Dopo l’anno sabatico, che si è poi
scoperto essere nient’altro che un esperimento fatto insieme
all’amico Casey Affleck, l’amato e talentuoso Joaquin Phoenix torna
al lavoro, e a quanto pare lo fa con una pellicola molto discussa e
molto attesa.
Pare infatti che Joaquin sia in
trattative per il ruolo di Henry Sturgess nel film Abraham Lincoln:
Vampire Hunter. Diretto da Timur Bekmambetov e prodotto da Tim
Burton e dalla 20th Century Fox, il film può già contare su
Benjamin Walker per il ruolo protagonista. Sturgess è un altro
personaggio importante: un vampiro che incontra il giovane Lincoln
e gli salva la vita durante la lotta con un’altra e più feroce
creatura della notte. I due fanno amicizia e Sturgess diventa una
specie di mentore per il ragazzo e lo addestra per combattere i
suoi simili.
Padre novello, nominato all’Oscar e
in lizza per il ruolo da protagonista nell’adattamento della saga
kinghiana della Torre Nera. La carriera di Javier Bardem è sempre
più slanciata e ora arriva anche la notizia che potrebbe
avere un ruolo di primo piano anche nel 23esimo film di James
Bond.
E’ stato pubblicato il trailer di The Conspirator, nuovo film da
regista per Robert Redford, con un cast davvero interessante: Robin
Wright, James Mcavoy, Evan Rachel Wood, Kevin Kline, Alexis Bledel,
Toby Kebbell, Danny Huston, Johnny Simmons, Stephen Root, Justin
Long e Tom Wilkinson.
Il regista Michele Soavi autore de “Il sangue dei vinti” è
stato accostato recentemente a Nicolas Cage. A quanto pare è stato
proposto all’attore americano il ruolo del protagonista del suo
prossimo film Treasure of Pompeii, un racconto famigliare in stile
Goonies ambientato a Pompeii, che apparentemente dovrebbe essere il
prossimo progetto di Soavi.
Nicolas Cage è attualmente impegnato sul set di Ghost Rider 2, e
dovrebbe in seguito girare anche National Treasure 3. Non si sa
nient’altro sulla notizia, ma dall’agenda apprendiamo che l’attore
sia abbastanza impegnato.
In Into Paradiso
Alfonso (Gianfelice Imparato) è un ricercatore
scientifico napoletano recentemente licenziato che, superata la
cinquantina, deve reinventarsi una vita e trovare un nuovo lavoro.
Un suo amico gli consiglia di chiedere aiuto ad un vecchio
conoscente, ora noto politico, Vincenzo (Peppe
Servillo) e farsi raccomandare. Gayan (Saman
Anthony) è un ex campione di cricket dello Sri Lanka, che
pensa di trovare una vita migliore in Italia, rispetto ad un futuro
come modesto cronista sportivo in patria. Ad alimentare questa
illusione è stato il cugino, che ha raccontato diverse bugie sul
suo stile di vita nel nostro paese.
Gayan si ritrova così a dover
vivere in un lavatoio sul tetto di un palazzo del quartiere Cavone
a Napoli, in cui realmente vivono molti cingalesi, e a dover fare
da badante ad un’anziana signora altoborghese appassionata di
telenovele sudamericane. Vincenzo, candidato alle prossime
elezioni, viene convocato e costretto da un capo locale della
camorra a far consegnare un “pezzo” ad alcuni suoi scagnozzi, il
politico non vede persona migliore del disperato Alfonso per
svolgere questa missione, che viene illuso di stare portando un
regalo ad un fantomatico rettore di università. La consegna va male
oltre ogni aspettativa e la storia si complica. Alfonso trova
rifiugio nel palazzo dei cingalesi e nel casotto di Gayan, Vincenzo
va alla sua ricerca, con la missione di metterlo fuori gioco,
obbligato dalle minacce del camorrista.
Into Paradiso, il film
Il resto della storia quindi
si sviluppa attorno al terrazzo dal quale Alfonso non può scendere,
la sedia a cui viene legato Vincenzo per evitare di commettere
sciocchezze e il paese in cui Gayan è costretto a restare contro la
sua volontà. Il film di Paola Randi, che esce il
10 febbraio in sole 30 copie, è frutto di un’impressione: durante
una passeggiata per Napoli, la regista ha visto un gruppo di
ragazzi cingalesi giocare a cricket con accanto un gruppetto di
ragazzini italiani che giocavano a calcio. Da qui l’idea di
raccontare una storia di convivenza ma anche di costrizione, come
precisa durante la conferenza stampa Peppe
Servillo, voce degli Avion Travel
prestata al cinema, che ha un ruolo anche nella colonna sonora,
visto che le musiche sono realizzate da un altro componente del
gruppo napoletano: Fausto Mesolella.
Più che di coabitazione,
Into Paradiso narra infatti lo estraniamento e la
reazione al cambiamento dei personaggi principali. Alfonso si deve
rimettere in gioco ad un’età in cui normalmente si dovrebbero avere
delle certezze, di colpo perde il lavoro e, a causa di
Vincenzo, si trova in una situazione che non gli appartiene,
rinchiuso in un luogo che è in Napoli, ma in cui i napoletani sono
gli estranei che lo vogliono morto, mentre i normalmente
“stranieri”, i cingalesi, sono coloro che lo aiutano. Vincenzo,
d’altronde si trova costretto in una complicazione che non aveva
pianificato. E’ l’unico effettivamente in prigionia, visto come
viene legato alla sedia e reso inoffensivo dai tranquillanti che
Alfonso gli somminstra.
Gayan è invece emigrato in un paese
che non ha niente in più da offrirgli rispetto a quello di origine,
che anzi gli prometteva un lavoro adatto alle sue competenze. Il
suo problema è pratico: deve trovare i soldi per comprare il
biglietto di ritorno in Sri Lanka. Intorno a tutto ciò c’è Napoli,
che non è però protagonista ingombrante di Into
Paradiso, come spesso accade. Il tutto si racchiude nei
pochi metri quadri del casotto e nella stanza della signora bene
dove lavora Gayan. I camorristi, il motore della storia, sono
tratteggiati in maniera quasi comica, ognuno perfettamente aderente
allo stereotipo del mariuolo un po’ guascone. A differenza di ciò
che avviene in molte altre storie di questo tipo in cui i due
personaggi costretti a convivere alla fine perdono di vista il
proprio obiettivo iniziale in nome della nuova amicizia, i due
personaggi principali sono molto razionali nel perseguire la loro
missione di tirarsi fuori dai guai.
La logica di Into
Paradiso è permeata però da momenti realmente onirici: la
regista ammette infatti una certa fascinazione per gli effetti
girati nel momento di ripresa o realizzati non in postproduzione.
Fatto che dà vita a due sequenze molto interessanti che non sono un
“corpo estraneo” ma sono perfettamente inserite nella dinamica
della storia. Nella prima, Alfonso ricostruisce il delitto a cui ha
assistito e che lo ha portato in quella situazione: crea un
plastico sul quale viene proiettata, su diversi angoli, la scena a
cui ha assistito e con la quale lui interagisce. La seconda è un
sogno girato a passo uno nel quale Alfonso immagina di sedurre
l’affascinante cugina di Gayan. Queste ed altre sono alcune
soluzioni che rendono il film molto divertente, di certo con alcuni
punti da smussare, ma sicuramente una buona prima prova da regista
per Paola Randi.
Un diabolico Anthony Hopkins in
testa al BOX Office Usa. Non poteva essere altrimenti. Una commedia
senza troppe pretese di essere la più demenziale al mondo, ma, anzi
con velleità di essere sofisticata non poteva non cedere all’uscita
di un “filmone de paura” in cui Anthony Hopkins dà nuovamente
il volto ad un personaggio controverso; The Rite
infatti, con un incasso di 15 milioni di dollari realizzato nella
prima settimana di uscita scalza dalla vetta No strings
attached “rom-com” con Natalie Portman e il signor “Demi
Moore” Ashton Kutcher,che segue il primo in classifica con un
incasso lordo di 13,7 milioni di dollari.
In terza posizione un film
d’azione: The mechanic in cui Jason Statham,
attore scoperto da Guy Ritchie ma ormai abbonato ai ruoli da duro
ha a che fare con un apprendista mercenario.
Il film che ha ottenuto più
candidature ai prossimo Oscar, The king’s speech,
si ferma alla quarta posizione, il film, uscito lo scorso 28
Novembre, totalizza ad oggi un incasso lordo di 57 milioni di
dollari.
Il nuovo film dei fratelli Coen,
anch’esso sicuro protagonista della serata al Kodak Theatre,
True Grit, scende in sesta posizione.
A seguirlo, la commedia di Ron
Howard con protagonista Vince Vaughn The
dilemma.
Black swan di
Darren Aronofsky convince critica e le giurie dei premi ma a quanto
pare non il pubblico, visto che non riesce ad abbandonare la zona
bassa della classifica, dove resta in ottava posizione con un
incasso lordo di 50 milioni di dollari a fronte delle oltre 5
settimane di uscita.
Anche The fighter
con Melissa Leo, Mark Whalberg e Christian Bale rimane in nona
posizione, nulla hanno potuto i Golden Globes ottenuti dagli
attori.
A chiudere la classifica,
Yogi bear che totalizza 92 milioni di dollari di
incasso a un mese dall’uscita.
