Nell’Argentina
militarizzata d’inizio anni ’80 Arquimedes, ex agente dei servizi
segreti e all’apparenza irreprensibile patriarca della famiglia
Puccio, porta avanti in gran segreto una redditizia attività di
sequestri di persona su commissione che coinvolgono giovani
facoltosi, uccidendo spietatamente gli ostaggi in seguito la
riscossione del riscatto. Appoggiato informalmente dal governo
dittatoriale e sostenuto dall’intera famiglia, Arquimedes opera con
il coinvolgimento del figlio maggiore Alejandro, giovane
promettente rugbista ben presto attanagliato da pericolosi rimorsi
di coscienza.
Considerato da molti punta di
diamante della recente new age sudamericana tanto foriera
di ottime critiche nella passata stagione festivalera,
Il Clan cinematografizza uno dei fatti di
cronaca nazionale argentina più discussi degli ultimi trent’anni,
partendo dalla vocazione di dipingere le gesta di un
Padrino post-peronista con chiari echi socio-politici
tanto cari (e forse anche troppo abusati) alla tradizione del
cinema storico d’inchiesta. Pablo Trapero – premiato con un
discusso Leone d’Argento alla migliore regia a Venezia 2016 – torna
ai caldi temi del dramma umano incastonato nel dramma della Storia
attraverso un racconto dal sapore pseudo mafioso che tenta di unire
la forza delle vicende reali con il gusto del racconto filmico,
fotografando il tutto con uno stile ibrido e spesso confusionario a
metà strada fra l’occhio neorealista di F. Solinas e le calibrate
geometrie di J.J. Campanella. Allontanandosi decisamente dai
picchi di alta qualità estetica e drammatica dei ben più coerenti
Leonera (2008) e Carancho (2010) Trapero opta per
una dinamica rappresentativa che predilige l’asciuttezza delle
location e la spigolosità dei dialoghi rispetto alla compattezza
dell’insieme, col risultato di sconfinare eccessivamente nel
didascalismo cronachistico agé e d’intavolare una sfilza
di personaggi stereotipati che paiono prelevati di forza dalle
pagine ammuffite dei rotocalchi di una storia nota ma a lungo
taciuta. Guillermo Francella, volto notissimo
della televisione leggera argentina, incarna la figura di un
boss fedele tanto al lavoro quanto agli affetti che
miscela l’impassibilità del Don Corleone brandoniano con lo
charme tenebroso di un Bogart del sud continente, senza
però riuscire a imprimere quel giusto guizzo di
attrazione-repulsione tanto necessario anche ai villain delle realtà, lasciando il gravoso
compito al non certo scadente Peter Lanzani di
scavarsi addosso le frustrazioni e le angosce di un figlio
obiettore di coscienza e al contempo suggestionato da un
padre-padrone degno di un dramma familiare shakespeariano. Un
prodotto anonimo che avrebbe dovuto (e potuto) tradurre in una
forma filmica avvincente i grandi temi del conflitto umano d’ogni
tempo (amore, sesso, denaro) usando l’appeal di una
struttura cronachistica rivelatasi tanto reale quanto assurda nel
suo riecheggiare goffamente a tanta cine-tv
filonoir.