Nome di donna: recensione del film di Marco Tullio Giordana

Nome di donna

Arriva in sala l’8 marzo Nome di Donna, il nuovo film di Marco Tullio Giordana con protagonista Cristiana Capotondi.

 

In Nome di Donna Nina (Cristiana Capotondi) si trasferisce da Milano in un piccolo paese della Brianza per lavorare come assistente in una residenza per anziani facoltosi, con un parroco responsabile del personale che sembra più esperto di aliquote iva che di rosari e un amministratore, Marco Maria Torri, che ha instaurato un sistema di favori alle sue dipendenti con un secondo fine. Quando anche Nina si troverà ad affrontare l’amministratore Torri (Valerio Binasco) si dovrà scontrare con mille avvesità per far rispettare la sua dignità.

Marco Tullio Giordana mancava dagli schermi cinematografici dal 2010, anno di Romanzo di una strage. Dopo alcuni film per la tv, tre anni fa si è imbarcato nella realizzazione di questo film che affronta una tematica taboo per il cinema e la società: la molestia di stampo sessuale sul luogo di lavoro. Il film si sviluppa come un legal drama, che prima di arrivare in tribunale espone il problema in forma quasi di thriller, con alcune scene girate in modo tale da rendere l’idea di come l’abuso di potere perpetuato da Torri fosse diventato, coscientemente o meno, una sorta di rito di passaggio da cui le dipendenti passavano per avere assicurato il posto e anche degli aiuti supplementari.

Nome di donna, il film

In questa “normalità” si inserisce Nina, che ha come priorità il rispetto di se stessa e capisce subito come ci sia qualcosa di storto nel comportamento di colleghe e superiori. La parte più difficile è trovare la forza di sfondare il muro di gomma di omertà e di sfiducia che le si crea intorno. Giordana rende bene chiari quali sono i nemici, quelli più ovvi: il comportamento malato del superiore, la reazione tesa a insabbiare lo scandalo della dirigenza ecclesiale, ma anche quelli inaspettati: i sindacati che vogliono usare Nina per portare l’azienda in tribunale, le colleghe che vogliono che Nina si adegui.

Raggelanti sono due battute; una collega apostrofa Nina dicendole, prima che lei incontri il superiore per la prima volta: “Perchè devi lavorare? Non hai un uomo che lavori per mantenerti?  Allora è l’uomo sbagliato!” e la battuta della formidabile Adriana Asti, che qui interpreta un’anziana attrice ancora in attività che vive nella residenza anziani e  che ricorda l’opinione di Catherine Denevue sulle molestie e sul movimento #metoo: “Molestie? Ai miei tempi si chiamavano complimenti”.

Queste due battute vanno pesate in modo diverso, ma in comune hanno l’opinione che la donna era costretta ad avere di se stessa: una persona passiva, che non poteva partecipare al suo benessere, quindi lavorare, ma che doveva riceverlo da altri, così come doveva accettare, in modo passivo, i “complimenti”, facendo finta di niente su quelli più pesanti.

Per quanto sia essenziale in tutta questa discussione mantenere una lucida distinzione tra molestia, violenza e, per citare nuovamente la Deneuve, la semplice goffagine di qualche uomo incapace di corteggiare in modo galante, il film pone finalmente il riflettore su di una quotidianità comune a molte donne che viene iscritta nella normalità ma che non rientra affatto nella normalità lavorativa, in cui tutti, di qualsiasi sesso, etnia e religione, dovrebbero avere la garanzia di riuscire a lavorare senza subire molestie di alcun tipo.

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Alice Vivona
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Alice Vivona
Laureata in filmologia all'universitá Roma Tre con una tesi sul cinema afroamericano. Si guadagna il pane facendo la video editor, ma ama scrivere dei film che vede, anche su superficialia.tumblr.com Scrive per cinefilos da Settembre 2010
nome-di-donna-recensionePer quanto sia essenziale in tutta questa discussione mantenere una lucida distinzione tra molestia, violenza e, per citare nuovamente la Deneuve, la semplice goffagine di qualche uomo incapace di corteggiare in modo galante, il film pone finalmente il riflettore su di una quotidianità comune a molte donne che viene iscritta nella normalità ma che non rientra affatto nella normalità lavorativa, in cui tutti, di qualsiasi sesso, etnia e religione, dovrebbero avere la garanzia di riuscire a lavorare senza subire molestie di alcun tipo.