
In questi giorni qui al Lido non si
capisce più niente. Ti alzi la mattina e vedi un sole stupendo,
così decidi finalmente di mettere quei vestiti moda mare Positano
che ti eri portata e non vedevi l’ora di indossare. Appena entri in
sala però inizia la crioterapia, ma tu ormai dopo anni di Mostra,
sai benissimo cosa devi fare. Quindi tiri fuori dalla borsa un
piumone, i paraorecchie e la cuffietta, fai il gesto dell’ombrello
agli omini che lavorano in sala e che hai ammorbato per anni sulla
temperatura interna e ti godi il film. Alla fine, mentre riponi
tutto, prendi gli occhiali da sole ed esci dalla sala in tenuta
estiva inizi a capire che il meteo, qui, non esiste. E infatti tira
un vento gelido che tu ti chiedi se in sala ce sei davvero stata
solo 105 minuti, giusto il tempo di conoscere quell’uomo demmerda
protagonista dell’ultimo film di Sebastiano Riso,
o ce sei stata 4 mesi. Forse è Natale. Cerco un caldarrostaio ma
trovo solo file, file ovunque. File per fa pipì, file per entrare
al bar, file per passare da un lato all’altro. Perché ormai siamo
in modalità controlli. E se passi settordici volte dallo stesso
posto comunque te devono ricontrollà. Che io ormai passo e dico ai
tizi dei controlli ‘ciao Mimmo!’, ‘Ciao Giulio!’, ‘Ciao
Marinelli!’, e loro me rispondono ‘pure oggi te sei portata tre
bustine di oki o una l’hai presa?’. Ieri non trovavo un mazzo di
chiavi, volevo chiamarli per chiedergli se si ricordavano se erano
nella borsa blu o rossa. Va bene. Ieri sera c’è stato il premio
Kineo, una roba piena di Vip e Star tipo Claudia
Cardinale e Susan Sarandon, che in verità, se la vedi nei selfie
che si sono fatti con lei certi colleghi e che girano su facebook
ha la costante espressione di chi ammazzerebbe volentieri qualcuno,
compresa sé stessa. Ci eravamo preparati, soprattutto le
femminucce, e così ci siamo vestite in lungo come delle autentiche
star. Peccato che dopo una giornata di sole, s’è messo a scrosciare
che manco in Noah di Aronofsky (che aspettiamo per domani
con il nuovo Mother. 
Vì
A proposito di giapponesi. Ieri sera ero un po’ stanchino e volevo andare a letto presto, così ho cercato una pellicola serale gentile e di breve durata che conciliasse il sonno. Caniba, documentario di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor è sostanzialmente una lunga intervista a Issei Sagawa, un simpaticone nipponico amante della cucina francese, che nel 1986 alla Sorbona uccise brutalmente e mangiò una sua compagna di classe (francese) dal culotto prosperoso, che costituì la base per il primo boccone. Fin qui cosucce. Ma essendo il figlio di un importante industriale, ar gabbio dove secondo quelli che non sanno reggere gli scherzi dovrebbe stare, ci ha passato tipo un quarto d’ora, ha salutato i secondini, ha scureggiato ed è uscito. Ora c’ha tipo cento anni e vegeta assistito da una badante popputa che si veste come una cameriera sexy ed evidentemente è la conferma del fatto che le donne con le tette troppo grosse non sono intelligenti, ma non vi offendete. Vale solo per le giapponesi. Ora, Sagawa, non potendo lavorare, vive della notorietà dovuta a questa sua simpatica boutade, fa ospitate nei talk show e in discoteca manco avesse fatto il Grande Fratello e pubblica fumetti porno dove racconta esplicitamente i dettagli della sua bravata giovanile. Ma non pensiate che nessuno lo redarguisca, eh. Con lui c’è il fratello – un altro tipo che te lo raccomando – che non fà che dirgli di aver fatto una cosa orribile e che non riesce a capire come sia possibile che gli editori gli abbiano pubblicato quella merda. Poi più avanti nel film si scopre che anche il fratello ha delle simpatiche abitudini, come auto-provocarsi ferite gravissime su un braccio e succhiare il suo stesso sangue ma – come dice spesso – “rispetto a quello che ha fatto mio fratello sono bazzecole”.

Ang
