Gran Torino: recensione del film con Clint Eastwood

Gran Torino

Un monumento vivente del cinema come Clint Eastwood non può sbagliare un colpo, nemmeno raccontando una storia semplice, e molto americana, come il suo ultimo Gran Torino. Clint questa volta si mette nei panni di Walt Kowalski, veterano della guerra in Corea, razzista, nazionalista, ultra-conservatore, con la bandiera americana che sventola sul suo portico, probabilmente elettore di Bush figlio per ben due volte, incompreso dai suoi figli (e nuore vipere e nipoti opportunisti), presta le sue uniche attenzioni alla sua Gran Torino del ‘72, frutto di una vita passata a lavorare per la Ford, portandolo ad un’avversione naturale verso chiunque si permetta il lusso di comprare auto che non siano americane (i figli in primis).

 

Ha messo su una corazza così dura che è (quasi) impossibile scalfirla, deve proteggersi in continuazione dai musi gialli che hanno messo piede nel suo quartiere e ora sono i suoi vicini di casa. Ma ecco che i due ragazzi Hmong che gli abitano accanto riescono a fare breccia nel suo animo: sebbene abbiano la stessa età dei suoi nipoti, Sue e Thao non si sono lasciati corrompere dalla civiltà consumistica occidentale, ma hanno saputo conservare e rispettare le loro tradizioni asiatiche, così come Walt avrebbe voluto facessero i suoi nipoti.

Gran Torino filmClint Eastwood continua dunque sulla scia della sua ultima produzione, regalando agli spettatori un film essenziale, con lui al centro, protagonista incredibile che si confronta con le sue convinzioni e il suo presente, con la storia che è stata e con quello che è adesso. Ma il regista, vera e propria leggenda del cinema, riesce con un’essenzialità incredibile a portare sullo schermo pregiudizi, conflitti, relazioni, conversioni. Prende tutta l’umanità che lo circonda, nella maniera più essenziale possibile, e la trasforma in una poesia ruvida ma vibrante, concisa ma pregna di emozione.

Reduce dal trionfo di Million Dollar Baby e dal suo straordinario dittico bellico, Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, Eastwood torna nella provincia americana, che sembra non stancarsi mai di raccontare con un occhio saggio ma spietato. Che sia poi un testamento di revisionismo personale non c’è da escluderlo, dal momento che nella vita vera, l’uomo Clint Eastwood è sempre stato un repubblicano convinto, non troppo diverso dal protagonista del film, tuttavia, forse proprio come Walt, nella sua maniera granitica e introversa, il regista sembra porsi domande anche sulla sua stessa vita, sul suo modo di affrontare le cose, sulle posizioni sempre molto nette nella sua carriera. Questo aspetto personale si è sempre scontrato con la grande sensibilità che ha dimostrato nel corso di una carriera in continuo crescendo. Un netto passo in avanti da quell’attore belloccio con “sole due espressioni”.

La narrazione di Gran Torino è seguita in maniera semplice e lineare, i dialoghi sono cuciti addosso al personaggio (gag strepitose sono quelle tra Walt e il barbiere di origini italiane) e gli eventi portano naturalmente a un climax di tensione che si scioglie in lacrime amare. Nessun effetto speciale, flashback, flashforward, nessuna inquadratura manieristica, eppure il grande cinema si riconosce in questo film: la semplicità è sempre la miglior scuola.

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Chiara Guida
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Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice di Cinefilos.it, lavora come direttore della testata da quando è stata fondata, nel 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.
gran-torinoClint Eastwood continua dunque sulla scia della sua ultima produzione, regalando agli spettatori un film essenziale, con lui al centro, protagonista incredibile che si confronta con le sue convinzioni e il suo presente, con la storia che è stata e con quello che è adesso.