Quando Hitler rubò il coniglio rosa, la recensione dell’adattamento di un classico

Il romanzo di Judith Kerr diventa un film, diretto dalla regista Premio Oscar Caroline Link (dal 28 aprile al cinema con Altre Storie, in collaborazione con Rai Cinema).

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Uno sguardo diverso su una tragedia più citata che ricordata, come la Storia – anche recente – non fa che dimostrarci, Quando Hitler rubò il coniglio rosa nasce da una storia vera, e da un libro, che Caroline Link ha voluto adattare per il grande schermo. Vincitrice dell’Oscar 2001 per il miglior film straniero con Nowhere in Africa, la regista e sceneggiatrice tedesca sceglie Quando Hitler rubò il coniglio rosa, classico di Judith Kerr del 1971, pubblicato in Italia nel 1976 nella collana “BUR dei Ragazzi”.

 

Un dramma di tutti, in una storia autobiografica

La storia dei Kemper è quella della stessa autrice, che nel racconto – parzialmente autobiografico – fatto dalla piccola Anna racconta la perdita dell’innocenza e l’ascesa al potere del folle criminale nazista che guidò la Germania dal 1933 al 1945. Un dramma al quale la Kerr cercò di trovare un senso, a posteriori, dedicando ai propri genitori il romanzo, la cui “leggerezza” ha colpito e ispirato la regista, spingendola a realizzare “un film sulla fiducia, la curiosità, l’ottimismo e la famiglia”, come spiega lei stessa.

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Ma la storia vera della famiglia protagonista è anche una vicenda di separazione e orgoglio, di esilio e resistenza, pur se molto particolare, e a suo modo privilegiata (tanto che la stessa Kerr raccontò alla Link di ricordare gli anni trascorsi in Svizzera e a Parigi come “esperienze positive, piene di avventura”). Eccessivamente, per un pubblico adulto e più disincantato degli spettatori più giovani che in compenso potrebbero avere difficoltà a comprendere completamente il senso di quel che vedranno.

Un esilio pieno di speranza e sorrisi, forse troppo

Un lungo viaggio che inizia nella Berlino del 1933, dove Hitler è a un passo dal prendere il potere. E da dove, per sfuggire ai nazisti, il padre di Anna scappa, per aspettare a Zurigo il resto della famiglia, poco dopo. E’ solo la prima tappa di una fuga attraverso l’Europa alla ricerca di un luogo sicuro dove stabilirsi. A nove anni, Anna è costretta a lasciare tutto, compreso il suo amato coniglio rosa di peluche, e, insieme alla sua famiglia, ad affrontare una nuova vita piena di sfide e ostacoli, ma non senza speranza e perfino sorrisi.

Forse troppi, per quanto non manchino i momenti complicati e le rinunce, tutti filtrati dallo sguardo della piccola protagonista. Unica a emergere veramente, sia per l’interpretazione della giovane Riva Krymalowsky sia per l’insistenza della macchina da presa nel metterla costantemente al centro della ricostruzione. Che è inevitabilmente parziale, anche per scelta della Link e – più comprensibilmente – della Kerr prima di lei.

Tra Zurigo e Parigi, non è La vita è bella

In maniera opposta a quanto visto nel La vita è bella al quale è inevitabile ripensare, dove l’Orrore era evidente, qui la ricostruzione è esageratamente ellittica e bonificata, al punto da rendere ardui l’emozionarsi e l’empatizzare e più o meno spontaneo il confronto con la Heidi della nostra infanzia. Non mancano le scene con una certa potenzialità, e sin dall’inizio il mondo dei bambini offrirebbe spunti migliori della rappresentazione di una Svizzera neutrale e indifferente o di prese di posizione chiare quanto scontate sulla stupidità nazista.

Come non mancano momenti di didascalica retorica (“L’amore è la medicina migliore”, “il bene vince sempre”) figlia di una sensibilità infantile datata anni ’30 o un’idealizzazione del potere della parola (coerente con il vissuto paterno e personale dell’autrice), che nascondono ancora di più un contesto storico al quale viene affidata quasi completamente certa drammatizzazione. Nonostante l’abbandono sia un tema predominante e le tensioni non manchino, infatti, il succedersi degli accadimenti viene osservato passivamente, nell’attesa di una morale finale che dia un senso al placido e convenzionale svolgimento nel quale tutto viene reso digeribile. Per ogni tipo di pubblico.

Sommario

Come non mancano momenti di didascalica retorica, che nascondono ancora di più un contesto storico al quale viene affidata quasi completamente certa drammatizzazione. Nonostante l'abbandono sia un tema predominante e le tensioni non manchino, infatti, il succedersi degli accadimenti viene osservato passivamente, nell'attesa di una morale finale che dia un senso al placido e convenzionale svolgimento nel quale tutto viene reso digeribile. Per ogni tipo di pubblico.
Mattia Pasquini
Mattia Pasquini
Nato sullo scioglimento dei Beatles e la sconfitta messicana nella finale di Coppa del Mondo, ha fortunosamente trovato uno sfogo intellettuale e creativo al trauma tenendosi in equilibrio tra scienza e umanismo. Appassionato di matematica, dopo gli studi in Letterature Comparate finisce a parlare di cinema per professione e a girare le sale di mezzo mondo. Direttore della prima rivista di cinema online in Italia, autore televisivo, giornalista On Air e sul web sin dal 1996 con scritti, discettazioni e cortometraggi animati (anche in concorso al Festival di Cannes), dopo aver vissuto a New York e a Madrid oggi vive a Roma. Almeno fino a che la sua passione per la streetart, la subacquea, animali, natura e ogni manifestazione dell'ingegno umano non lo trascinerà altrove.

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Come non mancano momenti di didascalica retorica, che nascondono ancora di più un contesto storico al quale viene affidata quasi completamente certa drammatizzazione. Nonostante l'abbandono sia un tema predominante e le tensioni non manchino, infatti, il succedersi degli accadimenti viene osservato passivamente, nell'attesa di una morale finale che dia un senso al placido e convenzionale svolgimento nel quale tutto viene reso digeribile. Per ogni tipo di pubblico.Quando Hitler rubò il coniglio rosa, la recensione dell'adattamento di un classico