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La prima stagione di Homeland si chiude con un episodio di quasi un’ora e mezza intitolato Tiratore scelto. Il racconto copre un arco temporale di sei giorni. Nel primo, vediamo Brody in uniforme consegnare alla videocamera il suo messaggio di kamikaze e patriota deciso a difendere il proprio paese da un nemico interno: il vicepresidente Walden; nottetempo, Nick nasconde il video-testamento sotto una pietra, in un parco.

 
 

Rincasato – la notte volge al termine – il marine si dedica come di consueto alla preghiera. Dana lo sorprende e soltanto dopo una lunga chiacchierata al chiaro di luna Brody ottiene con successo che la conversione all’Islam resti un piccolo segreto tra padre e figlia. Nel frattempo, Walker riesce con un abile stratagemma a infilarsi nell’appartamento di un’anziana (Elisabeth Franz) dal quale ha una visione perfetta del luogo in cui il giorno successivo Walden, attorniato dall’intero team elettorale (in cui figura anche Brody!), annuncerà ufficialmente la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. In questo “Day 1” c’è spazio anche per Carrie. Distrutta dal licenziamento, la consola a stento il fatto che Saul non intende mollare la pista del “giallo maggese”, vale a dire lo studio della fase di quiescenza di Abu Nazir che, per la Mathison, prelude a un devastante attacco; una pesante e imminente offensiva terroristica in cui non è coinvolto soltanto il ricercato “ufficiale” Walker, ma anche l’insospettabile Brody. Le intuizioni di Carrie sono più che fondate; nel secondo giorno, si comprende quali siano nel dettaglio le forme dell’attentato: il compito di Walker è sparare qualche colpo su Walden e il suo seguito senza centrare il candidato, quello di Brody è farsi saltare in aria una volta condotto, assieme al vicepresidente e a tutti gli altri pezzi grossi, nel minuscolo bunker di massima sicurezza dove i bersagli vengono scortati in situazioni del genere. Il raffinato piano, però, non riesce: dopo che il cecchino ha fatto il suo “dovere” creando scompiglio e uccidendo Elizabeth Gaines, Brody, nel bunker, fallisce. Una prima volta, il meccanismo del giubbotto s’inceppa. Una seconda, sistemato il contatto difettoso, è una telefonata di Dana a far desistere Brody.

