A volte le saghe più longeve trovano nuova vita nei modi più impensabili. È il caso di Predator: Badlands, che abbiamo visto in anteprima in sala. L’ultimo capitolo dello storico franchise è passato da qualche anno nelle mani di Dan Trachtenberg, e dopo aver ridato smalto alla serie con Prey e sperimentato con l’antologia animata Killer of Killers, decide di fare il salto più audace di tutti: portare il Predator nello spazio e trasformarlo nel protagonista positivo della storia.
Sì, avete letto bene: il cacciatore più spietato della galassia, l’icona anni ’80 dal sangue verde e le mandibole minacciose, diventa qui l’eroe per cui tifare. Una mossa rischiosa, quasi sacrilega per i fan della prima ora, ma che Trachtenberg gestisce con sorprendente leggerezza, mescolando ironia, spettacolo e persino un pizzico di sentimento.
Il risultato è un film che non rinnega le radici action e pulp della saga, ma le piega a un tono più giocoso e avventuroso, quasi da romanzo sci-fi degli anni Sessanta portato sullo schermo con la tecnologia e la sensibilità del 2025. Non è più una caccia brutale nella giungla, ma un viaggio di formazione tra creature aliene, flora mortale e improbabili compagni di viaggio. E soprattutto, è la conferma di quanto Trachtenberg sappia fare ciò che Hollywood fatica ancora a realizzare: reinventare una proprietà intellettuale senza distruggerne il mito.
Dek, l’alieno che voleva solo essere amato
Il cuore pulsante di Predator: Badlands è Dek, giovane membro della razza Yautja (i Predator, per i meno ferrati), interpretato con sorprendente presenza fisica e carisma da Dimitrius Schuster-Koloamatangi. È un “cucciolo” di Predator — due metri e mezzo di muscoli e orgoglio — ma per il suo tirannico padre non sarà mai abbastanza. Per dimostrare il suo valore, Dek viene mandato su Genna, pianeta ostile dove ogni cosa — dall’erba alle zanzare — può ucciderti. Qui inizia un’avventura tanto pericolosa quanto colorata, con un obiettivo semplice e quasi mitologico: uccidere la creatura più temuta dell’universo, l’“inammazzabile Kalisk”, e tornare a casa da eroe.
Ma Badlands non è un semplice racconto di sopravvivenza. È soprattutto una storia di crescita, empatia e scoperta di sé, in cui il giovane Predator impara che la forza non è solo potenza, ma anche sensibilità e collaborazione. L’incontro con Thia, androide della Weyland-Yutani interpretata da una brillante Elle Fanning, ribalta del tutto le aspettative. Lei è sarcastica, pragmatica e — per metà film — letteralmente priva di gambe. Insieme formano una coppia tanto improbabile quanto irresistibile: lui è il bruto dal cuore tenero, lei la voce razionale che lo guida verso una nuova consapevolezza. E quando al duo si aggiunge un piccolo alieno blu, scimmiesco e adorabile (il Baby Yoda che non sapevamo di desiderare), il film abbraccia del tutto la sua anima da buddy movie spaziale, sospeso tra azione sfrenata e umorismo affettuoso.
Trachtenberg e lo sceneggiatore Patrick Aison non si limitano a parodiare la saga: la riscrivono dall’interno, immaginando cosa succederebbe se il mostro da sempre temuto fosse invece il nostro punto di vista, il nostro eroe. È un’idea folle ma coerente con la direzione più “umanista” che il regista aveva già intrapreso in Prey. Qui, però, la posta è più alta, e il tono più libero: Predator: Badlands è quasi una fiaba di formazione in salsa sci-fi, dove il sangue (bianco, per esigenze di rating Disney) scorre accanto a momenti di autentica tenerezza.
Un universo di sangue
bianco, humor e cuore
Visivamente, Predator: Badlands è una festa di colori e creature. Trachtenberg costruisce un ecosistema alieno credibile e pericoloso, popolato da mostri che sembrano usciti da un manuale di zoologia psichedelica: piante carnivore che si muovono come tentacoli, insetti con gusci esplosivi, e distese di sabbia che inghiottono tutto ciò che si muove. Nonostante qualche eccesso di CGI — specialmente nelle battaglie finali, un po’ troppo digitali — il film riesce a mantenere una dimensione fisica e “artigianale” grazie a un uso intelligente degli effetti pratici e delle ambientazioni reali.
Trachtenberg alterna momenti di pura adrenalina a parentesi di ironia disarmante. Non mancano i riferimenti affettuosi all’universo Alien, dalla comparsa del celebre fucile a impulsi di Aliens a una scena d’azione memorabile in cui il protagonista si scontra con un “fratello” dell’iconico Power Loader, fino, ovviamente, alla presenza della Weyland-Yutani. È un cinema pop che abbraccia la sua natura, capace di passare dal citazionismo più sfacciato alla malinconia più sincera.
E poi c’è l’elemento più sorprendente: il cuore. Tra una battaglia e l’altra, Predator: Badlands parla di accettazione, di diversità, di identità non conformi — senza mai farlo in modo predicatorio o artificiale. Il viaggio di Dek diventa una metafora limpida della crescita e della ricerca di sé, tra ribellione e riconciliazione. C’è chi ha ironizzato sul fatto che questo Predator sembri “queer” o “addolcito”, ma in realtà Badlands è semplicemente un film che osa guardare il suo mostro negli occhi e vederci dentro qualcosa di umano. E in un panorama di blockbuster sempre più cinici, è quasi rivoluzionario.
Predator: Badlands segna un nuovo corso per la saga: coraggio, ironia e futuro
Con Predator: Badlands, Dan Trachtenberg firma il capitolo più personale e sperimentale della saga. Lontano anni luce dal machismo sudato dell’originale di John McTiernan, questo film trova la propria identità in un equilibrio fragile ma riuscito tra spettacolo e sensibilità. È come se il regista avesse deciso di usare il linguaggio della fantascienza per raccontare una storia universale: quella di un ragazzo (o meglio, di un alieno) che impara a conoscersi e a scegliere da che parte stare.
Non tutto funziona alla perfezione: la seconda metà rallenta, alcune sequenze digitali tolgono un po’ di tensione, e il tono a tratti “YA” potrà far storcere il naso ai puristi. Ma il film compensa con una scrittura coerente, una regia vivace e personaggi che funzionano. Elle Fanning è straordinaria nel dare umanità al suo androide mutilato, mentre Schuster-Koloamatangi infonde a Dek una fisicità imponente e al tempo stesso dolce, quasi infantile. Il risultato è un’avventura che diverte, emoziona e, soprattutto, fa respirare nuova aria a una saga che sembrava condannata al passato.
Predator: Badlands non è solo un esperimento riuscito: è una dichiarazione d’amore per il cinema di genere, per la fantascienza come terreno di libertà narrativa, per i mostri che diventano eroi e per gli eroi che imparano a essere vulnerabili.
Predator: Badlands
Sommario
Predator: Badlands è una dichiarazione d’amore per il cinema di genere, per la fantascienza come terreno di libertà narrativa, per i mostri che diventano eroi e per gli eroi che imparano a essere vulnerabili.

Un universo di sangue
bianco, humor e cuore