Week end dominato ancora una volta
dalle commedie italiane, rispettivamente
Qualunquemente, Immaturi e Che bella
giornata. Buon esordio per Parto col Folle e Il
discorso del re, ma le altre new entry non si piazzano nemmeno
nella top10. Per sapere i risultati al box office italiano…
Qualunquemente mantiene la testa
della classifica italiana dei film più visti del weekend, ottenendo
3,7 milioni di euro che gli consentono di giungere a 11,3 milioni
complessivi in dieci giorni. La commedia con Antonio Albanese è
però tallonata da Immaturi, che ha migliorato la propria tenuta
rispetto all’esordio, incassando altri 3,5 milioni per 8,4 milioni
totali: un risultato inaspettato, considerando l’ “overdose” di
commedie nelle sale italiane da almeno un mese.
Che bella giornata perde una
posizione, con 1,9 milioni raccolti negli ultimi tre giorni che gli
consentono di arrivare a ben 41,6 milioni complessivi: il film di
maggiore incasso della stagione è proprio l’opera seconda di Checco
Zalone, che sta ottenendo cifre da capogiro difficilmente
raggiungibili.
Sorprende il quarto posto di Parto
col folle con i suoi 1,4 milioni: ancora una commedia nelle prime
posizioni, segno che il periodo è decisamente fortunato per il
genere.
Si cambia decisamente tono con Il
discorso del re, che debutta in quinta posizione con 953.000 euro:
di sicuro un ottimo risultato per una pellicola puramente british
che in altre circostanze non avrebbe suscitato interesse nel nostro
Paese. Invece, grazie alle 12 nomination agli Oscar, ai numerosi
premi vinti e al suo attuale status di pellicola favorita ai
prossimi Academy Awards (non soltanto per la splendida
interpretazione di Colin Firth), il film potrà riscontrare una
buona tenuta nelle prossime settimane, grazie al passaparola e alla
curiosità generata dai vari riconoscimenti ottenuti.
Vallanzasca – Gli angeli del male
scende al sesto posto con 628.000 euro per 2 milioni complessivi:
il film di Michele Placido sta registrando una performance al di
sotto delle aspettative. Potremmo dunque pensare che il film
avrebbe ottenuto una prestazione positiva se fosse stato
distribuito qualche mese fa, poco dopo la Mostra di Venezia dove fu
presentato.
Settimo posto e 480.000 euro per
Animals United, arrivato a 1,4 milioni, e seguito da The Green
Hornet: la new entry ha ottenuto un’accoglienza molto fredda, di
certo influenzata dal 3D che, ultimamente, allontana gli spettatori
invece di attirarli.
A chiudere la top10 troviamo Vi
presento i nostri (401.000 euro) e Hereafter (300.000 euro),
arrivati rispettivamente a 4,6 e 7,1 milioni totali.
Da segnalare infine il pessimo
risultato di altre due novità del fine settimana: Febbre da fieno,
presentato in molti festival internazionali, si rivela un vero e
proprio flop con i suoi 63.000 euro e il quattordicesimo posto
ottenuto. Discorso simile per Vento di Primavera, quindicesimo,
uscita tecnica in occasione della Giornata della Memoria, che
debutta con appena 52.000 euro (72.000 euro nei quattro
giorni).
‘Le avventure di un Monarca
riluttante’, questo potrebbe essere un sottotitolo adatto per
Il Discorso del Re, bellissimo film di
Tom Hooper, in questi giorni nelle sale. La storia
è semplice, ben scritta e magistralmente interpretata: quando Re
Eduardo VIII abdica per poter sposare una donna divorziata, tocca
al timido Bertie, secondogenito di Giorgio V, salire al trono, con
il nome di Giorgio VI.
Il Discorso del Re, la trama
Bertie però non è solo timido, ma è
balbuziente, un vero e proprio handicap per un re che dovrebbe
guidare il suo popolo in una guerra mondiale, la Seconda,
attraverso l’utilizzo della nuova tecnologia radiofonica. Il film
si apre su un discorso fallimentare che Bertie, all’inizio Duca di
York, non riesce a pronunciare in pubblico a causa della sua
invadente balbuzie.
In questo modo veniamo
immediatamente proiettati nel cuore della vicenda, e nel dramma di
quest’uomo che si vede impedito a svolgere i suoi doveri di
componente della famiglia reale; il regista Tom
Hooper si incolla così al suo protagonista, dall’inizio il
suo problema, la sua difficoltà diventa la nostra e la sua ansia è
condivisa con il pubblico che incondizionatamente si pone dalla
parte di quest’uomo che avendo tutte le caratteristiche dell’uomo
comune, è costretto dagli eventi ad assumere un ruolo
straordinario. Ben presto si accorgerà di esserne all’altezza, ma
non prima di aver mostrato la sua umanità, la sua irascibilità e il
suo temperamento orgoglioso.
A capo di questa messa in scena
eccellente il grandissimo Colin Firth, che già ha impressionato lo
scorso anno nella sua interpretazione del dolore in A Single Man, e che adesso incanta e
commuove con la sua performance ne Il Discorso del
Re: l’imponenza fisica e la duttilità attoriale di
Colin sono state messe a disposizione di un personaggio, il lavoro
mimetico, dal gesto, alla postura, alla dizione, tutto è stato
curato nel minimo dettaglio e il risultato è straordinario. Firth
riesce ad apparire fragile, nonostante la sua imponenza, a sembrare
sconfitto nonostante l’immensa statura morale del suo personaggio,
lui è Giorgio VI. Accanto a Colin Firth traviamo due attori di ottimo
livello: Helena Bonham Carter, che interpreta la
consorte Elizabeth, e Geoffrey Rush, nel ruolo del
controverso logopedista che viene incaricato di guarire il futuro
sovrano, Lionel Logue.
Entrambi gli attori sono
perfettamente all’altezza dei ruoli loro assegnati, e se la Carter
appare una discreta ma salda spalla per Bertie, Geoffrey Rush da
vita ad un personaggio spiritoso, ironico e decisivo per lo
svolgimento narrativo della vicenda. A quanto pare l’attore si
trova molto bene a corte, più che altro nei ruoli di consigliere o
amico reale! Da sottolineare anche la presenza molto breve di
Timothy Spall che interpreta Winston Churchill.
L’attore ritrova la Carter con la quale ha già lavorato in
Sweeney Todd,
Alice in Wonderland e nella saga di Harry
Potter e anche lui si conferma un ottimo attore capace
di un lavoro mimetico davvero notevole.
Ma artefice della bellezza del film
è in primis Hooper, che con una regia molto visibile segue i suoi
personaggi e li posiziona con precisione all’interno del quadro,
privilegiando il decentramento del soggetto e lasciando respirare
l’inquadratura, riprendendo grandi pareti spoglie e ponendo il
personaggio in un angolo, a voler lasciare spazio intorno, a voler
far vedere oltre per far respirare il quadro, e con esso lo
spettatore, proprio come il re balbuziente impara a fare a poco a
poco da Lionel. L’elegante e preciso balletto che Hooper mette in
scena con i suoi attori è coronato e perfezionato
dall’accompagnamento musicale di Alexandre
Desplat, che con discrezione prima e con decisione poi
accompagna nel giusto modo la vicenda, senza imporsi ma rimanendo
sempre presente, accompagnando.
La grande forza de Il
Discorso del Re però è insita nella storia e nella
straordinaria empatia che riesce ad instaurare con il pubblico,
nell’altissimo grado di tensione che riesce a trasmettere e nella
grande emozione che restituisce. Non è solo tanta bella forma, come
solo le produzioni inglesi sanno fare, è anche tanto significato,
una storia di grande forza e grande umanità, con una bellissima
sceneggiatura, attenta e calibrata e avvalorata dalla storia vera
che il film racconta, in una confezione perfetta, coronata da
Colin Firth nella sua interpretazione più
bella (e forse anche fisicamente impegnativa) di sempre.
In un mondo in piena rivoluzione,
quando la comunicazione (e i mezzi di comunicazione) comincia a
diventare davvero importante attraverso i mass media (la
radio), cosa che il film sottolinea più volte, un uomo riesce a
superare i propri limiti ed a diventare un simbolo sotto il
quale un intero impero si rifugerà durante il secondo conflitto
mondiale. Assolutamente un film da vedere, e di rigore, in versione
originale!
Arriva a cinema distribuito da Sony
Pictures Releasing Italia Burlesque, il nuovo musical
diretto da Steve Antin con
Kristen Bell, Cher,
Stanley Tucci, Eric Dane, Cam Gigandet, Alan Cumming, Julianne
Hough, Peter Gallagher, David Walton, Wendy Benson-Landes, Stephen
Lee, Katerina Mikailenko
In Burlesque La giovane
cameriera Ali (diminutivo di Alice) decisa e con una voce
spettacolare sogna di cambiare vita, e si trasferisce dall’Iowa a
Los Angeles, dove per caso e per determinazione entra a far parte
del corpo di ballo del Burlesque Lounge, un teatro che offre
spettacoli di varietà molto apprezzati dal pubblico pagante. Qui fa
amicizia con la proprietaria Tess, con il bel barista Jack e con il
costumista, Sean. Tra piccole invidie e grandi amicizia Ali
riuscirà a raggiungere il successo ed a trovare l’amore.
Questo è
Burlesque, per il quale poche righe bastano a
tratteggiare per sommi capi una delle trame più banali degli ultimi
tempi che vede protagoniste tante belle donne ma davvero poca
sostanza. Ma scendiamo nel dettaglio: la giovane protagonista è
interpretata da Christina Aguilera, la nota
cantante che con questo film debutta al cinema. Christina non
lascia spazio all’immaginazione, se da un lato si vede benissimo
che non è un’attrice, prova ne è la mediocre interpretazione,
dall’altro si conferma grande performer, catalizzando l’attenzione
su di sé con la sua presenza scenica e le sue grandi doti canore
(com’è possibile che quel corpicino contenga una voce del
genere?).
