È un film di confine questo esordio al lungometraggio di Chloe Domont. Sotto molti punti di vista rappresenta il punto esclamativo alla fine del discorso sul rapporto tra uomo e donna, destinato a implodere e svilupparsi in maniera tossica e abusiva all’interno di un determinato ambiente. Non è il film più radicale nell’affrontare questa tematica, Fair Play. Semplicemente è quello che la spiega nel modo più limpido, acuto e spietatamente sincero.
Fair Play, la trama
Lo spunto della sceneggiatura scritta dalla stessa autrice è semplicissimo: un un’agenzia di broker a Wall Street lavorano Emily (Phoebe Dynevor) e Luke (Alden Ehrenreich), coppia che sta per sposarsi ma deve tenere segreta la propria relazione a causa della politica aziendale. Quando la possibilità di una promozione si verifica in maniera inaspettata, ecco che gli equilibri e le dinamiche interne al loro rapporto iniziano lentamente a cambiare…
Domont parte da uno spunto comune, quasi banale, così come da due personaggi protagonisti che non hanno davvero nulla di speciale. Ed col passare delle scene si comprende che proprio queste sono la qualità principale e la forza primaria di Fair Play: la verità delle psicologie, la loro umanità inserita dentro un ambiente di lavoro fortemente competitivo vengono raccontare all’inizio e progressivamente esposte con cura certosina. La delineazione del rapporto che si incrina sempre più tra i due personaggi protagonisti possiede la verità emotiva e psicologica di un’opera teatrale, mentre la messa in scena mai sottolineata sa raccontare di una regista che riesce costantemente a tenere in pungo una storia “forte”, un tema pronto a esplodere nel melodramma gratuito se non adeguatamente maneggiato.
E in Fair Play non succede mai, non vi è una singola scena che scivola nell’effetto gratuito, nella retorica del dolore, nella rappresentazione fuorviante dell’abuso. Anche perché la Domont dimostra chiaramente e lucidamente di voler esporre senza giudicare, di avere una visione chiara del rapporto tra uomo e donna, il che non significa in alcun modo “schierata”: alla cineasta non interessa mostrare una vittima e il suo aguzzino, quanto piuttosto una donna e un uomo che reagiscono in maniera differente alle pressioni che la vita lancia loro contro. Emily e Luke sono le due figure meglio rappresentate e sviluppate da questo genere di cinema da moltissimo tempo a questa parte, assolutamente credibili sia nella loro storia d’amore che nel mostrare invece i rispettivi limiti emozionali e umani che la porterà a frantumarsi. Fair Play non cerca mai la scena ad effetto, non intende mai avventurarsi nel labirinto del thriller psicologico anche quando riesce a costruire una tensione emotiva fortissima. È un film che vuole e riesce a mostrare la verità, per quanto spiacevole e deprimente sia.
Due grandi protagonisti
Nelle primissime scene del film Phoebe Dynevor e Alden Ehrenreich interpretano Emily e Luke in maniera piatta, non caratterizzandoli in alcun modo soddisfacente. Pian piano però si capisce che è esattamente quello l’intento sia degli attori che della regista: la banalità della situazione e dei personaggi deve essere terreno fertile per una vicenda che non ha nulla di speciale proprio perché può accadere a chiunque, e per questo espone la sua portata al contrario universale. Emily e Luke sono semplicemente un uomo e una donna, tutto qui. Allora meritano davvero di essere ammirate le prove dei due attori, che sanno mantenere la credibilità sommessa dei ruoli finché lo stress non li costringe a esplodere. E anche in questo caso non vanno davvero mai sopra le righe, restando sempre credibili anche grazie a dialoghi di una finezza psicologica devastante.
Domont dimostra di avere un’opinione riguardo quello che sta mettendo in scena, ma questo non la fa mai cadere nell’errore di prendere una posizione retorica, errore che avrebbe rovinato il suo film. Tutto quello che avviene in Fair Play è il frutto delle debolezze, degli errori, delle zone grigie o nere nell’animo di due persone, non di una soltanto. E questo rende il film più “vero” di molto, moltissimo cinema che ha volto il proprio sguardo a questo tema, e questo purtroppo significa realmente preciso nell’esporre la prevaricazione dell’uomo sulla donna nell’ambiente lavorativo. Riguardo quest’ultimo aspetto, Fair Play risulta un’opera in tutto e per tutto newyorkese, una rappresentazione veritiera di quanto questa metropoli riesca a forzare al limite persone e situazioni in nome del successo individuale. Se New York è veramente la città che non dorme mai, potrebbe anche voler significare che chi ci vive non può veramente rischiare di addormentarsi…