La prima stagione di Lucifer inaugura un universo dove il crime da quaranta minuti alza costantemente l’asticella grazie a un protagonista capace di cannibalizzare la scena con carisma e ironia. Fin dal pilot – elegante nella confezione ma narrativamente ancora prudente – la serie dichiara il proprio impianto: fish out of water con accento britannico, sorriso beffardo e una voragine interiore che chiede di essere colmata, mentre Los Angeles (e il club Lux) diventano palcoscenico di una commedia nera sul senso di colpa. La scelta di far collaborare il Diavolo con la polizia non è solo un espediente per incasellare il racconto nel procedural, ma il modo più rapido per mettere Lucifer in attrito con l’umanità; e se l’indagine settimanale è spesso il segmento più scolastico, è nelle fratture tra caso e confessione che il personaggio trova la sua ragione d’essere.
Dal pilot alla costruzione del mito: quando l’intrattenimento incontra la teologia pop
Il pilot scorre senza inciampi, appoggiandosi quasi totalmente al magnetismo di Tom Ellis, che trasforma Lucifer Morningstar in una maschera pop irresistibile: seduzione e sarcasmo, onnipotenza e vulnerabilità, blasfemia e bisogno di essere visto. L’impianto fumettistico Vertigo viene addomesticato rispetto alle suggestioni più cupe: scelta che potrà deludere i puristi, ma che consente alla serie di dialogare con un pubblico ampio. La somiglianza estetica con altri fantasy-crime Fox (Sleepy Hollow su tutti) non è casuale e rimanda a un immaginario lucido, patinato, nobilitato dalla regia dei primi episodi. Così, mentre il caso Delilah mette Lucifer sulla strada della detective Chloe Decker (ottima Lauren German, controcampo pragmatico e ferito), si definisce la vera architettura del racconto: non “chi ha ucciso?”, ma “chi sei, davvero, quando smetti di mentire a te stesso?”.
Identità, libero arbitrio e umanità: il filo rosso che tiene insieme i personaggi
La stagione lavora a strappi, ma il tema del libero arbitrio resta la cucitura che non salta mai. Lucifer è il ribelle per antonomasia, eppure il suo desiderio di scegliere – l’umanità, la mortalità, l’amore – lo rende più umano degli umani. La linea Maze (Lesley-Ann Brandt) si fa via via centrale: la fedeltà al “padrone” vacilla, emergono gelosie e bisogni non negoziabili, e il demone scopre che anche l’inferno dell’identità può essere rinegoziato. Amenadiel (D.B. Woodside) entra in scena come antagonista teologico, poi si rivela detonatore drammaturgico: spinge, tenta, manipola, e costringe Lucifer a prendere posizione. Le sedute con Linda (Rachael Harris) sono le valvole di decompressione e, insieme, il dispositivo critico con cui la serie verbalizza i suoi dilemmi: colpa, perdono, fallibilità. Quando la scrittura mette questi elementi in primo piano, Lucifer abbandona l’inerzia del procedurale e si fa racconto morale travestito da intrattenimento.
L’alchimia del cast e il turning point: quando la serie smette di nascondersi
Il cast corale funziona perché distribuisce peso e ritmo: Dan (Kevin Alejandro) è l’ambiguità quotidiana, Trixie (Scarlett Estevez) l’innocenza che smonta le pose, Ella arriverà più avanti ma qui il perno è la coppia Ellis–German, capace di generare una chimica “platonica” che non anestetizza la tensione, anzi la carica di ironia e tenerezza. Tra gli episodi, 1×06 “Favorite Son” e 1×09 “A Priest Walks into a Bar” segnano due snodi: il primo svela crepe e ossessioni del protagonista; il secondo eleva il tono con un confronto sulla fede che scavalca la formula case of the week e consegna momenti di autentica emozione. È qui che Lucifer smette di nascondersi: abbassa il volume dello sberleffo e fa parlare la ferita, lasciando intravedere il cuore tragico sotto il glamour.
I limiti del procedural e i meriti della messa in scena: ritmo, musica, città-personaggio
Non tutto fila, e va detto con chiarezza. La componente investigativa resta spesso piatta e intercambiabile; alcuni episodi centrali soffrono di allungamenti, ripetono pattern (entrata in scena, indizio ironico, tentazione, confessione), mettono il pilota automatico. Ma la confezione tiene il quadro: Los Angeles è città-personaggio, il Lux un teatro di specchi, e la colonna sonora – volutamente peccaminosa – funge da commento psicologico puntuale. Quando la regia indulge nel patinato è perché la serie sceglie consapevolmente il registro pop, e lo fa senza complessi, cercando un equilibrio tra noir levigato e allegoria teologica. L’ultimo tratto di stagione accelera: la vulnerabilità di Lucifer in presenza di Chloe riorganizza i rapporti di forza, #TeamLucifer prova a sporcarsi le mani con il satanismo “di superficie”, e il cliffhanger pre-finale promette che il gioco, d’ora in poi, si farà più grande dei singoli casi.
Giudizio: il diavolo nei dettagli (giusti)
Lucifer S1 è, insieme, promessa e fondazione: intrattenimento brillante sostenuto da un protagonista “larger-than-life”, che funziona anche quando la trama poliziesca non incide. I puristi Vertigo possono rimpiangere spigoli levigati, ma la serie – proprio grazie a quella levigatezza – costruisce un mito accessibile, capace di parlare a domande universali con strumenti pop. Quando ascolta i suoi personaggi e lascia emergere il tema del perdono (degli altri e di sé), la stagione trova un respiro che va oltre la formula e prepara il terreno a sviluppi più ambiziosi. Non è perfetta, ma è già necessaria: perché dietro il sorriso di Lucifer, la serie intercetta la nostra fragilità più contemporanea, il bisogno di scegliere chi essere, anche quando il mondo ci ha già etichettati.
Lucifer - Stagione 1
Sommario
Stagione d’esordio brillante trainata dal carisma di Tom Ellis e dalla chimica con Lauren German; i picchi emotivi di 1×06 e 1×09 mostrano il potenziale tra mito e introspezione. Limiti: casi “case of the week” spesso piatti e ritmo altalenante. Solida base che prepara sviluppi più maturi.