A far da mentore alla giovane
ragazzina campagnola una più che mai pallida Cher
che sprezzante del tempo che passa, si presenta sempre in ottima
forma fisica, peccato che le sue belle espressioni facciali che le
valsero l’Oscar per Stregata dalla Luna siano sparite
molti interventi chirurgici orsono! Fortuna che la sua profonda e
particolare voce è (più o meno) rimasta la stessa, come ci
testimonia il brano You Haven’t Seen the Last of Me,
vincitore del Golden Globe e cantato splendidamente in una scena
che sembra un tributo all’attrice/cantante, forse necessario per
renderla un po’ più partecipe di un film che ruota assolutamente
intorno alla bella Christina.
Se il mondo delle paillettes e
delle belle donne ha sempre il suo fascino, per
Burlesque si fa un’eccezione: la quasi totale
assenza di spunti narrativi rende il film molto noioso e
sicuramente più di uno spettatore noterà le molte somiglianze con
altre trame, dal piccolo e divertente Le ragazze del Coyote
Ugly, al più noto e maestoso
Moulin Rouge, con il quale ha in comune il numero di
Diamonds are a Girl’s Best Friends. Non pensiamo certo di
scomodare la memoria della divina Marilyn, ma
anche il confronto con la ‘poco meno divina’ Nicole Kidman è perso in partenza! Ma tra il
vecchio (Cher) e il nuovo (Aguilera) ecco spuntare nella trama
anche il semi-nuovo (o semi-vecchio che dir si voglia) e quindi
ecco il personaggio di Nikki, interpretato da Kristen
Bell, stella del Burlesque Lounge soppiantata dalla più
brava e diligente Ali. L’idea di un personaggio che introducesse un
elemento di conflitto nella linearità della vicenda è sicuramente
buona, ma sviluppato in maniera pessima questo spunto si affloscia
su se stesso, risultando solo un altro dei tanti elementi che nel
film non funzionano.
Per quanto riguarda i maschietti
del film invece qualche parola va sicuramente spesa per Stanley Tucci, che si trova ad interpretare un
ruolo fotocopia di quello del Nigel de Il Diavolo Veste
Prada, ma senza Meryl Streep al suo fianco. Come al solito
impeccabile! E poi ci sono i belli che si contendono le grazie
della protagonista: il giovane e squattrinato Jack (l’ex vampiro
Cam Gigandet), cameriere con ambizioni da
musicista che si innamora perdutamente di Ali; e Marcus
(Eric Dane, Dr. Bollore di Grey’s Anatomy), il
cliente abituale, ricchissimo uomo d’affari che vuole comprare il
locale e circuire la protagonista. In pratica le versioni mal fatte
di Christian e il Duca, co-protagonisti di
Moulin Rouge!
Resta poco altro da dire su un film
che sebbene molto pubblicizzato resta una brutta delusione. Una
regia timida, una sceneggiatura debolissima e degli interpreti che
guidati diversamente avrebbero potuto fare sicuramente meglio.
Bocciato il regista e sceneggiatore Steve Antin,
alla sua prima prova cinematografica, promosso con la sufficienza
Christophe Beck compositore della colonna sonora del film, buono il
lavoro di scenografia e costumi. Molto bello invece il numero di
chiusura, sulla note di Burlesque cantata dalla Aguilera, che
lascia una bella impressione ma non riesce a sopperire ai
precedenti 115 minuti. Peccato, fallire quando a disposizione si
hanno paillettes e belle donne è davvero difficile!
E’ morto John Barry, compositore
famoso per le colonne sonore dei film di James
Bond, ma non solo.Barry aveva all’attivo quattro premi Oscar –
nel 1966 per “Nata libera”, nel 1968 per “Il leone d’inverno”, nel
1985 per “La mia Africa” e nel 1990 per “Balla coi lupi” – ed è
deceduto ieri per un infarto a 77 anni, secondo quanto scrive la
Bbc.
Il suo primo arrangiamento del
theme di James Bond come spalla di Monty Norman in “Agente 007 –
Licenza di uccidere”, lo portò a comporre le colonne sonore per 11
film della serie tra il 1962 e il 1987, tra cui “Goldfinger” nel
1964 (per cui scrisse la canzone cantata da Shirley Bassey,
campione di vendite in tutto il mondo). Con il film successivo
“Agente 007 – Dalla Russia con amore”, Barry ebbe la completa
responsabilità delle musiche componendo in appoggio al James Bond
Theme di Norman il tema d’azione “007” utilizzato poi in altri
episodi.
Per “Agente 007 – Thunderball:
Operazione tuono” ricorse alla voce di Tom Jones, mentre per il
dolce tema di “Agente 007 – Si vive solo due volte” usò quella di
Nancy Sinatra. Con l’uscita dalla serie di Sean Connery e l’arrivo
dell’australiano George Lazenby per “Agente 007 – Al servizio
segreto di Sua Maestà” Barry reinventò il James Bond Theme.
All’anagrafe John Barry Prendergast, era nato nel 1933 a York e
trovò la sua prima notorietà come leader del “John Barry Seven”.
Nel 1971 scrisse il tema della famosa serie tv “The Persuaders”
(“Attenti a quei due”) con Roger Moore e Tony Curtis. Nel 1981
vinse anche un simpatico Razzie Awards, per la peggiore canzone
scritta, assegnato a “The Man in the Mask” del film “The Legend of
the Lone Ranger”.
E’ morto John Barry, compositore
famoso per le colonne sonore dei film di James
Bond, ma non solo.
Barry aveva all’attivo quattro premi Oscar – nel 1966 per “Nata
libera”, nel 1968 per “Il leone d’inverno”, nel 1985 per “La mia
Africa” e nel 1990 per “Balla coi lupi” – ed è deceduto ieri per un
infarto a 77 anni, secondo quanto scrive la Bbc.
Il suo primo arrangiamento del theme di James Bond come spalla
di Monty Norman in “Agente 007 – Licenza di uccidere”, lo portò a
comporre le colonne sonore per 11 film della serie tra il 1962 e il
1987, tra cui “Goldfinger” nel 1964 (per cui scrisse la canzone
cantata da Shirley Bassey, campione di vendite in tutto il mondo).
Con il film successivo “Agente 007 – Dalla Russia con amore”, Barry
ebbe la completa responsabilità delle musiche componendo in
appoggio al James Bond Theme di Norman il tema d’azione “007”
utilizzato poi in altri episodi.
Per “Agente 007 – Thunderball: Operazione tuono” ricorse alla
voce di Tom Jones, mentre per il dolce tema di “Agente 007 – Si
vive solo due volte” usò quella di Nancy Sinatra. Con l’uscita
dalla serie di Sean Connery e l’arrivo dell’australiano George
Lazenby per “Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà” Barry
reinventò il James Bond Theme. All’anagrafe John Barry Prendergast,
era nato nel 1933 a York e trovò la sua prima notorietà come leader
del “John Barry Seven”. Nel 1971 scrisse il tema della famosa serie
tv “The Persuaders” (“Attenti a quei due”) con Roger Moore e Tony
Curtis. Nel 1981 vinse anche un simpatico Razzie Awards, per la
peggiore canzone scritta, assegnato a “The Man in the Mask” del
film “The Legend of the Lone Ranger”.
Sono stati proclamati i vincitori
dell’ultima edizione del Festival ideato da Robert Redford, il
Sundance Film Festival. Il riconoscimento più importante
dell’intero Festival: Il Gran Premio della Giuria, è stato
consegnato a Like Crazy, film che racconta una storia d’amore nata
al college tra uno studente americano e una studentessa
inglese.
Alex Kurtzman e Roberto Orci
sceneggiatori di successo per film come Star Trek, Transformes,
produrranno l’adattamento del romanzo di fantascienza Il gioco di
Ender. Alla regia dovrebbe essere confermato Gavin Hood (Wolverine,
Il suo nome è Tsotsi) che sta ultimando una nuova versione dello
script.
Kurtzman e Orci lo aiuteranno con
la loro casa di produzione indipendente Odd Lot Entertainment. A
rivelarlo è stato lo stesso Orci in un post su Twitter:
Il gioco di Ender! Noi (K/O), la Oddlot e Gavin Hood stiamo
portando questo fantastico script in città. A qualcuno
interessa??
Il romanzo, uscito nel 1985 e vincitore di numerosi premi, è
stato inizialmente adattato dal suo stesso autore Orson Scott Card,
che si sta interessando da vicino delle sorti del film.
In un futuro in cui l’umanità è a mala pena sopravvissuta a due
successive invasioni da parte degli alieni Scorpioni, il romanzo
segue la storia dei bambini più brillanti del mondo, incluso
l’eccezionale Ender Wiggin, che vengono portati nella Scuola di
Guerra in età precocissima: l’intenzione è quella di addestrare i
migliori comandanti in vista dell’imminente Terza Invasione.
Henry Cavill che
ha partecipato alla sfortunata serie The
Tudors interpreterà Clark Kent nel reboot di
Superman, diretto da Zack Snyder e targato WB. La
Major insieme alla Legendary Pictures, hanno annunciato il casting
dell’attore, che sarà sugli schermi a novembre nel ruolo di Teseo
in Immortals. Cavill era già stato opzionato da Zack Snyder per il
suo Superman Returns prima che il ruolo venisse affidato a Brandon
Ruth.
