
David Grieco, amico intimo e già aiuto-regista dello scrittore bolognese, decide di prendere le distanze dalla scialba lettura scandalistica del progetto pasoliniano del collega Alber Ferrara e di affidarsi a una ferrea dimostrazione filmica in chiave thrilling dei fatti nudi e crudi, sciorinando una narrazione palesemente “di parte” che tenta di elevarsi a inattaccabile saggio teorico della corruzione italica, condensandola però nella biografia di un unico uomo. Sarà forse questo profondo legame di complicità col soggetto trattato che porta inevitabilmente il regista dell’ottimo Evilenko a creare un film di denuncia attraverso un accumulo didascalico e fin troppo rigoroso di accadimenti, presentati attraverso una chiave del tutto priva di quel giusto equilibro fra la realtà e la sua interpretazione che funge da motore di un sano e obiettivo cinema politico. L’accademica sceneggiatura di Guido Bulla, pianificata attraverso una progressione in stile cronachistico dei loschi intrighi di palazzo con cui il protagonista cristologico si viene a scontrare, tenta di forse di plasmarsi in maniera eccessiva sul modello degli stralci del romanzo maledetto che fa da fulcro all’intera vicenda, senza però ritrovare la giusta potenza di penetrazione emozionale e attenzionale, per altro penalizzata da un rozzo montaggio espressionista e da una latente legnosità pseudo-dilettantesca che si estende come un sudario sulle performance recitative tanto degli attori principali quanto dei non professionisti.
Il mimetico Pasolini incarnato da Massimo Ranieri, seppur penalizzato da una non adeguata caratterizzazione vocale e da un’eccessiva teatralità, ben si distingue all’interno di un cast ottimamente nutrito e variegato ma maldestramente diretto, rendendo perciò La macchinazione nulla più di un ennesimo titolo altisonante – tanto quanto il suo retorico epilogo simbolista – che dichiara fin da subito l’obiettivo tematico da raggiungere ma senza possedere la giusta capacità e serietà intellettuale per trattarlo.
