
Roma, estate 1975. Pier
Paolo Pasolini è in procinto di portare a termine il montaggio del
controverso Salò o le 120 giornate di Sodoma, proseguendo
nel frattempo le difficili indagini necessarie alla stesura di
Petrolio, romanzo sperimentale contenete pericolose
indiscrezioni circa gli intrighi di potere alla base delle numerose
stragi e scandali dell’Italia post bellica. L’incontro col giovane
di borgata Pino Pelosi e il misterioso furto dei preziosi negativi
del film trascinano il discusso intellettuale nelle spire di un
losco groviglio di circostanze che condurrà verso il tragico
epilogo a tutti tristemente ben noto. Il racconto degli ultimi tre
mesi di vita di uno dei personaggi più chiacchierati della nostra
cultura nazionale non poteva che portare con sé l’insidioso quanto
irresistibile pericolo di un’ennesima rilettura di complessi eventi
storici in chiave complottistica, questa volta scegliendo – a
differenza delle precedenti pellicole d’inchiesta – di eliminare
qualunque pallido beneficio di dubbio e di affidarsi all’ormai
(troppo) nota ricostruzione neo-ufficiale del delitto di
Ostia.
David Grieco, amico intimo e già aiuto-regista dello scrittore bolognese, decide di prendere le distanze dalla scialba lettura scandalistica del progetto pasoliniano del collega Alber Ferrara e di affidarsi a una ferrea dimostrazione filmica in chiave thrilling dei fatti nudi e crudi, sciorinando una narrazione palesemente “di parte” che tenta di elevarsi a inattaccabile saggio teorico della corruzione italica, condensandola però nella biografia di un unico uomo. Sarà forse questo profondo legame di complicità col soggetto trattato che porta inevitabilmente il regista dell’ottimo Evilenko a creare un film di denuncia attraverso un accumulo didascalico e fin troppo rigoroso di accadimenti, presentati attraverso una chiave del tutto priva di quel giusto equilibro fra la realtà e la sua interpretazione che funge da motore di un sano e obiettivo cinema politico. L’accademica sceneggiatura di Guido Bulla, pianificata attraverso una progressione in stile cronachistico dei loschi intrighi di palazzo con cui il protagonista cristologico si viene a scontrare, tenta di forse di plasmarsi in maniera eccessiva sul modello degli stralci del romanzo maledetto che fa da fulcro all’intera vicenda, senza però ritrovare la giusta potenza di penetrazione emozionale e attenzionale, per altro penalizzata da un rozzo montaggio espressionista e da una latente legnosità pseudo-dilettantesca che si estende come un sudario sulle performance recitative tanto degli attori principali quanto dei non professionisti.
Il mimetico Pasolini incarnato da Massimo Ranieri, seppur penalizzato da una non adeguata caratterizzazione vocale e da un’eccessiva teatralità, ben si distingue all’interno di un cast ottimamente nutrito e variegato ma maldestramente diretto, rendendo perciò La macchinazione nulla più di un ennesimo titolo altisonante – tanto quanto il suo retorico epilogo simbolista – che dichiara fin da subito l’obiettivo tematico da raggiungere ma senza possedere la giusta capacità e serietà intellettuale per trattarlo.