Zack Snyder ha commentato così
l’annuncio del casting di Cavill: Nel pantheon
dei supereroi, Superman è il personaggio più riconosciuto e
riverito di tutti i tempi, e io sono onorato di far parte del suo
ritorno sul grande schermo. Mi unisco alla Warner Bros., alla
Legendary Pictures e ai produttori nel dire quanto siamo eccitati
del casting di Henry. E’ la scelta perfetta per indossare il
mantello e lo scudo con la S.
La ABC sta avviando la campagna
promozionale per la cerimonia degli 83esimi Academy Awards, sono
online due divertenti spot con James Franco e Anne Hataway che
provano lo show!
Pernilla August
dirige Beyond, uno struggente dramma
interiore, la lotta di una donna contro un passato che si era solo
illusa di aver dimenticato.
In Beyond
una giovane donna che vive felice insieme alla propria bellissima
famiglia, una telefonata che improvvisamente la riporta di fronte
ad un angoscioso passato, un passato che si era solo illusa di aver
sepolto nella memoria. Un film che parla di una lotta, la lotta di
Leena contro i ricordi di un’infanzia terribile, una lotta contro
le proprie radici, la fuga da ciò che si credeva ormai
dimenticato. Svezia, oggi. Una giovane donna, Leena (Noomi
Rapace), vive in armonia e serenità con l’amatissimo
marito Johan (Ola Rapace) e le due piccole e bellissime figlie; una
famiglia unita, una famiglia felice.
Una mattina, nel giorno di Santa
Lucia, la serenità di questa famiglia viene interrotta bruscamente
da una telefonata, dall’altra parte del telofono Leena riconosce la
voce roca e malferma della madre (Outi Maenpaa), una madre che non
vede e non sente ormai da molti anni. Leena istintivamente
riattacca ma quando il telefono torna a squillare ed il marito la
obbliga a rispondere nuovamente, non udirà più la voce della madre
ma quella di un’infermiera che le annuncia il desiderio della
donna, ormai molto malata, di vedere la figlia per un’ultima
volta.
Beyond è l’opera
prima di Pernilla August
Improvvisamente riaffiorano dalla
memoria immagini, emozioni e ricordi che Leena si era illusa di
aver sepolto per sempre, reminiscenze di una vita passata,
quell’infanzia traumatizzante al fianco di genitori alcoolizzati e
violenti che si era quasi convinta appartenessero non più a lei, ma
ad un’altra persona. Nel viaggio verso l’ospedale, nell’incontro
con la vecchia madre gravemente malata e riaprendo la porta del
piccolo appartamento teatro della sua tormentata fanciullezza, la
protagonista è continuamente pervasa da ricordi e immagini, flash
back che permettono allo spettatore di conoscere le terribili
esperienze della piccola Leena (Tehilla Blad). Gradualmente e con
angoscia sempre crescente abbiamo così modo di capire cosa induce
Leena a chiudersi anche nei confronti dell’amato marito; i ricordi
del padre Kimmo (Ville Virtanen), emigrante finlandese mai
adattatosi alla moderna Svezia, alcoolizzato e disturbato
mentalmente; la madre, vittima delle violenze del marito ma a sua
volta debole e incline al bere; e sopratutto lo struggente ricordo
del fratellino minore, Sakari, debole ed indifesa vittima di tale
squallore da cui la giovane Leena cerca disperatamente di
proteggerlo.
Beyond è l’opera
prima di Pernilla August, famosa attrice svedese scoperta da Ingmar
Bergman per cui ha recitato prima a teatro e poi per il cinema con
” Fanny e Alexander”; una carriera proseguita in modo brillante e
con diversi riconoscimenti anche internazionali ( miglior
interprete femminile al festival
di Cannes nel 1992 con il film ” Con le migliori intenzioni” di
Billy August ). Il film in questione,
Beyond, che vede il suo esordio alla
regia, narra una storia tratta dal best-seller “Svinalangorna”
dell’autrice svedese-finlandese Susanna Alakoski.
“Quando ho iniziato a lavorare a
questo film” dichiara la regista, “ho pensato che il tema sarebbe
stato: crescere in una famiglia violenta”, una storia sulle
difficoltà e, aggiunge la August, “su quanto sia terribilmente
difficile essere poveri, venire da un altro paese, non parlarne la
lingua”.
Procedendo con la stesura della
sceneggiatura però, la regista svedese si convince che
“sarebbe stato più interessante” afferma lei stessa, “combinare la
storia dell’infanzia di Leena con la storia della sua vita da
adulta e raccontare cosa voglia dire mentire a se stessi e alle
persone che ci circondano”. E’ in questa sua ultima riflessione che
risiede il segreto, l’anima, di questo bellissimo film dalla
coinvolgente e struggente intensità.
Beyond è la storia di una donna e della
sua battaglia per la felicità, una felicità intesa come una vita
tranquilla accanto ad un marito amorevole e due bellissime figlie.
Questa battaglia si disputa contro il proprio passato, un passato
che Leena si illude di aver sepolto, rigettato dalla propria mente,
lasciatosi definitivamente alle spalle. Ma quando questo passato si
ripresenta nella pace del suo presente, tutto quel muro interiore
crolla come un castello di carta e le immagini, le angoscie di
quegli anni terribili riaffiorano spietate e intatte. “Ho capito
che Svinalangorna” afferma sempre la August, ” era un libro sul
vivere dentro e insieme alla menzogna”, ed così che la
protagonista, Leena, interpretata dalla stupefacente Noomi Rapace,
rimane arroccata per quasi tutto il film nei suoi silenzi, nella
tremenda desolazione interiore che la induce ad una totale chiusura
anche e sopratutto verso le persone più care, più amate.
Il dolore di Leena è solo di Leena,
è troppo intimo, un dolore rigettato per anni di duro lavoro
interiore tanto da crederlo non più suo, non reale; un viaggio
dentro i ricordi che non concede aiuti esterni, un viaggio
esclusivamente personale. Eppure tra quei ricordi non c’è solo
violenza e squallore, non c’è spazio solo per le violente litigate
tra i genitori, il padre abbandonato nel salotto agonizzante tra i
suoi rifiuti o la madre ubriaca che non si cura del debole figliolo
in attesa di un pranzo decente. Tra quei ricordi ci sono anche i
pochi momenti felici, gli scostanti gesti di tenerezza del padre, i
consigli della madre ed i suoi racconti su un adolescenza da
provetta nuotatrice, i giochi con l’amato fratellino a cui cercava,
da giovane donna più matura della sua età, di risparmiare le urla e
le scenate dei genitori. Ed è proprio questo che Leena teme, la sua
paura più grande è ammettere e realizzare che quanto lei possa
sforzarsi quella era e rimarrà sempre la sua famiglia, le sue
inestirpabili radici. Quando il suo rifiuto e questo timore
raggiungono l’apice arriva a litigare furiosamente con il marito
Johan, con il quale si abbandona agli stessi isterismi della madre
tanti anni prima in quella stessa casa; a porre fine a
quell’esplosione di ira ci penserà proprio sua madre, la cui morte
è annunciata da una telefonata improvvisa.
Ecco quello che non ti aspetti:
dopo aver mostrato, per tutto il corso del film, prima indifferenza
e poi odio e rabbia verso la madre morente, Leena, alla notizia
della sua morte, scoppia in un pianto disperato e inconsolabile non
riuscendo a dire altro che “la mia mamma…il mio papà…”. Nonostante
tutto erano loro i suoi genitori, erano loro la sua famiglia, bella
o brutta che potesse essere quella era. Non c’è scelta, non c’è
possibilità di accettare o meno, Leena ritrova quel sentimento
filiale, la tenerezza verso persone che a loro modo l’hanno amata e
che a in qualche modo sono stai la “sua mamma” ed il “suo papà”. Un
film dalla potentissima carica emotiva e dall’intensità drammatica
notevole; una schiera di interpreti eccellenti su cui spicca per
bravura e passione recitativa Noomi Rapace, unica tra loro conosciuta al
grande pubblico come la Lisbbeth Salander nella Trilogia Millenium
tratta dai romanzi di Stieg Larsson.
Con il personaggio di Leena,
Noomi Rapace riesce con sorprendente bravura
ad alternare le stesse espressioni dure e severe della Lisbeth di
“Uomini che odiano le donne” con la tenerezza di una madre
amorevole e le sequenze finali dove Leena esplode in tutta quella
disperazione rimasta così a lungo trattenuta. Oltre al bravo Ola
Rapace, marito nella realtà di Noomi e attore e musicista alquanto
amato in patria, sono da segnalare le degnissime interpretazioni di
Outi Maenpaa e di Ville Virtanen, attore,
scrittore e sceneggiatore finlandese. Senza il minimo dubbio una
considerazione particolare va concessa alla giovanissima
Tehilla Blad, Leena da giovane, la quale affronta
un ruolo di tale difficoltà in un film tanto impegnativo con
ammirevole maturità ed indubbia personalità. Sesta di otto
fratelli, tutti impegnati nel mondo dello spettacolo, siamo quasi
certi che di questa piccola grande attrice sentiremo, in futuro,
ancora parlare.
Arriva al cinema Femmine
contro Maschi, contraltare di rito a
Maschi contro Femmine uscito lo scorso ottobre, sempre
per la regia di Fausto Brizzi e sempre incentrato
sulle relazioni di coppia, più o meno verosimili e più o meno
apprezzabili sullo schermo.
