Dopo Devil, film scritto e prodotto da M. Night Shyamalan, i fratelli John Erick e Drew Dowdle tornano dietro la macchina da presa con Necropolis – La città dei morti, un horror girato in stile found footage ambientato nelle catacombe di Parigi. Nel cast Edwin Hodge, Ben Feldman e Perdita Weeks guidano un gruppo di esploratori urbani che, spinti dalla curiosità e dal desiderio di avventura, si addentrano nei cunicoli sotterranei della capitale francese, senza sapere che stanno per risvegliare un incubo sepolto da secoli.
Sotto le strade di Parigi si estende un labirinto di ossa e silenzio lungo oltre trecento chilometri: un cimitero dimenticato, nato per contenere i resti di milioni di persone. È lì che il film colloca la sua discesa agli inferi, una lenta discesa fisica e psicologica che si trasforma presto in un viaggio nella colpa, nella paura e nella follia. Girato interamente in spazi reali e con un uso intelligente della camera a mano, Necropolis – La città dei morti cerca di riportare vitalità a un genere abusato, mescolando l’orrore paranormale con suggestioni esoteriche e simboliche legate all’alchimia.
Tra mito, religione e terrore: il found footage come discesa agli inferi
Il film dei fratelli Dowdle si apre come un classico mockumentary: la protagonista Scarlett (Perdita Weeks), studiosa di archeologia e alchimia, è alla ricerca della Pietra Filosofale, il leggendario artefatto capace di donare la vita eterna e trasformare i metalli in oro. Per trovarla, convince una squadra di esploratori urbani a seguirla nelle catacombe di Parigi, un luogo che si rivela presto vivo, mutante, capace di riflettere le paure più profonde di chi lo attraversa. La scelta di ambientare il film in un luogo reale è una delle intuizioni più riuscite: la fisicità dei cunicoli, l’umidità delle pareti e la sensazione di soffocamento creano una tensione palpabile che non ha bisogno di artifici digitali.
Dal punto di vista stilistico, Necropolis utilizza il found footage in maniera più consapevole di molte altre produzioni del filone. Ogni inquadratura è giustificata diegeticamente – una videocamera indossata, un casco con luce, un cellulare acceso -, e questa coerenza formale permette allo spettatore di restare dentro la storia senza percepire il trucco. Il risultato è un horror più immersivo che voyeuristico, dove il punto di vista soggettivo diventa un’estensione della paura.
Tuttavia, la scrittura non riesce a sostenere fino in fondo le ambizioni del film. Gli spunti mitologici e religiosi – dall’alchimia alla simbologia cattolica, fino ai riferimenti all’antico Egitto – si accavallano in modo disordinato, dando vita a un mosaico suggestivo ma incoerente. L’idea di fondo, quella di un viaggio fisico che diventa anche viaggio interiore, è affascinante ma sviluppata in modo approssimativo. Ogni personaggio è chiamato a confrontarsi con i propri peccati, ma la psicologia resta abbozzata e le dinamiche tra i protagonisti non vanno mai oltre l’archetipo.
Il film suggerisce più che spiegare, ma a volte lo fa con troppa superficialità. Ciò che nelle intenzioni dovrebbe essere un horror “metafisico” – un confronto con i demoni interiori – si riduce a una sequenza di visioni e apparizioni non sempre legate da un filo logico. Eppure, nei suoi momenti migliori, Necropolis riesce davvero a evocare un senso di discesa all’inferno, un inferno privato dove spazio e tempo si deformano fino a diventare un incubo circolare.
Claustrofobia, tensione e limiti di scrittura
L’elemento più riuscito di Necropolis – La città dei morti è senza dubbio l’atmosfera. I Dowdle, già autori di The Poughkeepsie Tapes e Quarantine, confermano la loro abilità nel manipolare la paura dello spazio chiuso. La claustrofobia è reale, fisica, amplificata dall’uso del suono: le gocce d’acqua, i passi ovattati, il respiro affannato dei personaggi costruiscono una colonna sonora naturale che tiene lo spettatore costantemente in tensione.
Le sequenze girate nei cunicoli più stretti sono le più efficaci, perché non si affidano ai jump scare ma all’attesa e all’angoscia. In quei momenti, il film diventa una vera e propria esperienza sensoriale: si percepisce il peso della terra, il buio assoluto, la perdita di orientamento. Il problema è che questa costruzione di tensione non trova un corrispettivo narrativo altrettanto solido. Il mistero si complica progressivamente, ma invece di approfondirsi si frammenta in simboli e riferimenti che restano in superficie.
Il tema dell’alchimia, che avrebbe potuto essere la chiave metaforica del film – trasformare la materia come metafora del trasformare se stessi -, viene trattato come un semplice espediente decorativo. Allo stesso modo, i richiami religiosi e le suggestioni dantesche non vengono mai davvero sviluppati, rimanendo all’interno di un’estetica del mistero fine a se stessa.
Ciononostante, il film riesce a mantenere una certa coerenza visiva e ritmica. La regia compatta, l’uso calibrato del montaggio e la fotografia granulosa contribuiscono a creare un mondo chiuso e coerente, dove la realtà sembra piegarsi alle leggi del subconscio. In questo senso, Necropolis funziona più come esperienza atmosferica che come horror narrativo tradizionale.
Necropolis - La città dei morti
Sommario
Un horror claustrofobico e visivamente suggestivo, che soffre di una sceneggiatura disordinata ma riesce a catturare grazie all’atmosfera e alla tensione costante.

