Venezia 73: i cannibali e la realtà distopica di Ana Lily Amirpour

A spiccare per originalità e coraggio in questo Venezia 73 è senza alcun dubbio la regista americana di origini iraniane Ana Lily Amirpour, che ha presentato il suo secondo lungometraggio, The Bad Batch, in concorso al festival. Nonostante la sua carriera sia appena agli inizi, la Amirpour sembra già una regista navigata e dalle idee molto chiare.

 

Criticata per aver presentato un film visionario e quasi psichedelico dalla tematica profondamente disturbante, la regista ha condiviso con noi qualche dettaglio del processo creativo del suo The Bad Batch.

The Bad Batch

“Quando inizio a lavorare su di un nuovo progetto, parto prima dalla musica. Lo so, è strano, ma a volte quando ascolto delle canzoni è come se le scene poi si scrivessero da sole”. Non a caso infatti, uno dei tanti punti di forza del film di Ana è proprio la travolgente colonna sonora che sembra uno strano mix di generi (proprio come The Bad Batch) perfettamente funzionale alla storia. “Tra i tanti pezzi utilizzati, le canzoni che ho scelto sin da subito per il mio film sono state quelle dei White Lies; non so perché, è una questione di pura chimica.”

Venezia 73: The Bad Batch recensione del film di Ana Lily Amirpour

Decidere di ambientare la sua storia in una realtà distopica e nel bel mezzo del deserto non è stata per la regista una scelta facile e ha richiesto un gran lavoro: “Ho fatto tantissime ricerche sull’argomento e sono stata in giro per circa un anno. Ho deciso di allontanarmi dai centri abitati per esplorare tutta quella desolazione, lontana dalle abbaglianti luci delle metropoli. Ho passato molto tempo nel deserto e ho visitato quella che viene chiamata Slab City, un accampamento situato a sud-est della California, abitato da una comunità nomade”. Non è la prima volta che il cinema e la letteratura prendono spunto dallo stile di vita di queste persone; nel 1997 John Krakauer ha scritto il suo Into The Wild proprio ispirandosi alla Slab City e dieci anni più tardi, nell’omonimo adattamento cinematografico di Sean Penn con Emile Hirsch, sono anche apparsi alcuni membri della comunità.

The Bad Batch

A chi la accusa di non aver saputo rendere chiaro il messaggio del suo film, la regista risponde ammettendo che accendere un dibattito su argomenti socio politici non era il suo scopo. “Fare film per me significa semplicemente raccontare una storia, raccontare cosa penso e sento. Non parlo della società e men che meno di politica, parlo solo per me stessa e non cerco di imporre il mio punto di vista. Nella mia vita ho sempre cercato ed inseguito la libertà, dalla società, dalla politica e dal sistema”. E questa libertà di cui la regista sente tanto la necessità, regna sovrana anche e soprattutto nel finale di The Bad Batch che alcuni purtroppo hanno definito inconcludente. “Ho creduto che fosse giusto optare per un finale aperto perché per me la vita stessa è un finale aperto. Nessuno sa mai  cosa accadrà in futuro ma, proprio come Arlen, [interpretata da Suki Waterhouse] continuiamo a sperare.”

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