Se Femmine contro
Maschi ha sicuramente il buono ed onesto proposito di far
ridere, purtroppo l’intenzione resta tale senza un vero e proprio
slancio di comicità che possa aiutare lo spettatore a godersi il
film. Dei tanti attori che compongono il cast forse solo
Emilio Solfrizzi riesce a strappare qualche
sorriso, soprattutto nei suoi pseudo-razzisti discorsi iniziali e
nella sua messa in scena di difetti e manie così comuni
nell’italiano medio da far pensare allo spettatore: “Sembra mio
zio!” e simili. Il resto del cast, purtroppo, è sacrificato
sull’altare della sceneggiatura, che a detta del regista è
l’elemento fondamentale per un buon film, ma che a ben vedere il
prodotto finale, non sembra poi così sicuro che il nostro Fausto
tenga presente questa dichiarazione!
Femmine contro Maschi, il film
Forse mai così sacrificati,
Claudio Bisio, Ficarra & Picone,
Luciana Littizzetto e tutti gli altri offrono
interpretazioni mediocri: il primo troppo intento a fare se stesso
su un testo che forse non gli suggeriva altro, la coppia di comici
messa alla prova su un banco che davvero non gli appartiene,
essendo la dimensione televisiva molto più consona ai loro modi. La
strizzata d’occhio alla coppia Totò e Peppino, mentre scrivono la
lettera d’amore per il ragazzino non eguaglia certo l’altro omaggio
che i comici napoletano ebbero da
Benigni e Troisi! Ed infine Luciana
Littizzetto che tanto diverte con la sua tagliente e
spietata ironia, ma che così poco bene sta al cinema, anche lei in
un ruolo e una sceneggiatura che assolutamente non si adattano al
suo personaggio.
E che dire di Serena
Autieri, Nancy Brilli e Francesca Inaudi?
La prima sembra poco più che una comparsa così come la più giovane
e meno brava Inaudi, per quanto riguarda la Brilli forse ha troppo
sacrificato la sua espressività facciale in nome dell’eterna (o
quasi) giovinezza per sembrare ormai un’attrice a tutti gli
effetti! Purtroppo questa volta Fausto Brizzi fa
un buco nell’acqua, né forma né sostanza accorrono in soccorso ad
un film che invece come formula produttiva (due film girati back to
back) ha dell’innovativo, almeno per quello che riguarda il nostro
lato dell’oceano (Atlantico).
Iniziano in questi giorni
a Barcellona le riprese del film 11/11/11 prodotto da Capacity
Pictures, Canónigo Films e la Stars Pictures di Valeria Marini per
la regia di Darren Lynn Bousman, uno dei più importanti registi del
genere horror (Saw II, Saw III, Saw IV).
Maschi contro Femmine è uscito qualche mese fa, ed ora
anche Femmine contro Maschi, il suo completamento
(parlare di sequel sarebbe sbagliato) è stato presentato alla
stampa. Il cast al completo, con un Brizzi in forma smagliante ha
presieduto l’incontro. Come sempre più spesso accade la conferenza
si è risolta in un’allegra chiacchierata tra la stampa e questa
famiglia allargata che ha realizzato il film.
A quanto pare Joe Manganiello è
sempre più lanciato per il ruolo da protagonista nel nuovo Superman
di Zack Snyder. Ora arriva anche Il Los Angeles Times a dare
sostegno ai rumors che nei giorni scorsi si erano susseguiti.Si
apprende che il protagonista di True Blood è definitivamente in
lizza per il nuovo Superman”. Questa tesi è stata avvallata da Hero
Complex, blog del Times che alcuni giorni fa aveva twittato:
Il lupo mannaro di True Blood
Joe Manganiello è il frontrunner per interpretare Superman? Questo
è il rumour del giorno a Hollywood.
The Envelope invece sostiene: Al Bake Off dell’Academy della
settimana scorsa, un evento legato al mondo degli effetti visivi
cinematografici, in molti (specialmente chi fa parte del team al
lavoro sul nuovo Superman) parlavano del fatto che Manganiello
continua a essere citato nelle conversazioni legate al nuovo volto
che avrà l’eroe del franchise.
Manganiello stesso, ultimamente ha
dichiarato più volte ai media: Sarei onorato. Adoro Zack
Snyder e Christopher Nolan.
Du tutto questo susseguirsi di voci
una verità è certa. Visto l’imminente inizio delle riprese,
previste per l’inizio della prossima estate, certamente il casting
per il ruolo principale inizia ad intensificarsi e sicuramente a
breve, massimo qualche mese sapremo chi sarà il nuovo Clark
Kent.
Superman, scritto da David S. Goyer
e diretto da Zack Snyder, uscirà a natale 2012.
Secondo Variety lo sceneggiatore
David Lindsay-Abaire sta lavorando all’adattamento cinematografico
di una serie di libri per bambini scritti da William Joyce dal
titolo The Guardians of Childhood.
Il film in progetto che si
intitolerà probabilmente Rise of the Guardians, sarà prodotto dalla
DreamWorks Animation e racconterà le storie di un gruppo di ‘eroi’
per bambini che uniscono le forze per impedire ad uno spirito
maligno chiamato Pitch di conquistare il mondo. Numerosi sono i
nomi degli attori in lizza, tra questi Hugh Jackman per la parte di
Bunnymund (il coniglietto pasquale), Alec Baldwin come Nord (Babbo
Natale), Chris Pine nei panni di Jack Frost e Isla Fisher come
Tooth (la fatina dei denti). Ovviamente stiamo parlando di
doppiatori, poichè il progetto è un film d’animazione, e tra questi
ci potrebbe essere anche Jude Law che sarà la voce del cattivo
Pitch, un personaggio simile all’Uomo Nero.
Joyce sarà co-dirigerà il film
accanto a Peter Ramsey, mentre in veste di produttori esecutivi ci
saranno Guillermo del Toro e Michael Siegel.
Giornaletti con le foto di
body-builder dal fisico oliato e poster di uomini palestrati
affissi alle pareti avevano destato i sospetti della madre
Chi lo avrebbe mai detto. Il simbolo della mascolinità per
eccellenza negli anni ’80-’90, creduto un gay dalla madre quando
era adolescente. Parliamo di Arnold Schwarzenegger, che da poco ha
concluso (con scarso successo) il suo mandato come Governatore
della California.
A destare i sospetti della madre sono stati i tanti giornaletti
attraverso cui Schwarzy ammirava omaccioni muscolosi dal fisico
oliato; dei quali possedeva anche molti poster che aveva affisso
fieramente sulle pareti della sua camera. Normali passioni di un
adolescente, che di lì a poco avrebbe cominciato a frequentare
assiduamente la palestra, trasformando il suo fisico in un
invidiabile corpo statuario. Lo stesso che ha dato la sagoma a
personaggi quali Konan il barbaro o Terminator.
La madre di Schwarzy non si è limitata alle preoccupazioni, ma
lo ha portato anche da un medico. Quest’ultimo però le ha
scherzosamente risposto: “non si preoccupi signora, tanti hanno i
poster dei Beatles nella propria stanza, ma non per questo sono
gay. Eppure quelli sì che sono uomini”.
Il monello è il
film culto del 1921 di Charlie Chaplin con
protagonisti lo stesso Charlie Chaplin con
Jackie Coogan, Edna Purviance.
Una lacrima e un sorriso. Questo è
il cinema di Charlie Chaplin. E questo film del 1921 ne è
la massima riprova. Chaplin comincia ad andare oltre i
cortometraggi divertenti; comincia a proporre film dalla media
durata o veri lungometraggi (il presente dura 83’) che fanno
riflettere su tematiche sociali.
Il monello, la
trama
In una Londra divisa tra
ricchi e poveri, una giovane madre sola dalla disperazione
abbandona il suo neonato, e vive nel rimorso anche quando arriverà
per lei il successo e diventerà ricca. Un povero vetraio trova il
fagotto abbandonato e decide, nonostante il proprio stato di
povertà, di allevarlo.
Quando poi il neonato diventa un
po’ più grande, si fa aiutare dal piccolo monello facendogli
rompere i vetri delle case che egli poi ripara, guadagnandosi un
minimo per vivere. Dopo una rissa con un altro monello, il bimbo si
sente male e chiamato il medico, quest’ultimo decide di chiamare
l’orfanotrofio per far vivere il piccolo in condizioni più consone.
Il vetraio però riesce a riprenderselo, ma la legge ha la meglio.
Non fino in fondo però, e al povero ma ricco di amore, alla donna
disperata e al piccolo orfanello, il destino sorriderà…
Il monello
richiese complessivamente diciotto mesi di lavoro, dalla prima
scena girata alla prima proiezione, un periodo non particolarmente
felice per la vita privata di Charlie: poco prima dell’inizio della
lavorazione perse il primo figlio avuto dalla prima moglie (Mildred
Harris), Norman Spencer, nato con gravi deformazioni e
sopravvissuto solo tre giorni. Il matrimonio non fu mai felice,
fallì nel corso della lavorazione del film; l’opera stessa rischiò
di finire sotto sequestro unitamente ai beni di Charlie nella causa
di divorzio intentatogli dalla moglie: Charlie, previdente,
consegnò in custodia una copia dei negativi al fratello Sidney,
terminò il montaggio della pellicola spostandosi in incognito (per
quanto la sua popolarità lo consentisse) in diverse località, tra
alberghi e studi tecnici.
