ha il
diritto di raffigurare la sofferenza, la fame e la morte ma questo
è assolutamente assurdo perché è essenziale che la gente veda
queste cose e se c’è bisogno di farlo è con dignità. Quindi credo
che questa sia la funzione indiretta della bellezza e che il
dibattito su “bellezza e verità” si passato, l’unica cosa che conta
sono il rispetto e la dignità.