Parthenope: recensione del film di Paolo Sorrentino

Dopo il passaggio a Cannes 2024, il film di Paolo Sorrentino arriva in sala dal 24 ottobre distribuito da Piperfilm.

-

Dopo l’anteprima internazionale al Festival di Cannes 2024, arriva in sala Parthenope, l’ultimo inafferrabile e affascinante lavoro di Paolo Sorrentino, che dopo E’ stata la mano di Dio, rimane nella sua città per raccontarla da un punto di vista diverso. Nel film precedente, il regista aveva inquadrato la Napoli della sua infanzia, della sua adolescenza, intorno a un racconto molto personale e intimo, qui invece Sorrentino tenta la strada dell’allegoria in cui Parthenope è Napoli e Napoli è Parthenope, una donna splendida e inafferrabile e inconoscibile che si muove trai piani dell’esistenza.

 

Il film è il racconto della vita di questa donna dal nome rivelatore, nasce nel mare, forse dal mare, ai piedi del Vesuvio e come la città che la vede nascere ha molte facce, molti mondi e desideri. Dalla sua nascita, nel 1950, ai giorni nostri, la donna cresce e progredisce, attraversando l’esistenza e i suoi misteri.

- Pubblicità -
 
 

Parthenope è nettamente diviso tra storia e metafora

In una durata importante ma doverosa (e mai fastidiosa), Sorrentino dipana un doppio racconto, scandito da un evento tragico e trasformante e che divide a tutti gli effetti il film in un primo e un secondo tempo, in cui la prima parte è un classico racconto di formazione che cede il passo, nella seconda metà, a una storia frammentata, metaforica, più evocativa e poetica, senza dubbio più interessante ma anche meno comprensibile.

Celeste Dalla Porta_Dario Aita_Daniele Rienzo
Celeste Dalla Porta, Dario Aita e Daniele Rienzo in Parthenope di Paolo Sorrentino – foto di Gianni Fiorito

Un film che si trasforma da racconto di formazione in viaggio, strutturato in tappe nelle quali Parthenope incontra tanti aspetti dell’umanità. Fa i conti con la fede, quella popolare e quella politica, con la blasfemia, con la cultura accademica, con il mondo dell’arte e della recitazione, con la mafia addirittura, con il calcio, con l’antropologia. Sospesa, come l’interpretazione della splendida Celeste della Porta, non si fa conoscere né attraversare da nessuno, preferisce la risposta a effetto, la frase fatta e indimenticabile piuttosto che la verità, ma da tutti assorbe conoscenza e sapere, esperienza, e accumula così storia, proprio come Napoli, dai mille colori e sapori e mai comprensibile appieno.

“A tien’ na cos’ a racconta’?”

Paolo Sorrentino sembra dimenticare è il fine ultimo del racconto. In E’ stata la mano di Dio, Antonio Capuano diceva: “A tien’ na cos’ a racconta’?”, ovvero “Hai qualcosa da raccontare?” a un titubante Fabietto. Ebbene questo sembra proprio quello che manca a Sorrentino, in questo film, ovvero “la cosa” da raccontare. E questo problema si avverte principalmente nell’andamento ondivago del film, soprattutto nella seconda parte, meno coesa da un punto di vista narrativo.

Un altro aspetto critico ma interessante di Parthenope è il linguaggio. Sorrentino si ostina a presentare dei personaggi che parlano tutti alla stessa maniera, assertivi e vuoti, per frasi a effetto. Tutti declamano le loro battute in una costante ricerca del tono e della costruzione spettacolare della frase. Se da un punto di vista del fruitore questa caratteristica del film può diventare ridondante, potrebbe anche essere il tentativo di voler raccontare un mondo in cui la teatralità di ciò che si dice è sempre più importante di quello che viene detto. In questo modo si sfugge alla noia, alla verità, alla riflessione interiore che tanto spaventa, come si vede in rare eccezioni, come l’attrice di Luisa Ranieri o il professore di Antropologia di Silvio Orlando. Parthenope è maestra di questo linguaggio spettacolarizzante, ricercando sempre l’uscita geniale, il colpo di teatro, rispetto alla risposta, al contenuto.

Parthenope
Parthenope by Paolo Sorrentino. Da sinistra Celeste Dalla Porta e Stefania Sandrelli. Foto di GIanni Fiorito.

La spettacolarizzazione del linguaggio come imitazione della napoletanità

In realtà questo modo così distraente di esprimersi potrebbe anche essere un omaggio di Paolo Sorrentino che prova a mettere in scena in maniera alta e colta l’essenza della “napoletanità”, nel suo film più “territoriale” (fino a questo momento): fare della frase a effetto un modus per affrontare le situazioni, per fingere consapevolmente che i problemi non esistano.

Parthenope non è certo il film più compiuto di Paolo Sorrentino, il quale però allo stesso tempo fa un passo in avanti nella costruzione della sua mitologia cinematografica. Ha raccontato la decadenza, della Capitale, della politica, della società, e ha raccontato una Napoli, location intima della sua infanzia e adolescenza, adesso racconta la Napoli donna/città, un’operazione simile a quella che Fellini aveva fatto con il suo Roma. Al tempo la decisione di immortalare nella memoria collettiva anche Parthenope, così come ha fatto per uno dei capolavori di Fellini.

Parthenope
3

Sommario

Sorrentino racconta una Napoli donna/città, come Fellini aveva fatto con il suo Roma. Un’operazione a tratti fuori fuoco, ma ricca di spunti e di fascino, che si addentra in una città misteriosa e inafferrabile, come la splendida protagonista del film che ne porta il nome.

Chiara Guida
Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice di Cinefilos.it, lavora come direttore della testata da quando è stata fondata, nel 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.

ALTRE STORIE