Secondo alcuni fu proprio
la perdita del figlio ad ispirargli il soggetto. L’incontro tra
Chaplin e Jackie Coogan fu un colpo di fulmine,
nacque prima un’amicizia speciale tra i due, solo in seguito pensò
di scritturarlo nella sua compagnia, e quando la lavorazione del
film iniziò Jackie fu perfetto: Chaplin, non potendo interpretare
lui il ruolo, così come desiderava per tutti i ruoli dei suoi film,
lo trovò spontaneo, naturale e perfettamente plasmabile alle sue
indicazioni. Probabilmente, l’intesa tra i due, fu dovuta anche
alla peculiarità della personalità di Chaplin capace di vedere gli
aspetti della vita attraverso gli occhi di un bambino. Un film
toccante, con una tenera interpretazione del piccolo Jackie Coogan.
Un attore che però non ha fatto molta strada da allora, essendo
anche immischiato in una vicenda giudiziaria per sfruttamento dei
suoi diritti da parte dei genitori. Grazie alla sua vicenda, la
California emise “The Child Actors Bill”, meglio conosciuto come il
“Coogan Act”, nel quale venivano tutelati i diritti dei minori
impegnati nel cinema.
Il monello
Oltre al Il
monello, nel 1930-31 Coogan interpretò i popolari
personaggi di Mark Twain: Tom Sawyer e Huckleberry Finn. Poi una
serie di film minori, tornando alla popolarità indovinate come?
Interpretando il turpe Zio Fester nella famosissima serie tv “La
famiglia Addams” del 1964 (trasmessa anche in Italia).
Charlie
Chaplin inizia a trattare struggenti tematiche
sociali con “Charlot emigrante” del 1918, in cui mette in scena la
scandalosa «quarantena» cui venivano sottoposti gli immigranti a
Ellis Island prima di sbarcare a New York. Seguiranno “Vita da
cani” e “Charlot soldato”: col primo pone sotto i riflettori la
vita dei senzatetto, perseguitati dalla legge disuguale e accanita
verso i poveri. Col secondo ironizza sulla guerra, nella
fattispecie l’intervento americano in Europa durante la Prima
guerra mondiale. Un tema che riprenderà con un capolavoro del
1940 “Il
grande dittatore”, dove sbeffeggerà Hitler e il suo
folle progetto di sterminare gli ebrei; ma lancerà anche uno
struggente messaggio finale di speranza ai popoli in guerra. I
dittatori i sovrani sono ridicolizzati anche nel film “Un Re a New
York” del 1957.
La filmografia di
Chaplin ha prevalentemente preso di mira i
potenti, ironizzando su di loro fino a ridicolizzarli. In tal modo
tratterà anche il capitalismo, in modo lapalissiano nel film
“Monsieur Verdoux”, che ha come protagonista un bancario (dal quale
prende il nome il film) che con l’arrivo della crisi finanziaria
del 1930 divenne disoccupato. Per mantenere il tenore di vita della
propria famiglia che ormai vede molto poco, ma soprattutto, per un
acquisito sadismo ed egoismo innescato in lui da una società post
crisi sempre più egoista ed arrivista, nonché violenta dati i
regimi dittatoriali che si diffondevano nel mondo, Verdoux da tre
anni si da alla truffa sposando donne ricche per poi ucciderle e
derubarle. Chaplin voleva dimostrare come la società capitalista ed
egoista potesse ridurre gli uomini, renderli avidi e alienati. Per
queste sue posizioni, fu mal visto dall’America e dall’Inghilterra.
Siamo negli anni ‘50, in piena Guerra Fredda, ed in pieno
maccartismo. Chaplin decise di stabilizzarsi in Svizzera con la
famiglia dove morì nel 1978.
Il Grinta dei Coen
è certamente uno dei film più attesi di questo inizio di nuovo anno
come del resto gran parte dei loro film da Fratello
dove sei? in poi. E tornano in grande spolvero dopo
la parentesi un po’ sottotono di A serious
Man. Tratto dal romanzo di Charles
Portis, da cui fu tratto anche l’omonimo classico del
cinema western che nel lontano 1969 fruttò l’unico Oscar della sua
carriera all’icona hollywoodiana John Wayne, il
film è un’avventurosa storia di vendetta e coraggio impregnata del
loro schietto umorismo e da un capacità narrativa coraggiosa,
supportata da un intreccio classico di genere che impreziosisce il
tutto rendendolo un film di raffinato gusto.
La storia racconta le vicende della
quattordicenne Mattie Ross (Hailee
Steinfeld) che ha perso di recente il padre ucciso
vigliaccamente da un certo Tom Chaney (Josh
Brolin), uno sbandato col vizio del gioco e
dell’alcool che dopo avergli sparato a bruciapelo fugge per unirsi
ad una banda di rapinatori di treni. Spinta dalla sete di vendetta
la piccola Mattie si rivolge ad un vecchio sceriffo federale di
nome Marshall Rooster Cogburn (Jeff
Bridges), che oltre ad avere una passione smodata per
la bottiglia ha anche un pessimo carattere, ma in quanto ad
acciuffare criminali sa il fatto suo. I due accompagnati da un
terzo personaggio, un Texas Ranger chiamato LaBoeuf (Matt
Damon), anch’egli in cerca di Chaney per un omicidio
commesso in Texas, daranno la caccia al fuorilegge per le strade
dell’America di Frontiera.
Il Grinta, il western secondo i
Fratelli Coen
Uno dei punti forti è senza dubbio
una messa in scena di grande levatura che ha il pregio di
facilitare il processo immersivo e accompagna con algida spinta le
vicende narrate, impreziosita ancora di più dalla stupenda
fotografia di Roger Deckins, ormai avvezzo a casa
Coen e che ci ha abituato a splendidi colori nella sua
straordinaria carriera. Sono degne di nota anche le notevoli
interpretazioni di tutto il cast a partire dalla piccola
Hailee Steinfeld, coraggiosa e naturale, per
passare dal Jeff Bridge e il sempre verde
Matt Damon. Una nota di merito va anche a Barry
Pepper che riesce sempre ad essere strepitoso nonostante i ruoli da
comprimario.
Dal canto loro i Coen non sono da
meno. La loro regia è sobria ed attenta, meticolosa ed equilibrata,
accorta al susseguirsi delle vicende dando sempre un impronta
leggera e visibile, facilitati anche da una buona sceneggiatura che
è dosata al punto giusto, arricchita da un umorismo che non invade
mai ma rimane sempre in un perfetto equilibrio. Il tutto su uno
sfondo classico di un genere, quello western, che tanto splendore
ha dato alla storia del cinema e che, ahimè, è un po’ dimenticato
oggi giorno, anche se recentemente ci ha regalato bei film come
l’Appaloosa
di Ed Harris.
In conclusione i Fratelli
Coen sono capaci di regalarci splendidi film quando
decidono di abbandonare un atteggiamento un po’ presuntuoso e
pretenzioso nei confronti del cinema e del pubblico che finora in
alcuni loro film li ha accompagnati. Il grande cinema che è in loro
si mostra proprio in questi momenti, celato da un loro apparente
capriccio.
Andy è ormai cresciuto e Woody,
Buzz e gli altri giocattoli sono molto incerti riguardo al loro
futuro: finiranno sul marciapiede (nella spazzatura) o in soffitta?
Sicuramente non potranno seguire il loro padrone al college!
Comincia così la terza avventura dei giocattoli più famosi del
grande schermo, che si troveranno a dover combattere contro dei
bambini dell’asilo SunnySide, dove finiranno per sbaglio, ed a
sventare gli oscuri piani di Lotso, un orsacchiotto peloso e rosa
che profuma di fragole, ma che ha un cuore nero…
La recensione del film d’animazioneDragon
Trainer, diciassettesimo film della
DreamWorks Animation.
«Questa è Berk. È dodici giorni a
nord di disperazione e pochi gradi a sud di morire di freddo, si
trova esattamente sul meridiano della miseria. Il mio villaggio, in una parola: solido, ed è qui da sette
generazioni, ma ogni singola costruzione è nuova. Abbiamo la pesca, la caccia e un’incantevole vista del
tramonto, l’unico problema sono le infestazioni: In molti posti
hanno topi, zanzare, noi abbiamo… i draghi! »
Hiccup all’inizio del
film
In un non meglio identificato
estremo nord c’è un’isola, su quest’isola c’è un villaggio
vichingo, in questo villaggio vichingo ci sono delle infestazioni …
di draghi! Questa la premessa semplice ed esilarante di
Dragon Trainer (How to Train Your Dragon)
17esimo film della DreamWorks Animation, fondata
da Steven-prezzemolino-Spielberg, e seconda opera in 3D dopo Mostri
contro Alieni.
Tratto da una serie di libri per
bambini (“Come addestrare un drago” di Cressida Cowell)
Dragon Trainer riesce con semplicità e
spirito a raccontare una storia di crescita, di rispetto del
diverso, di rapporto conflittuale tra padre e figlio e
dell’importanza di restare sempre fedeli a se stessi e alle proprie
inclinazioni. Troppe cose per un film d’animazione? Non credo,
perché questa volta la DreamWorks ha fatto
tombola. Il giovane Hiccup (“Vi pare brutto il nome? Ce ne sono di
peggiori al villaggio!”) è un adolescente che per molti versi
ricorda un suo predecessore forse più famoso, quel mingherlino e
smidollato Semola, protagonista de La Spada nella Roccia e destinato a
diventare Re Artù; anche lui, come Semola prima, imparerà che è
quello che c’è dentro che conta, non tutti i muscoli che si vedono
dal di fuori. Lo spettatore – adulto o bambino che sia – può
benissimo affezionarsi ai personaggi, anche ai comprimari che sono
tutti caratterizzati molto attentamente, a partire dal piccolo
esemplare di Terribile Terrore che insegnano al protagonista che ‘i
draghi bruciano dal di dentro’ fino all’amico fabbro e istruttore
Skaracchio, particolarmente attento alla sua … igiene intima! Ogni
elemento ha il suo valore e la sua importanza, dal rapporto trai
due gemelli coetanei di Hiccup, ai diversi esemplari di drago.