Si piange, e sono lacrime di qualità. La ragazzina chiede a Nick di promettere che tornerà a casa: lui tentenna, poi esaudisce la preghiera. E’ fantastico come Damian Lewis riesca a comunicare, contenendolo a forza nella sua efficace e solcata corteccia rossiccia, il travaglio del personaggio, la tempesta emotiva che lo divora. Dietro alla telefonata di Dana c’è la regia di Carrie. La Mathison, prendendoci ancora una volta, capisce, dopo gli spari di Walker, quali siano i precisi intenti dei due convertiti; uscendo dalla sua impotenza, piomba in casa Brody e, senza giri di parole, dice a Dana che il padre ha subito un lavaggio del cervello e sta per farsi esplodere: deve assolutamente chiamarlo e fermarlo. Dana la scaccia e chiama la polizia. Però, poco dopo che la volante se n’è andata con “Carrie la pazza” a bordo, la figlia del sergente fa i conti con tutte le ombre del padre: l’enigmatico involto, la conversione, gli strani comportamenti. Così, come detto, chiama, salvando Nick e chi gli sta attorno. In questo secondo dì, nelle ore che precedono l’attacco terroristico, Saul lavora alacremente sul canovaccio tracciato da Carrie. Con un’accurata ricerca, il personaggio di Mandy Patinkin trova un documento, in gran parte secretato, riguardante un imponente attacco coi droni in Iraq: pensa possa c’entrare con la pausa operativa di Nazir, col suo periodo di lutto. Nel terzo giorno, Saul riesce, ricattando Walden (direttore della CIA all’epoca dell’attacco), ad aver accesso a tutte le informazioni sul fatto e, in particolare, a un video in cui si vede l’attuale vicepresidente, attorniato dai suoi uomini (tra cui vediamo anche David Estes) dare il nulla osta al raid contro Nazir. Questi è nascosto nei pressi di un complesso scolastico ed è quindi prevedibile una strage di bambini: un dato trascurabile per l’allora numero uno di Langley. Lo spettatore sa già come sono andate le cose: oltre 80 bambini, tra cui Issa, il figlio di Nazir, sono rimasti uccisi, il terrorista l’ha fatta franca e gli USA, per bocca del solito Walden, hanno dipinto come propaganda jihadista le voci sulla morte degli scolari. Il video indigna Saul, che sente vacillare la fiducia nell’Agenzia, nel suo lavoro; se la prende con Estes che, suo sottoposto al momento dell’infanticidio di massa, lo aveva tenuto all’oscuro di tutto. Sempre in questo terzo e ultimo giorno, Maggie va a recuperare la sorella alla centrale di polizia; sopraggiunge Brody, vuole parlare con Carie. In un breve e duro colloquio, il marine le intima di lasciar stare lui e la sua famiglia e piantarla – i fatti parlano a favore di Nick – con i sospetti. Poco dopo, il sergente deve fare due chiacchiere un altro interlocutore: Abu Nazir. Il leader qaedista è indignato per il fallimento dell’attentato ma Brody se la cava spiegando che infiltrarsi nell’amministrazione Walden e indirizzare attivamente le politiche americane sarebbe un risultato certamente più fruttuoso di un attacco kamikaze contro uomini prontamente rimpiazzabili. Nazir accetta il ragionamento, ma chiede una prova di fedeltà: uccidere Walker. Così, Nick pianta una pallottola in testa all’ex commilitone con il terrorista pakistano in collegamento telefonico. Un’ellissi temporale di quarantott’ore ci conduce alle ultime battute della puntata. Carrie, stremata, si è recata in ospedale per sottoporsi a elettroshock. Saul la raggiunge sperando di scongiurare la cosa; spiega alla figlioccia, confermandone alcune ipotesi (cioè quelle sul lutto di Nazir; non quelle sul ruolo terroristico di Brody), d’aver trovato la causa del periodo dormiente: la presenza di un figlio di Abu Nazir tra le 83 giovanissime vittime dei droni. Nonostante Berenson cerchi di farla rinunciare agli elettrodi, dimostrandole tutto il suo affetto e la sua stima, Carrie è irremovibile: ha sofferto troppo, non ce la fa più. Poco più tardi, in sala operatoria, mentre l’anestesia comincia a fare effetto, le immagini di lei e Brody le invadono il preziosissimo cervello. Proprio mentre la ragazza sta sprofondando nell’incoscienza, si fa spazio dentro di lei quel nome – “Issa” – chiamato tante volte di notte da Nick, anche durante il loro weekend alla baita. Scatta così nella Mathison l’ennesimo collegamento, anche questo, chi guarda lo sa, giusto. L’agente ha un guizzo, sembra riprendersi dal torpore per urlare al mondo (o, almeno, sussurrarlo a Saul) che il periodo giallo di Nazir, il suo lutto per la morte del figlio, tocca da vicino il sergente Nicholas Brody; tuttavia, l’anestetico fa il suo corso, Carrie chiude gli occhi e cala il sipario sulla prima stagione di Homeland, un filotto di dodici episodi di buonissimo livello, scritti e girati con rigore e creatività. Tiratore scelto è una degnissima chiusa – che poi chiusa non è – e nel suo abbondante minutaggio opera una spaccata da biliardo che prepara la seconda stagione. Una seconda stagione della cui esistenza il pubblico già sa e che, giocoforza, fa scartare a chi guarda alcune evoluzioni di trama. Come a dire: pregi e difetti della paninformazione, dei forum, di internet e, in generale, di chi, goloso, va a scoperchiare certi vasetti di Pandora.

In Tiratore scelto torna quella strategia narrativa e informativa che modella la serie, cioè un assetto per cui al sapere privilegiato del fruitore, alla sua presa salda (naturalmente, con salutari privazioni) sul mondo inscenato, se ne affianca uno – cioè il sapere di chi indaga – lacunoso e tremolante; e ancora un altro – quello di Carrie – di carattere brillantemente predittivo. La fragile protagonista si pone tra chi sa (e se ne sta incollato davanti al tv color) e chi, incosciente, ottuso e/o interessato, ignora: lei, infatti, ipotizza, costruisce, indovina. E, quasi per contrappasso, vede messa in dubbio la sua attendibilità, perché è fragile, spericolata, malata. Menomale che c’è Saul, solido mentore e aiutante, privo della magia di Carrie, quasi sempre disposto a seguire, al di là delle apparenze, i lucidi percorsi della ragazza. Se c’è qualcuno che, come e più del pubblico, è informato in merito a “quanto che c’è da sapere”, questi è Brody. Deciso inizialmente a seguire un copione firmato Abu Nazir, il sergente, punto da Dana – si tratta di una puntura splendidamente preparata, per accumulo, per sedimentazione – decide poi di improvvisare. Trova anche l’estro di ribaltare la situazione a suo favore, mostrandosi al mandante islamista come il più fedele e arguto dei seguaci. Su Brody si stringe una morsa; soltanto immaginandola, se ne avverte la spietata presa. Nick, per salvare la pelle, si rinnova qaedista quando ormai in lui sembra risvegliarsi un auspicabile lume in grado di ricondurlo al cuore dei suoi affetti, ai figli, alla moglie e, in generale, alla vita. Forse, al di là del ricordo, ancora insopportabile, della morte di Issa, Nick comincia a essere presente alla sua condotta, alle sue scelte, rendendosi conto che quel corpo dilaniato per distribuire morte sarebbe stato proprio il suo. Naturalmente, Brody non può licenziarsi, nemmeno usando a Nazir la cortesia di non pretendere la liquidazione. Non resta quindi altro da fare che attendere, per qualche mese, la seconda stagione; spettatori inattivi, sconteremo anche noi il nostro “periodo giallo”.

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