E proprio a questo mitologico
rettile il film rende giustizia, reinventandolo in forme e colori
differenti, rendendolo protagonista del film e lasciando
affezionare lo spettatore anche alla bestia e non solo all’uomo. In
particolare il piccolo Sdentato, l’esemplare di Furia
Buia che Hiccup addestra, risulta un disegno
particolarmente riuscito a partire dagli occhi felini e dai
comportamenti canini: un mix inedito ma vincente. Nel film varie
sono le similitudini tra i draghi e i gatti soprattutto, che si
notano soprattutto quando Hiccup addomestica Sdentato ed adotta le
tecniche apprese nell’arena: i draghi infatti adorano essere
accarezzati sulla testa e sotto il collo, quando vengono
accarezzati emettono versi simili alle fusa, seguono oggetti che si
muovono ed infine concedono parte del proprio cibo a coloro che
vengono considerati padroni. Ma non c’è solo la Furia
Buia, molte sono le specie di drago che vengono realizzate
e mostrate nel film, ognuna con caratteristiche specifiche oltre a
quelle comuni appena elencate. Ad esempio il
Gronkio è uno dei draghi più forti, ha una
testa enorme e un corpo minuscolo. È noto per essere capace di
dormire mentre vola. Per sconfiggerlo basta bagnargli la testa
mentre dorme; poi c’è l’Incubo Orrendo che ha coda
e collo molto lunghi, è uno dei più feroci e temuti draghi del
mondo.
La sua strategia d’attacco è quella
di darsi fuoco, abilità che lo rende un avversario affrontabile
solo dai vichinghi più esperti come Stoick (il padre di Hiccup).
L’Orripilante Bizippo invece è uno dei draghi meno
comuni che si possano incontrare al mondo. Ha due teste
completamente indipendenti, una produce scintille e l’altra gas;
per sconfiggerlo basta bagnare la testa che fa scintille. Le ali
del Bizippo non sono sufficientemente grandi per mantenerlo in volo
per lungo tempo, così questi preferisce l’attacco sulla terraferma.
Il Terribile Terrore è il più piccolo tra tutti i
draghi. Il Terribile Terrore ha un corpo da
serpente e due piccole ali. I Terribili Terrori
combattono spesso tra di loro come bambini e hanno una grande
potenza e precisione di fuoco. L’Uncinato Mortale
è uno dei draghi più belli del mondo, ha solitamente un
comportamento aggressivo ed ha un temperamento molto suscettibile.
Facile da sconfiggere grazie al punto cieco posto davanti a lui,
possiede il fuoco più caldo di tutti i draghi, capace di fondere
all’istante l’acciaio o di carbonizzare un vichingo. Come se ciò
non bastasse sulla coda possiede spuntoni retrattili che possono
essere lanciati come proiettili contro l’avversario. Infine c’è
Morte Rossa. È il più mostruoso e gigantesco di
tutti i draghi, enorme, con una grossa mazza chiodata sulla coda e
sei orribili occhi, il suo unico scopo è nutrirsi del cibo rubato e
procreare altri draghi. Per questo motivo si può definire “la
regina” e gli altri draghi gli “operai”. Chi non adempie al compito
di nutrirla viene a sua volta mangiato.
Ma nonostante questa nutrita e
variegata fauna fantastica il film ha forti ancoraggi con il reale,
poiché ripresi in maniera un po’ (e inevitabilmente) didascalica
sono intrecciate alla trama le problematiche adolescenziali
dell’accettarsi e dell’accettare ciò che è diverso da noi, ma
soprattutto importante è la dinamica padre single/figlio ribelle,
che nel film viene affrontata con chiarezza, ma con irriverenza e
tanto spirito comico. Esemplare è la scena di passaggio di consegna
tra generazioni, nel momento in cui il padre Stoick consegna al
figlio l’elmo che ha fatto realizzare apposta per lui, c’è un
connubio perfetto tra solennità e umorismo.
Il 3D è uno spettacolo per gli
occhi e aumenta la magnificenza della visione soprattutto nelle
sequenze di volo che per diversi elementi paesaggistici o forse
semplicemente per memoria collettiva ricordano i paesaggi del
pianeta Pandora inventato da James Cameron. Sembra che ormai la tecnica
della realizzazione di film in computer grafica non sia più un
problema e quindi i realizzatori (registi e sceneggiatori) possano
dedicare più attenzione alla storia e alla scrittura. La regia è
firmata dai due ‘profughi’ della Disney Chris Sanders e
Dean DeBlois, ideatori e co-registi di Lilo & Stitch, film al quale
Dragon Trainer deve qualcosa soprattutto
in termini di dinamiche tra ‘animale e padrone’; mentre la
sceneggiatura è affidata al trio William Davies, Dean
DeBlois e Chris Sanders. In questo caso, se la
storia è classica nel suo sviluppo di premessa, svolgimento,
conflitto e (semi)lieto fine, la scrittura e i dialoghi in
particolare condiscono di sano e pungente umorismo tutto il film,
rendendolo divertente e commovente, una vera delizia che riempie il
cuore e gli occhi.
La brava e bella Kristen
Stewart, idolo delle teenagers grazie al suo ruolo di
Bella nella saga di Twilight, è in
trattative per interpretare il ruolo principale nel prossimo film
di Rupert Sanders, che sarà nient’altro che una nuova versione di
Biancaneve e i sette nani intitolata Snow White and the
Huntsman, almeno stando a quanto dice Deadline.
Sono in circolo delle voci che
vorrebbero anche Viggo Mortensen nel progetto, nel ruolo del
cacciatore ovviamente! Anche Riley Keough, ex compagna di set di
Kristen in Runaways, è stata inserita nella short list delle
pretendenti al ruolo lo scorso mese, mentre da un po’ si sa che la
splendida Charlize Theron interpreterà la regina cattiva.
Psycho è il film
culto del 1060 diretto da Alfred Hitchcock e
con protagonisti nel cast Anthony Perkins, Janet
Leigh, Vera Miles, John Gavin, Martin Blasam.
Alfred Hitchcock è senza dubbio il
Re dei film gialli. Molti di questi sfociano nel genere thriller,
lasciando lo spettatore in balia dell’inquietudine e della
suspance. Aiutato in ciò da una pellicola in bianco e nero che dà
ai suoi lungometraggi un maggiore alone di mistero.
Tra i suoi film,
Psycho è forse il più conosciuto. Benché sia
uscito nel 1960, turbando milioni di americani e venendo perfino
censurato per diversi anni in vari Paesi, questo film è tutt’oggi
insuperato. Le tecnologie moderne non potranno mai colmare
quell’aura di mistero che con pochi trucchi il regista inglese
sapeva dare ai suoi film.
Un’impiegata di una società
immobiliare, Marion Crane, sogna un futuro migliore con il suo
compagno, Sam, e così fugge con 40 mila dollari di un cliente
anziché depositarli in cassaforte. Si dirige con l’auto verso il
suo compagno, venendo anche pedinata da un’inquietante poliziotto
che ha dei sospetti su di lei. Dato il forte temporale in corso,
decide di passare la notte in un Motel. Viene accolta da uno strano
receptionist, che pare non andare d’accordo con la madre.
Psycho è un film
thriller del 1960 diretto da Alfred Hitchcock, tratto da un romanzo
di Robert Bloch del 1959. Candidato a quattro Oscar, nel 1992 è
stato scelto per la preservazione nel National Film Registry della
Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Il film venne girato
negli Universal Studios di Hollywood dalla fine di novembre del
1959 fino al 1 febbraio del 1960. Non si sa ancora con certezza
perché, nel titolo italiano, la ‘h’ sia scomparsa, diventando
Psyco. Il film fu una miniera d’oro per la
Universal: girato con un budget di 800.000 dollari, incassò 40
milioni. Per le riprese Hitchcock si avvalse della troupe della
serie tv Alfred Hitchcock Presenta per risparmiare tempo e denaro.
Pochi, malgrado il successo commerciale, i riconoscimenti ottenuti
dal lungometraggio: 1 Golden Globe 1961: miglior attrice non
protagonista (Janet Leigh) e 4 nominations ai Premi Oscar 1961.
Anche in Psycho, non può mancare il
solito brevissimo cameo del regista: con in testa un cappello
texano, fa la sua apparizione sul marciapiede davanti alla società
dove lavora la protagonista Marion. La scena del film passata alla
storia è senza dubbio quella della doccia; la quale, si racconta,
spaventò milioni di spettatori, che non volevano più compiere
quell’atto elementare timorosi che qualcuno arrivasse con un
coltello dietro le loro spalle. Pare che il film sia proprio in
bianco e nero per ovviare alla scena del sangue, ed evitare
censure.
Il liquido che scorre nella doccia
è cioccolato fuso. Inizialmente Hitchcock voleva che la scena non
fosse accompagnata da commento musicale, ma Bernard
Herrmann (autore della colonna sonora anche di
Taxi Driver) gli fece cambiare subito idea dopo
avergli fatto ascoltare una sua composizione. Fortunatamente se ne
convinse. Furono apportate molte modifiche alla scena in cui Marion
Crane appare già morta sul bordo della vasca da bagno col viso sul
pavimento, perché durante le anteprime, quindi a pellicola quasi
ultimata, la moglie di Hitchcock, Alma Reville, fu
l’unica ad accorgersi che si poteva vedere l’attrice Janet Leigh
respirare. Per girare i 45 secondi della scena della doccia, su uno
storyboard di Saul Bass, occorsero sette giorni di lavorazione, 72
posizioni della macchina da presa ed una controfigura per
Janet Leigh. L’accoltellamento dura 22 secondi,
per un totale di 35 inquadrature. In nessuna delle numerose scene
montate per l’omicidio nella doccia si può vedere il coltello
affondare nel corpo di Marion; è il montaggio serrato che fa
supporre allo spettatore quello che non si vede.
Altre ancora sono le curiosità.
Durante le riprese dell’arrivo di Marion Crane al Motel Bates, in
cui la sceneggiatura aveva previsto un forte temporale (simulato),
Hitchcock si accorse che sullo sfondo si
intravedeva la Luna. Alcuni degli attrezzisti dovettero coprirla
con delle pertiche e dei drappi neri seguendone lo spostamento nel
cielo. Ancora, Hitchcock decise di strutturare il film facendo
uccidere la protagonista Marion a un terzo dall’inizio, cosa che
non capitava normalmente nel cinema classico, ma che rese
l’assassinio della donna ancora più sorprendente e inaspettato. È
per questo motivo che il regista insistette inoltre per vietare
l’ingresso in sala al pubblico e ai critici dopo l’inizio del film,
per concentrare l’attenzione dello spettatore sull’importanza del
denaro sottratto e per rendere più forte la scena dell’assassinio,
affinché costituisse una sorpresa assoluta.
Qualche aneddoto riguarda anche
Casa Bates: l’inquietante abitazione posta su un colle e dalla
quale si ode la voce stridula della mamma di Norman, compare in un
episodio de La Signora in Giallo, con un omicidio simile a quello
del film. Nell’episodio della terza stagione del telefilm “Supercar
Un gorilla a Los Angeles” sono presenti molti riferimenti al film,
tra cui la stessa casa Bates.
Il personaggio psicopatico di
Norman Bates è ispirato alla figura di Ed Gein che, nel periodo tra
il 1947 e il 1957, uccise due persone nella zona di La Crosse e
Plainfield (Wisconsin), creando decorazioni casalinghe con i resti
delle vittime. La sua figura viene ripresa anche in altri tre film:
ne Il silenzio degli innocenti dove è
rappresentato dal personaggio di Jame Gumb (detto Buffalo Bill e
interpretato da Ted Levine), in Deranged, rappresentato dal
personaggio Ezra Cobb (detto Macellaio di Woodside e interpretato
da Robert Blossom) e in Non aprite quella porta
(1974) dove è rappresentato dal personaggio
Leatherface, interpretato da Gunnar Hansen. In
Psycho, Norman Bates è un appassionato
impagliatore di uccelli. Alcuni di questi fanno subito pensare ai
minacciosi volatili del film Gli uccelli, sempre di Hitchcock.
Poiché Gli uccelli uscì tre anni dopo “Psycho“,
Hitchcock potrebbe aver già avuto in mente di realizzare questo
film. Nell’inquadratura finale, quella che ritrae Norman Bates
sorridente, si può notare la sovrapposizione sul suo volto di una
figura simile al teschio della madre: questo fu uno dei primi
“messaggi subliminali” inseriti in un film per aumentare il senso
di orrore trasmesso dal personaggio.
Psycho: recensione del film di
Alfred Hitchcock
Il film ha avuto anche un remake
nel 1998. Il regista Gus Van Sant Jr., nominato
come miglior regista due volte all’Oscar, la prima per Will
Hunting, Genio ribelle nel 1998 e la seconda per
Milk nel 2009, ed ha vinto il premio per la
miglior regia e la Palma d’oro al Festival
di Cannes 2003 per Elephant, inoltre
con Paranoid Park ha vinto il Premio speciale per
il 60º Festival di Cannes e per l’insieme
dell’opera. Van Sant ha seguito minuziosamente il
film originale, attenendosi totalmente ad esso. Non si è fatto
mancare neppure il cameo, posizionandosi nello stesso posto di
Hitchcock.
Le differenze rispetto
all’originale comunque sono diverse, sebbene trattasi di
particolari: innanzitutto, l’azione è spostata dall’originale 1960
al contemporaneo 1998, forse per giustificare il passaggio dal
bianco e nero al colore: un altro aggiustamento “cronologico” è la
somma di denaro, che dai 40’000 dollari del primo film si decuplica
diventa 400’000, decisamente più credibile nel 1998. Poi, la
versione di Van Sant è decisamente più esplicita di quella di
Hitchcock: nella scena iniziale, per esempio, Sam (Viggo
Mortensen) è mostrato completamente nudo a letto con
Marion, mentre nell’originale erano in piedi, lui indossava i
pantaloni e veniva solo suggerito che i due avessero fatto sesso.
Allo stesso modo, nella scena in cui Norman spia Marion mentre si
spoglia, si capisce chiaramente che nel farlo si masturba, cosa che
non avveniva nella prima versione. Ancora, nella scena
dell’uccisione di Arbogast, Norma/Norman colpisce quest’ultimo non
con una, bensì con numerose coltellate per farlo cadere dalle
scale.
La scena della scoperta del
cadavere di Norma e della susseguente rissa è poi decisamente
diversa: la cantina è molto più grande di quella della prima
versione, nella quale non c’era nemmeno il laboratorio da
impagliatore di Norman; l’apparizione di Norman travestito è più
lenta e la rissa molto più lunga e violenta, mentre nel 1960 si
vedeva solo Sam che toglieva a Norman parrucca e vestito. Infine,
Van Sant ha inserito di sua iniziativa delle
brevissime immagini subliminali, fotogrammi “nascosti” all’interno
delle scene clou (i due omicidi e la scoperta del cadavere): quando
Marion viene uccisa, si vedono immagini di una violenta tempesta,
quando viene ucciso Arbogast si vede prima una donna nuda con una
maschera sul volto e poi quella di un vitello nel mezzo di una
strada, ed infine quando viene scoperta Norma Bates, si vedono
delle colombe volare via.
Oltre ad un remake, il
lungometraggio ha avuto anche 3 sequel: nel 1982, nel 1986 e
nel 1990. Il primo, Psycho II, diretto da
Richard Franklin, ebbe anche un inaspettato
successo ai botteghini. Nel sequel, lo psicopatico protagonista del
primo film, Norman Bates, esce dall’istituto psichiatrico ritenuto
ormai guarito 22 anni dopo. Ma tornato a casa, risente la voce
della madre e riprende la sua vita turbata. Il suo personaggio è
interpretato sempre da Anthony Perkins. Alcune
curiosità legate al film: lo pseudonimo che Meg Tilly usa nel film,
Mary Samuels, è ispirato a quello con cui Janet Leigh si registra
in Psyco nel motel Bates. Il set originale della casa e del motel
Bates è stato appositamente ricostruito per le riprese. Il regista
Richard Franklin, emula il maestro Hitchcock anche in fatti di
cameo: è l’uomo seduto al gioco da bar nella tavola calda dove
lavora Norman. Infine, in una scena Norman vuole dare a Mary la
stanza numero 1. È la stessa in cui è avvenuto l’orrendo omicidio
nella doccia del primo film.
Meno successo ebbe il terzo
episodio, Psycho III, che risente un po’
dell’inevitabile ripetitività. Diretto dallo stesso attore
protagonista, Anthony Perkins, ancora nel ruolo di Norman, vede
quest’ultimo riprendere il suo lavoro e innamorarsi di una ex-suora
che contraccambia il suo amore. Ma esso sarà ostacolato di nuovo
dall’istinto di sdoppiare la sua personalità e a tenere il cadavere
impagliato della madre che lo induce ad uccidere i suoi clienti
fino ad uscire nuovamente completamente di senno. Vediamo anche per
questo episodio alcune curiosità. Anthony Perkins,
che s’assunse come detto anche la responsabilità della regia,
decise di tornare con questo terzo capitolo alle atmosfere dello
Psyco originale, distaccandosi quindi dalle
situazioni splatter del precedente Psycho II
(1983). Perkins voleva che l’attore Jeff Fahey
apparisse completamente nudo nella scena dell’incontro fra Duke e
Red, ma lui rifiutò perché non si sentiva a suo agio davanti alla
telecamera. Il regista e attore cercò di convincere la Universal a
girare il film in bianco e nero, ma la casa di produzione si
oppose. Nella parte della “madre” di Bates compare lo stuntman Kurt
Paul, ma nella scena finale, quando Norman è vestito da donna, è
Perkins a interpretarla. Kurt Paul ha interpretato Norman Bates nel
film TV Il motel della paura.
Il quarto invece (Psycho
IV) è un film per la televisione diretto da Mick
Garris, incentrato sull’infanzia del pluriomicida Norman
Bates. Quest’ultimo racconta la sua infanzia passata con la perfida
madre, rivivendo ogni momento di quel tragico periodo ad una
stazione radiofonica, e presto tornerà a minacciare ancora. Il film
fu girato nel giugno del 1990 agli Universal Studios Florida a
Orlando (Florida). La facciata del Bates Motel e la casa sono state
ricreate nel parco a tema. Dopo le riprese, la facciata del Bates
Motel fu utilizzata per un labirinto stregato durante la
Halloween Horror Nights del 1993 intitolata “The
Psycho Path Maze”. I set furono demoliti nel 2000 per la
costruzione del campo giochi “Curious George Goes to Town”. Durante
la prima trasmissione del film fu Janet Leigh, interprete del film
originale, a presentarlo.